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Il Fronte, il popolo, l’offensiva

In due successivi articoli pubblicati la settimana scorsa su “Analyse Opinion Critique” e ripubblicati in italiano dal “Manifesto”, Etienne Balibar indica come necessario rendere l’alleanza rapidamente formata in Francia con il nome di Nuovo Fronte Popolare, per tentare di arginare la marea di estrema destra, veramente degna di un tale nome.

Precisamente, cioè, essa dovrebbe somigliare (egli argomenta)  davvero al Fronte Popolare del 1936, e dovrebbe invece differire radicalmente da forme di “unità della sinistra” di cui Balibar indica l’esempio specialmente in quella che favorì e seguì la presidenza di François Mitterrand negli anni Ottanta del secolo scorso.

Per quanto riguarda strettamente la Francia, ciò vale tanto se in un certo senso il Fronte “vincerà” nell’imminente secondo turno delle elezioni legislative, quanto nella resistenza a questa o quella combinazione aperta, in stile meloniano, di neofascismo e neoliberalismo, che ne dovesse uscire.

In sé, questa è sicuramente una buona idea, specialmente pensando all’impeto iniziale del Fronte popolare storico, e tralasciando le sue successive traversie, dovute a gravi dissensi su questioni di politica internazionale. E la difficoltà, oggi, sta appunto nel fatto che dissensi su questo terreno, per quanto verbalmente ammorbiditi nel testo dell’accordo, sono presenti proprio all’inizio.

Prima di discutere ciò, e considerando che la pubblicazione da parte del “Manifesto” allude trasparentemente a un possibile significato anche italiano della cosa, occorre sottolineare che una tale critica delle passate esperienze di “unità della sinistra” (o comunque di ciò che si sia di volta in volta convenuto di definire tale) rappresenta la parte meno discutibile dell’intervento di Balibar (anche
perché dovrebbe essere ovvia).

Ed è una critica perfettamente applicabile all’Italia. Nei governi Prodi, e nelle combinazioni elettorali che li permisero e li sostennero, noi possiamo riconoscere infatti importanti analogie con i governi Mauroy tra il 1981 e il 1986 sotto la presidenza di Mitterrand, dai quali il secondo maggiore partito comunista dell’Occidente uscì con le ossa rotte più o meno come accadde del residuo ma non precisamente debole partito restato comunista (dopo la resa e la metamorfosi di quello che vi era stato il più grande) dopo il suo sostegno e poi addirittura la sua partecipazione ai governi pensati e presieduti dal tecnocrate bolognese.

La triste vicenda italiana che si svolse tra il 1996 e il 2008 presenta insomma un importante elemento comune con quella francese che si svolse tra il 1981 e il 1986, così come il pasticciato e surrettizio avvento di una cosiddetta “Seconda” Repubblica in Italia negli anni Novanta del secolo scorso ricalca il precedente dell’avvento della Quinta Repubblica in Francia nel 1958.

Non casualmente il  superamento di quel regime politico fa parte oggi della proposta politica finalmente offensiva, e potenzialmente vittoriosa, di Jean-Luc Mélenchon e della “France Insoumise”, mentre  non fece minimamente parte delle condizioni che il PCF avrebbe potuto e dovuto porre al più che ambiguo Mitterrand nel 1981: proprio come il ritorno al sistema elettorale proporzionale (almeno), e la conseguente piena libertà di lotta e di conquista, non fece parte delle condizioni (se ce ne furono) alle quali il PRC accettò di favorire Prodi nel 2006.

Una stretta combinazione di riforme democratiche sul terreno istituzionale, e di programmi anti-liberisti sul terreno economico, si mostra cioè necessaria: senza di ciò, i secondi sono destinati a restare perorazioni. Si potrebbe fare un elenco di cose buone possibili in regime pienamente parlamentare (“gouvernement d’Assemblée”, come si disse all’epoca della fondazione della Quarta Repubblica in Francia, la cui debole difesa già prima del 1958 costituisce una delle colpe storiche del PCF), e di cose cattive impossibili in esso.

Tra queste ultime, basta citare proprio l’attuale governo italiano. E si può aggiungere che il PCI realizzò ben maggiori risultati di giustizia e di progresso stando fuori dal governo entro un sistema pienamente rappresentativo di quanti (assai scarsi) il PRC fu in grado di fare avendo ministri, e addirittura la presidenza di una Camera dichiarata poi (ma si sapeva bene, come si sa oggi) illegittima.

In Italia, prima delle prossime elezioni politiche (che inevitabilmente ormai si svolgeranno secondo le presenti infami regole, alle quali comunque si dovrà fare fronte adeguatamente e con discernimento) le sfide riguarderanno la difesa e il rilancio della democrazia e dei fondamentali princìpi costituzionali: il referendum abrogativo della secessione dei ricchi e quello (se non ci saranno compromessi e tradimenti clamorosi) contro il cosiddetto premierato. 

La vittoria in entrambi sarebbe un colpo durissimo per l’attuale governo, e il fronte che dovrebbe formarsi può essere vittorioso (scuotendo la passività, l’adattamento e le paure su cui la destra più o meno neofascista tuttora può capitalizzare) soltanto se includerà nel suo messaggio rivendicazioni non soltanto difensive, ma vere riforme: riformatrici, cioè, delle passate controriforme liberiste volute innanzitutto dal centrosinistra, anche portando allo scoperto e facendo esplodere le contraddizioni interne ad esso.

Ma tanto in Italia quanto in Francia, un “popolo” unito come popolo del lavoro e della solidarietà, come quello che Balibar invita a suscitare e “trovare”, facendo sì che si ritrovi e si raccolga, non può esistere che come popolo della pace.

Questo manca nell’appello di Balibar, e questo resta sospeso nel programma del Fronte. Si dovrà scegliere, insomma, tra Jaurès e Clemenceau. Tra l’ideologia della guerra giusta e l’ideale dell’amicizia tra i popoli e anche della loro autodeterminazione, della sicurezza collettiva, del disarmo.

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