Treni, binari e stazioni che spesso sono associati a vacanze, viaggi, lavoro e paesaggi che scorrono sotto i nostri occhi, la notte scorsa si sono trasformati in un incubo per i cinque operai investiti dal treno e per i loro familiari, i compagni di lavoro che si sono salvati, i due macchinisti, incolpevoli protagonisti della tragedia, e per tutti i ferrovieri.
Resta da spiegare perché sette persone specializzate in quel tipo di manutenzioni si siano trovate a lavorare sul binario con la circolazione ancora attiva. Sarebbe stato chiuso al traffico solo pochi minuti dopo.
Le regole sulla carta sono chiare, prima di accedere al binario la squadra di lavoro deve ricevere una comunicazione formale per il nulla osta, che può arrivare solo dopo una complessa procedura che inizia dal gestore della circolazione, il capostazione locale o dirigente operativo che governa il traffico.
Questo la trasmette a un dipendente di Rfi sul posto che assume il ruolo di titolare dell’interruzione del traffico che a sua volta la gira ad un’altra figura che funge da scorta alla squadra di lavori; una sorta di “accompagnatore” che funge da anello di congiunzione tra Rfi e la ditta appaltatrice.
Alla fine dei lavori, attestata formalmente sul posto, il flusso di comunicazioni viaggia al contrario attraverso la scorta, i titolare dell’interruzione per arrivare al capostazione che solo allora potrà riaprire la linea al traffico e lasciar passare di nuovo i treni.
Ma la realtà del lavoro è ben diversa da quanto scritto sui documenti aziendali.
Non sappiamo con esattezza dove e come questo schema non abbia funzionato. Servirà l’inchiesta della procura e dei servizi ispettivi della Asl che si occupano di infortuni sul lavoro.
Sappiamo però con certezza che vi è una frequenza inaccettabile di questa tipologia di infortuni gravi e mortali che accadono sui nostri binari, sempre uguali a se stessi e sappiamo anche che né Rfi, datrice di lavoro, né sindacati, né le altre istituzioni preposte hanno affrontato efficacemente la grave questione.
Certo è che lavorare col traffico aperto è una modalità ad altissimo rischio.
Sul punto è in atto da anni un braccio di ferro, tra lavoratori, Rls, sindacati, ora sostenuti anche dall’Agenzia per la sicurezza ferroviaria Asfisa, contro Rfi, proprio per sospendere obbligatoriamente la circolazione durante le manutenzioni.
Resta infatti pericoloso non solo lavorare sul binario sui cui passa il treno, per poi spostarsi «su avvistamento» al suo passaggio, metodo ormai quasi in disuso, ma è pericoloso anche lavorare sul binario attiguo, tenendo conto che il treno passa a pochi centimetri da chi lavora, della complessità delle attività, della presenza di mezzi e macchinari rumorosi e del fatto che le lavorazioni oramai si svolgono prevalentemente di notte.
Visti i precedenti procedimenti giudiziari in casi analoghi di investimenti sui binari, temo che sarà ricercato soltanto l’errore umano dell’ultimo anello della catena di comando, senza che la giustizia si interroghi sulla frequenze e prevedibilità di queste morti, senza nessuna riflessione sulle dinamiche e le conseguenze del sistema degli appalti, sul peso abnorme che svolge la ricerca del profitto, sul peso della precarietà contrattuale nelle prassi lavorative irregolari, ignorate o anche solo tollerate.
A spingere la magistratura a cercare verso i piani più bassi della scala gerarchica delle ferrovie c’è oltretutto una normativa sulla sicurezza del lavoro obsoleta e autoreferenziale che avvantaggia le imprese del settore ferroviario ed Rfi in particolare rispetto al resto del mondo produttivo e industriale.
Caso forse unico di impresa che emana da se stessa la normativa di sicurezza mediante le sue «Istruzioni».
Infatti, il settore ferroviario gode di una vecchia normativa dal sapore borbonico risalente al 1974, oggi assolutamente inadeguata e di difficile interpretazione e applicazione.
L’armonizzazione necessaria con il resto dell’ordinamento, per garantire a chi lavora con le ferrovie le medesime tutele degli altri lavoratori, prevista dal Testo Unico 81/08, dopo innumerevoli rinvi viaggia con oltre 15 anni di ritardo.
Quella di ieri è stata una immane tragedia, balzata giustamente all’attenzione dell’opinione pubblica per il numero delle persone coinvolte contemporaneamente, e per l’inspiegabile arretratezza dei sistemi di protezione.
Tra i ferrovieri viene già chiamata la «nostra Thyssen». Siamo nel 2023, circondati da tecnologie avanzatissime che vediamo in azione dappertutto, anche nelle stesse ferrovie.
Basta guardare ai sistemi informatici che fanno viaggiare i treni a grande velocità, le stazioni connesse col mondo, le biglietterie online: ma per la sicurezza degli operai che lavorano per consentire tutto questo, siamo ancora ai dispacci telefonici e alle regole del secolo scorso.
Ci dobbiamo interrogare tutti sul da farsi tralasciando l’ipocrisia dei comunicai di solidarietà, per primi impresa e sindacati, ma anche governo, magistratura, Ispettorato del lavoro e Regioni, titolari del potere e dovere di vigilanza sulla salute e sicurezza dei lavoratori.
Ma l’unico rimedio veramente efficace non può che trovarsi in una rinnovata consapevolezza dei lavoratori e una loro mobilitazione. Per mettere in discussione tutte le fasi critiche e pericolose delle lavorazioni, iniziando dalle manutenzioni.
* macchinista e Rls, licenziato due volte (e due volte reintegrato dai giudici) per le denunce sulla sicurezza. Da il manifesto
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