Con gli attentati in Iran e a Beirut è partita un’altra fase della destabilizzazione del Medio Oriente, cominciata con l’invasione americana dell’Iraq nel 2003. Da allora – e sono più di venti anni – siamo passati attraverso il conflitto tra Hezbollah e Israele del 2006.
E poi le primavere arabe del 2011, l’intervento occidentale in Libia, il colpo di stato in Egitto del 2013 e la guerra di Siria, la mappa della regione è radicalmente mutata.
Non è cambiato però l’obiettivo di alcuni dei protagonisti: nei piani Usa e israeliani lo Stato ebraico deve restare l’unica superpotenza regionale. È per questo che si fa la guerra e si rischia il suo allargamento non per altro.
Il tanto citato ‘Patto di Abramo’ tra Israele e le monarchie del Golfo (voluto da Trump ed ereditato in pieno da Biden), passando sopra la testa dei palestinesi e il mantra impallidito dei «due popoli e due stati», serve, o serviva proprio a questo.
Il resto sono chiacchiere da bar sport dove tra un po’ andrà a reclutare i suoi supporter il principe assassino Mohammed bin Salman, amico di Putin, della Cina, e soprattutto dei tanti che qui paga e corrompe con sontuosi ingaggi.
È chiaro che in un situazione di alta tensione come quella attuale sono diversi gli attori, statali e non, interessati alla destabilizzazione.
L’Iran manovra i suoi proxies – i combattenti per procura – Stati uniti e Israele manovrano i loro, come dimostrano ampiamente gli attentati di questi anni nella repubblica islamica e fuori contro alti esponenti iraniani tra cui nel 2020 il generale Qassem Soleimani, lo stratega della guerra all’Isis in Iraq e in Siria poi assassinato a Baghdad dagli americani.
Tutti i fronti di guerra sono attivi da anni, dal Libano alla Siria, dall’Iraq al Mar Rosso allo Yemen: soltanto che la nostra memoria e le nostre attitudini a osservare gli eventi sono selettive in maniera quasi paranoica: se è Israele a fare la guerra lo Stato ebraico «si difende», se sono gli altri a farla questi sono tutti «terroristi».
Se poi siamo noi, l’Occidente e la Nato, a bombardare la regione, ammantiamo le nostre stragi come «esportazione della democrazia», con la difesa dell’ordine mondiale e dei nostri «valori».
Ma dove sono finiti i nostri valori a Gaza e in Palestina? E magari pure in Afghanistan, abbandonato al suo destino dopo una fuga indecorosa.
«Ma mi faccia il piacere», avrebbe detto Totò: avete mai visto in questi tre decenni una sia pur minima sanzione contro Israele per l’espansione abusiva delle colonie? Avete mai visto una condanna delle violenze israeliane in Cisgiordania? Ovviamente no.
Soltanto George Bush padre nel 1991 ebbe il coraggio di minacciare il congelamento degli aiuti militari a Tel Aviv per costringere il suo governo a sedersi la tavolo dei negoziati a Madrid con i palestinesi.
Cosa succede invece oggi? Gli Usa non solo non chiedono una tregua definitiva a Gaza, ma hanno varato altri 14 miliardi di aiuti a Israele per fare una guerra – e forse due – una sorta di strategia dell’annientamento dei palestinesi che non lascia vie di uscita.
Altro che due popoli e due stati: qui stiamo assistendo all’eliminazione di uno dei due senza fare nulla.
Non ci si poteva aspettare altro da un fronte, quello occidentale, che negli anni scorsi ha abbandonato i curdi, alleati nella guerra al Califfato e innalzati sul piedistallo come eroi, alla repressione sanguinosa del Sultano della Nato Erdogan.
Non sia mai poi che quegli stessi curdi tentino ora un processo democratico e inclusivo di etnie e religioni mai visto così in Medio Oriente: suona troppo di «sinistra» per piacere ai cantori dei media nostrani, trasformati ormai in lacchè della destra più becera.
Sono i fatti a parlare in questo senso non le nostre vaghe supposizioni. «Colpiremo ovunque», hanno promesso dopo il massacro compiuto da Hamas del 7 ottobre il premier israeliano Netanyahu e il suo ministro della Difesa Gallant che in estate aveva già promesso di ridurre il Libano «a una condizione medioevale».
Solo qui, nell’esangue Unione europea, si ignorava o si faceva finta di non capire quanto stava preparandosi alle porte di casa.
Del resto il conflitto è il propellente fondamentale che rende legittimi i governi israeliani e anche quelli iraniani, oltre che i vari movimenti mediorientali di guerriglia alimentati da ingiustizie infinite: l’emergenza continua, lo stato di assedio, sono il fine ultimo degli attori della regione ma anche di noi occidentali, non la pace.
Proprio perché mai interveniamo politicamente per raddrizzare i torti ma lasciando che quel diritto internazionale, spesso invocato nei confronti di nemici e avversari, venga quotidianamente calpestato dai nostri amici e alleati.
Ebbene quando l’ingiustizia si propaga si allargano anche i conflitti ed è questo che si rischia oggi in Medio Oriente.
Le ragioni le sappiamo. Ma come al solito volteremo la testa dall’altra parte. Se anche il conflitto restasse limitato i motivi per nuove guerre ci sono tutti: basta voler guardare.
* da il manifesto
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