Nell’approcciare l’ultimo libro di Leo Essen, pubblicato pochi mesi fa, ho cercato di porre l’attenzione sui nessi impliciti ed espliciti che legano le “sensazioni e i concetti” o più semplicemente ho dato spazio alla formazione di quei pensieri che sono sgorgati dalle fluttuanti sinapsi della mente.
Pensieri che appaiono e poi prendono forma mediante la scrittura. Sembra che in principio, asserisce Essen, non ci siano solo pure sensazioni, non ci sia un groviglio di sensazioni dal quale emergerebbe la parola e il concetto. Senza concetto non ci sono sensazioni.
Che cosa sono allora le parole, i concetti?
Tra le tante risposte possibili, io assocerei o troverei calzante la proposizione che segue: «La fama, il nome, l’aspetto esteriore, la validità, l’usuale misura e peso di una cosa, dice Nietzsche (Gaia, 58) – in origine, per lo più, un errore e una determinazione arbitraria buttati addosso alle cose come un vestito e del tutto estranei all’essenza e perfino all’epidermide della cosa stessa». (1)
Non è un libro di facile lettura, per la miriade di sollecitazioni che l’interazione visiva ed uditiva stimola, per le interconnessioni concettuali che si dispiegano in autori del calibro di Bataille, Marx, Derrida, Hegel, Nietzsche, Heidegger, Freud e così via.
Le prime difficoltà sorgono dalla necessità di avere dimestichezza con le opere degli autori citati, con la disinvoltura con la quale Essen espone il tema della legge del valore-lavoro, coinvolgendo il potenziale lettore, oltre il già noto, oltre il seminato.
Tali ostacoli non sono insormontabili, in quanto l’autore del libro, sebbene utilizzi un linguaggio complesso e di un elevato registro, intriso di prosa e poesia, non perde di vista la funzione chiarificatrice della scrittura e soprattutto è lontano dagli sterili ambienti accademici.
Un libro che tratta un tema che ha dato filo da torcere a menti brillanti del XIX e del XX secolo, ma nel passare in rassegna i capitoli o articoli che lo compongono, si avverte una sorta di leggerezza, nonostante le ostiche e complicate elaborazioni della legge del valore (lavoro) in Nietzsche.
Giusto per avere un’idea delle profonde riflessioni di Nietzsche sul valore e che, in qualche modo, mi sorprendono positivamente, riporterei solo un estratto del testo: «Il valore non è una sostanza, non è la sostanza del lavoro. Il valore – a meno che non lo si voglia presupporre – deve essere inteso a partire dalla struttura di andirivieni di dolore e piacere in cui la forza avanza e arretra anticipandosi il capitale che andrà a spendere». (2)
La società nella quale predomina Il modo di produzione capitalistico, scrive Marx, si presenta come un’immane raccolta di merci. Ogni merce ha un valore d’uso e un valore di scambio. Il tentativo di prendere in considerazione solo il valore d’uso, rappresenta un ritorno al passato, al modo contadino. Le due determinazioni della merce costituiscono due momenti inseparabili dello stesso processo di valorizzazione.
Hegel, su quest’aspetto, esprime una nitida visione: «In nessun luogo, né in cielo né in terra c’è qualcosa che non contenga in sé tanto l’essere quanto il nulla. Non c’è niente, nessun valore d’uso, che non contenga in sé valore». (3)
Viviamo nel mondo alienato delle cose, siamo asserviti a qualcosa. Anche la teoria è servile – precisa Bataille – in quanto per conoscere bisogna sforzarsi, lavorare, ricominciare, ripetere. La conoscenza per essere sovrana dovrebbe prodursi all’istante, ma a quanto pare non è così.
Essen mette in rilievo che conosciamo bene solo l’oggetto del processo di produzione, poiché in quel processo di ripetere il progetto, si riproduce l’idea. La produzione implica un costante processo di alienazione, di uscire fuori da sé, che prende corpo attraverso il lavoro. Il sovrano non può produrre, in quanto non è alienato e dunque non lavora.
A questo punto entra in scena Heidegger, il quale afferma che non è corretto appiattire il marxismo sulla determinazione della categoria dell’alienazione di Hegel e nel contempo sottolinea che il luogo del confronto, non è il materialismo, ovvero l’idea che tutto è materia, ma occorre prendere come riferimento la «determinazione metafisica per la quale tutto l’ente appare come materiale di lavoro». (4)
Derrida sostiene che l’omaggio di Heidegger a Marx è ambiguo e nella sua opera, Teoria e prassi, puntualizza che bisogna smettere di vedere «il materialismo dialettico come il fondamento di una pura istanza materiale ed iniziare a pensarlo a partire dall’essenza del lavoro, dalla trasformazione, dal lavoro di trasformazione». (5)
Al di là delle ambiguità di Heidegger, non si può comprendere l’essenza del marxismo e del suo concetto di produzione senza comprendere l’essenza della tecnica.
La tecnica moderna, come quell’antica, è un disvelamento. Essa non «consiste in un’attività pratica, né tanto meno nel saper fare artigiano, ma nel produrre, e nella conoscenza che lo guida» (6)
Non si può prescindere dalla poiesis, parola di origine greca che significa, produrre, creare, far venire alla luce; che indica il processo mediante il quale qualcosa che non c’è (non c’era) può venire all’esistenza.
Hegel, Marx, Heidegger, Bataille, sebbene propongano soluzioni diverse, concordano su un punto: il lavoro è il tratto fondamentale del processo di trasformazione.
Hegel e Marx rivolgono lo sguardo al futuro e considerano il lavoro la strada della sofferenza, ma anche l’unica strada, l’unica esperienza, in grado di liberare l’uomo da questa stessa sofferenza. Da questo punto di vista i due grandi pensatori tedeschi sono più fiduciosi di Bataille, il quale sottolinea che non sia possibile sopprimere l’estraniazione.
Procedo con cautela, nello scorrere delle pagine e nel riformulare i miei pensieri, per usare un’espressione di Nietzsche, direi che vado “avanti zoppicando”, rivedo i concetti che ho sottolineato, ritorno sui miei passi e non ci sono scorciatoie.
Il modo di produzione capitalistico implica la trasformazione del denaro in capitale. Non è affatto una passeggiata! Essen approfondisce quest’aspetto e mette in evidenza che nella triade D-M-D: comperare per vendere, il denaro (D), passando per merce (M), ritorna lo stesso di prima.
A che serve dunque il passaggio per la merce (M)?
Serve a far diventare vero il denaro (D). La merce (M) rappresenta il corpo del valore d’uso, nel quale s’estingue il denaro (D).
Ma in questa circolazione, prosegue Essen, c’è la perfida intenzione di ritornare in possesso del denaro (D) anticipato.
Il denaro (D) è la prima forma in cui si presenta il capitale, ma nel momento in cui è anticipato non è capitale. Se il denaro (D) è destinato allo scopo di essere capitale, ci troviamo di fronte a capitale in potenza. Esso, «per diventare capitale effettivo, deve attendere, deve investirsi in un’azione, in un lavoro, in un travaglio, in un parto. Da questo parto ritorna arricchito. Nel figlio rivive il padre». (7)
La formula completa del processo di valorizzazione è quindi D-M-D’, dove D’ = D+ΔD, cioè è uguale alla somma di denaro originariamente anticipata + la variazione incrementale. Marx chiama plusvalore il denaro che figlia denaro.
In questo movimento, si verifica una differenza quantitativa, pertanto il denaro sottratto alla circolazione è maggiore rispetto a quello immesso.
Bataille, come ci fa notare Essen, «s’innesta in questo processo e decifra la sottile teologia, del padre che s’incarna nel figlio, genera il figlio; Dio padre si distingue dal Dio figlio, ma poi entrambi diventano coetanei e costituiscono una sola persona. Il capitale genera il plusvalore, il capitale anticipato genera il plusvalore, solo quando genera il plusvalore, il denaro (D) anticipato diventa capitale, successivamente alla distinzione, il denaro (D) figliato si unisce al capitale anticipato». (8)
È possibile che il denaro (D) anticipato, che è soggetto al rischio dell’impresa, non subisca un incremento, non generi plusvalore, ma è anche possibile che non ci siano sbocchi per investire il denaro (D) disponibile o capitale possibile, quindi se il ROI è nullo, il denaro (D) anticipato ristagna nella tesaurizzazione.
Ora, nella catena del valore D-M-D, per avviare il processo produttivo, il denaro (D) anticipato acquista (investe) la forza lavoro generica – non una forza lavoro particolare – s’incarna nel lavoro vivo, per usare un’espressione di Essen, quel lavoro in grado di vivificare il capitale morto, quel dispendio di braccia, muscoli e cervello, inteso come forza motrice umana, capace di mettere in moto il capitale costante o fisso.
Tuttavia, se la merce (M) forza lavoro, che è investita del potere del capitale – scrive Essen – può tutto o quasi tutto, subentra un problema, quando tutto è realizzato e non c’è più nulla da fare, allora «quell’uomo, che è espressione della forza lavoro generica, deve pur esistere, come dichiara Georges Bataille con la più semplice profondità». (9)
Su questo punto viene in soccorso la logica hegeliana, richiamata da Essen, quando afferma che: «M, indeterminato che non si media con D, è un nulla, né più né meno che nulla. Anche D, sciolto dalla serie, è puro nulla. È semplice somiglianza con sé.» (10)
Fuori dalla serie, fuori dalla produzione sembra che non ci siano vie d’uscita: il capitalista ammattisce, mentre il lavoratore diventa disoccupato.
Bataille, giustamente si pose il problema, cercando di uscire dallo schema teleologico. Infatti, già nel 1943, scrive: «se le contraddizioni interne al processo di valorizzazione D-M(e)-D’ arrivano al culmine; se M(e) che è sia un costo sia una risorsa, sia ciò che valorizza, sia ciò che può e deve essere risparmiato, per aumentare il surplus, si deve trovare un nuovo tipo di salto, un nuovo slancio?» (11)
Essen coglie un passaggio chiave di Bataille, quando analizza la distinzione tra cattiva e buona possibilità:
- Nel primo caso non si esce dal seminato, lo scopo corrisponde a una chiusura, siamo nell’ordine della produzione speculativa, cioè si semina solo in vista del raccolto, della raccolta di un frutto che riproduce le condizioni di partenza, altrimenti non si semina e addirittura no si dissoda neanche il terreno;
- Con la buona possibilità, invece, si esce dal seminato, lo scopo indefinito è apertura, la semina si disperde nella terra e si allarga – scrive Essen. In breve, si cerca di uscire dagli angusti limiti del processo di valorizzazione in cui l’essere è immerso.
Nonostante Bataille cerchi e “voglia” la chance, ogni volta che parla e agisce in questa direzione, avverte il “rumore delle catene”. Egli ha ancora in mente le difficoltà degli operai russi ad emanciparsi dall’estraniazione, ha presente le delusioni sulla Rivoluzione russa e soprattutto è consapevole delle brutte notizie che arrivano dall’Unione Sovietica, sulle condizioni di vita della classe lavoratrice, nel corso degli anni Trenta, ma nell’isolamento che vive durante la seconda guerra mondiale, non demorde e intravvede che il conflitto interno tra il capitale e lavoro sta spingendo il capitale verso il New Deal.
Il quarto articolo, si apre con un riferimento al libro «La nuova classe operaia» di Serge Mallet, pubblicato in Francia nel 1963, in esso, l’autore raccoglie una serie di articoli che analizzano nuovi rapporti di produzione, rispetto a quelli descritti da Marx nell’800, tenendo conto delle innovazioni tecnologiche.
In queste inchieste sull’evoluzione delle condizioni di vita degli operai francesi, di Mallet – Essen riassume – è possibile trovare tutti i temi che saranno ripresi negli anni sessanta dall’Operaismo italiano.
C’è il tema delle macchine e dell’automazione, c’è il tema dell’operaio sociale, c’è il tema del potere operaio e dell’autonomia operaia.
L’autore di Sputiamo sul lavoro rielabora questi temi, prendendo in esame le opere di Mario Tronti e Franco Berardi (Bifo) e individuando il filo conduttore che lega il pensiero operaista.
In questa breve sintesi, non c’è lo spazio per articolare questo discorso, ma mi preme rimarcare che coloro che saranno spinti dalla curiosità di leggere e rileggere il libro, non troveranno solo molti spunti di riflessione per le ricerche già intraprese, ma saranno catturati dallo stupore che suscitano i numerosi interrogativi che l’autore di questa raccolta di articoli pone durante l’esposizione.
Non ci sono risposte immediate, confezionate, pronte per l’uso. Il porre delle domande genera attesa, una sorta di sofferenza; a questo proposito Bataille dice: «L’uomo, è sempre più o meno angosciato, perché è sempre in attesa: in un’attesa che dobbiamo chiamare attesa di sé». (12)
Forse, a mio avviso, la scelta del titolo del libro, che può sembrare provocatoria, racchiude tutta quella sofferenza che tracima non solo quando apprendiamo che gli imprenditori tendono costantemente a disfarsi del lavoro, a disconoscerlo anche quando ne hanno bisogno, a svalutarlo dequalificandolo, ma anche quando gli stessi lavoratori e lavoratrici faticano o rifiutano di percepire che senza il lavoro si ferma tutto, si blocca tutto.
Agli operai delle fabbriche, durante il ciclo delle lotte negli anni 60 e 70, del secolo scorso, era chiaro il concetto che con gli scioperi potessero fermare la produzione, spegnere le macchine, rifiutare lo sfruttamento del lavoro.
Oggi le relazioni contrattuali dei lavoratori subordinati sono in una situazione diametralmente opposta, se un datore di lavoro del settore agricolo, invece di soccorrere il proprio dipendente, con un braccio tranciato da una macchina, e di portarlo in ospedale, raccoglie il braccio e l’accompagna a casa.
Il gesto dello sputo richiama il disprezzo, il disgusto per qualcosa o qualcuno; il disprezzo del lavoro, non significa solo non dargli un prezzo, trattarlo come una pezza per i piedi e sottovalutarlo, difatti mi viene in mente il discredito e la squalifica della validità dell’attività lavorativa, nella divisione sociale del lavoro.
Un tale disprezzo, è bene puntualizzare, non proviene solo dal mondo imprenditoriale, esso è legato anche a tutti quegli intellettuali che hanno visto nell’automazione la fine del lavoro e l’entrata nel paradiso terrestre. Su questo punto, l’autore del libro è molto chiaro nella sua introduzione, pertanto inviterei i lettori e le lettrici a confrontarsi con “l’oceano inconscio in cui galleggiano i nostri propositi”.
Note.
(1) Leo Essen Sputiamo sul lavoro, L.A.D. Gruppo editoriale, Roma 2024, p. 88.
(2) Idem, p. 106.
(3) Idem, p. 69.
(4) Idem, p. 17,
(5) Idem, p.18.
(6) Idem, p. 31.
(7) Idem, p. 55.
(8) Idem, p. 58.
(9) Idem, p. 63.
(10) Idem, p. 68.
(11) Idem, p. 73.
(12) Idem, p.9.
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Alessandro
Un giornale che si auto-definisce comunista come fa a pubblicare simili deliri reazionari heideggeriani?
Redazione Contropiano
Come può vedere, è un intervento esterno. Non rappresenta la linea editoriale, ma ad ogni modo non significa che un giornale comunista non possa dare spazio a un dibattito. Anzi, in questa fase storica il nostro dovere, nella controinformazione, è anche questo.