Il senato accademico della Sapienza conferma tutti gli accordi di ricerca con Israele, gli studenti pro-Palestina protestano in piazza e volano di nuovo i manganelli della polizia. Reazione misurata delle forze dell’ordine o sintomi di repressione del dissenso?
Ne parliamo con l’economista Emiliano Brancaccio, docente presso l’Università del Sannio, che al conflitto in Medio Oriente e alle altre guerre in corso ha dedicato il suo ultimo libro: Le condizioni economiche per la pace, da domani in libreria.
Professore, che cosa pensa degli accordi di collaborazione delle università italiane con Israele?
Che si possono mettere in discussione. È possibile venire incontro alle istanze di quell’ampio mondo universitario fatto non solo di studenti ma anche di tecnici, amministrativi, docenti e rappresentanti istituzionali che intendono esprimere concretamente il loro dissenso verso i massacri a Gaza compiuti dall’attuale governo Israeliano.
Ma in questo modo non viene meno il principio della libertà delle relazioni tra le università di tutto il mondo?
Io condivido il punto di vista di Tomaso Montanari. L’università è come i giochi olimpici, andrebbe preservata come terra franca, di pace e di interscambio continuo tra i popoli, scientifico e culturale, anche in tempi di guerra. Questo principio dovrebbe valere per tutti: per gli atenei russi o iraniani e quindi anche per quelli israeliani.
Ma qui non si tratta certo di bloccare le ricerche letterarie su Amos Oz o su qualche corrente artistica israeliana, né occorre interrompere le collaborazioni scientifiche nell’ambito della transizione ecologica o di altri settori pacifici.
Qui il punto è di intervenire in modo mirato, per esempio delineando criteri per riconoscere gli accordi che abbiano ricadute dirette o indirette sul potenziale militare dei paesi coinvolti, e bloccare quelli.
Questa può essere una base di dialogo con gli studenti e con gli altri settori dell’università che giustamente invocano segni tangibili di denuncia dei massacri compiuti dal governo Netanyahu.
I vertici della Sapienza hanno agito diversamente, confermando tutti gli accordi con Israele e chiudendo al dialogo sulle richieste degli stu-enti e del personale dipendente.
Viste anche le conseguenze, è chiaro che hanno sbagliato. Altrove, per fortuna, sia in Italia che all’estero si sta seguendo una linea più dialogica, consapevole che in questi tempi difficili l’università torna per forza di cose a essere un luogo di confronto generale tra le idee politiche, anche molto diverse tra loro.
Questo richiede un rinnovato impegno all’ascolto delle istanze sociali, al quale gli attuali vertici degli atenei sono un po’ disabituati.
Alcuni suoi colleghi dicono che l’università serve a formare i laureati, non a discutere dei grandi temi politici.
Mi rendo conto che per i colleghi educati sotto l’ideologia dell’università-azienda, vedere gli atenei che tornano a essere luoghi di confronto politico, anche aspro, è un po’ come cadere dalle nuvole e farsi male. Ma questi bagni di realtà potranno aiutare anche loro, a mettere più spesso il naso fuori dalla torre d’avorio e a maturare culturalmente. Ne hanno bisogno.
Altri sostengono che gli accordi con Israele debbono proseguire perché altrimenti gli atenei subiscono danni finanziari.
Non dicano sciocchezze, l’entità macroeconomica di questi accordi è modesta. I veri danni finanziari vengono dalla politica universitaria, che da anni taglia le risorse pubbliche, colpisce gli atenei statali e spinge verso la privatizzazione dell’istruzione superiore.
Alcuni opinionisti sostengono che la protesta studentesca è motivata dall’antisemitismo. Che ne pensa?
Le azioni di protesta contro la carneficina di palestinesi ad opera del governo israeliano sono condivise da spezzoni rilevanti delle comunità ebraiche, dagli Stati Uniti, al Regno Unito, alla Francia. Persino il quotidiano israeliano Hareetz riconosce che ci sono ragioni nelle critiche agli accordi delle università con il governo israeliano.
Se i commentatori pro-Netanyahu sono arrivati all’accusa di antisemitismo, vuol dire stanno pescando dal fondo del barile delle loro poche idee confuse.
Nel suo ultimo libro, lei osserva che i governi ricorrono sempre più spesso «all’infame legge del manganello» per difendere una politica estera sempre più bellicista. In effetti, ieri Meloni ancora una volta ha difeso le cariche della polizia dichiarando che a Roma ‘gli studenti non intendevano manifestare ma delinquere’. La guerra diventa un’occasione per restringere gli spazi del dissenso?
È così, purtroppo. E come è accaduto anche in passato, la scelta tra difendere o reprimere il dibattito nelle università diventa uno spartiacque più generale, tra chi intende proteggere e chi accetta invece di restringere gli spazi del confronto democratico.
Ma se gli studenti commettono reati che si fa?
Guardi, sono stato anche io studente. Una volta, mentre io e altri stavamo contrattando con un vice-questore il tempo di un sit-in studentesco in strada, un nostro collega piuttosto intemperante lanciò un sacco di spazzatura addosso ai poliziotti.
Seguì una carica della polizia violentissima, evidentemente preordinata, nella quale uno degli studenti fu investito da una volante, riportando gravi fratture. Il giorno dopo, anche per reazione a quanto avvenuto, le strade italiane furono riempite dalla più grande protesta di massa contro il primo governo Berlusconi.
Gli studenti possono sbagliare, i ministri degli Interni e le forze dell’ordine di uno stato democratico non debbono mai.
* da l’Unità
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redwolf
giusto. però non è semplice tirare una linea per separare gli accordi con ricadute dirette o indirette sul potenziale militare dagli altri. sui professori universitari brancaccio la tocca pure piano, per me ormai sono quasi tutti servi lobotomizzati.