Leggo che Alessandro Genovese, segretario generale della Fillea Cgil, sostiene che “per fermare le morti in edilizia serve una vera svolta”.
Condivido il pensiero, ed aggiungerei che “affinché le vere svolte si materializzino servono piccole svolte attuate con coerenza”.
Mi spiego meglio.
All’interno del mondo di appalti e subappalti convivono diverse criticità.
La più lampante, a livello normativo: l’eccezionalmente lassa formulazione dell’art. 29 d.lgs 276/2003 (c.d. Legge Biagi – Governo Berlusconi – Ministro del Lavoro Maroni) che, ormai da oltre 20 anni, consente l’affidamento di lavori in appalto/subappalto/sub-subappalto-… anche ad aziende completamente prive di patrimonio; il che ha consentito l’ingresso nel sistema economico di una costellazione di imprese – sovente false cooperative neocostituite e destinate ad essere liquidate entro 2 anni – che commettono le più disparate irregolarità sotto il profilo retributivo, fiscale, previdenziale e della sicurezza sul lavoro.
Non mi risulta che alcuno dei sindacati confederali abbia mai fatto proposte concrete e/o abbia attivato mobilitazioni o proteste tese ad intervenire su tale norma, che costituisce, a mio avviso, la principale colpevole, a monte, delle stragi cui sempre più spesso siamo costretti ad assistere.
Mi consta che un simile tentativo fu attuato da un gruppo di parlamentari del M5S, con la proposta di legge n. 1423/2018 del 6 dicembre 2018 – c.d. “proposta Costanzo” – composta di 9 articoli, la quale rimase tristemente insabbiata in Parlamento, principalmente perché neppure i partiti tradizionalmente in sintonia con il maggior sindacato del paese ritennero opportuna – o forse conveniente – una simile modifica.
Mi risulta altresì che il maggior sindacato di base (USB – Unione Sindacale di Base) organizzò diversi eventi, tra cui un primo convegno “Vite in Appalto” ed un secondo convegno “Esternalizzazioni e sfruttamento del lavoro. Il ‘sistema appalti’ alla prova dell’interesse collettivo”, analizzando la proposta, fornendo idee per migliorarla ed interloquendo, tra gli altri, con la Procura di Milano (la quale continua a dimostrare, con il suo tenace lavoro noto alle cronache, una seria ed effettiva volontà di indagare sulle diffuse irregolarità del sistema-appalti).
Altro problema immanente al sistema di cui sopra è correlato ai bassi salari: finché vi sarà la possibilità “legale” di riservare ai lavoratori della filiera salari molto bassi, vi sarà un’evidente convenienza ad appaltare e subappaltare le attività al massimo ribasso.
L’unica apparente forma di protezione salariale è infatti costituita da una norma, contenuta nella legge sulle cooperative del 2001 – ed applicabile solo a queste -, che impone a queste ultime di applicare il CCNL sottoscritto dai sindacati maggiormente rappresentativi: il che, purtroppo, non è affatto garanzia di proporzionalità e sufficienza della retribuzione, come numerosi CCNL dimostrano.
Nessuno dei sindacati confederali ha mai aderito “seriamente” nemmeno alla proposta di legge sul salario minimo (n. 1275/23), nei confronti della quale sono state invero mosse critiche del tutto infondate. Ad esempio, la Cgil sostenne, con una memoria depositata il 12 marzo del 2019 in Commissione Lavoro al Senato, che: “L’introduzione del salario minimo potrebbe favorire una fuoriuscita dall’applicazione dei contratti collettivi nazionali del lavoro, rivelandosi così uno strumento per abbassare salari e tutele delle lavoratrici”.
Asserzione talmente improbabile che non merita neppure di essere commentata.
Non serve a nulla lamentare i morti, augurarsi una svolta, auspicare una riforma: serve coerenza.
* avvocato giuslavorista del Foro di Brescia.
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