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Il 60° anniversario della morte di Palmiro Togliatti

«Ogni cosa si trasforma. Ogni cosa si trasforma secondo le sue proprie leggi. Anche noi siamo oggetti e soggetti delle trasformazioni, ne siamo parte passiva e parte attiva, consapevole, con nostri obiettivi e piani.

Ogni cosa si trasforma in un’altra e questa in un’altra ancora e poi ancora, costituendo gli anelli di una catena. Se prendiamo un anello della catena, esso è attaccato al primo, ma solo attraverso gli anelli intermedi. Se vogliamo comprendere il legame che unisce una cosa ad un’altra da cui proviene, se vogliamo comprendere come sta trasformandosi una cosa, dobbiamo ricostruire nella nostra mente le fasi intermedie attraverso le quali la prima si è trasformata in quella che stiamo esaminando.

Ogni cosa diviene secondo le sue leggi e tramite le circostanze esterne e accidentali che incontra. Se vogliamo comprendere come mai una cosa si è trasformata proprio in quest’altra e non in qualcosa di diverso, dobbiamo non solo conoscere le leggi proprie di quella trasformazione, ma anche ricostruire nella nostra mente le circostanze esterne e accidentali che hanno determinato passo dopo passo quel percorso.

Si dice che una cosa è divenuta un’altra attraverso la mediazione degli anelli intermedi e delle circostanze esterne. La mediazione è un aspetto universale della trasformazione.

Chi non riconosce la mediazione, in campo politico cade nell’opportunismo di sinistra o di destra. La lotta contro gli opportunisti di sinistra (gli estremisti di sinistra) è una lotta interna alle nostre fila. Anche la lotta contro gli opportunisti di destra è una lotta interna alle nostre fila, ma solo fino ad un certo punto. Dove sta la differenza tra i due fronti?

Gli opportunisti di sinistra negano le mediazioni (le fasi, i passaggi, i processi) attraverso cui si svolge ogni trasformazione reale. Essi politicamente sono ostili all’imperialismo e alla borghesia, ma in campo culturale, dell’orientamento e della concezione del mondo si limitano a negare le posizioni della borghesia, non le superano, le conservano rovesciate, vedono il mondo come la borghesia solo dal lato opposto.

Essi quindi subiscono ancora fortemente l’influenza della borghesia e non è strano che ogni tanto alcuni di essi di punto in bianco, sotto l’influsso di qualche evento traumatico, passino dall’altra parte. Gli opportunisti di sinistra possono essere dei discreti combattenti, mentre la loro direzione è rovinosa, sotto la loro direzione la sconfitta è certa.

La permanenza di un opportunista di sinistra nelle nostre fila è positiva solo finché riusciamo a contenerne l’influenza e a determinare un processo in cui egli si trasforma e corregge a fronte dei compiti assegnatigli.

Gli opportunisti di destra negano anch’essi le mediazioni dei processi reali, quindi non vedono i passaggi attraverso cui il presente di supremazia della borghesia si trasforma nel domani di supremazia del proletariato, in definitiva vedono un baratro invalicabile tra il presente e gli obiettivi della nostra rivoluzione e restano ancorati alla sponda del presente.

Hanno poca fiducia nella nostra vittoria perché non vedono i passaggi del cammino che la rende possibile. La loro opposizione alla borghesia è debole, sono inclini alla conciliazione, a staccarsi così poco dal presente da aderirvi quasi. A differenza degli opportunisti di sinistra essi hanno però l’appoggio della classe dominante, esprimono l’influenza della classe dominante nelle nostre fila, sono veicolo della sua influenza.

Gli opportunisti di sinistra esprimono un’influenza indiretta della borghesia, un’influenza culturale e di concezione del mondo, attraverso la negazione. Gli opportunisti di destra invece esprimono la cultura e la concezione del mondo dominante, quella più diffusa ed esprimono l’influenza politica della borghesia. I veri e propri portavoce della classe dominante tra le masse si confondono con loro.

Quindi essi usufruiscono della forza che deriva loro dall’appoggio della classe dominante, dal conservatorismo, dalla forza dell’abitudine, dalla rassegnazione, dalla stanchezza, dal servilismo, dal cedimento al ricatto e alla paura. Essi sono più dannosi (degli opportunisti di sinistra) anche come semplici militanti e la loro permanenza nelle nostre fila deve essere strettamente limitata a quelli che stanno trasformandosi.

Gli altri possono essere, devono essere accettati nelle organizzazioni di massa. Qui il nostro obiettivo è determinare l’orientamento generale e controllare saldamente l’apparato, ma non possiamo escludere in linea di principio la partecipazione degli opportunisti di destra alle organizzazioni di massa, perché anch’essi, come gli opportunisti di sinistra, incarnano in modo unilaterale e organico un limite reale delle masse ed escluderli dalle organizzazioni di massa vuol dire rifiutare di trattare e trasformare, di fare i conti con questo limite delle masse, cioè rinunciare al nostro compito e ai nostri obiettivi rivoluzionari.» 1

  1. Un tattico geniale”

Fare politica significa agire per trasformare il mondo. Nella politica è quindi contenuta tutta la filosofia reale di ognuno, nella politica sta la sostanza della storia… Non vi può essere dubbio che la politica, in questo modo intesa, collocata al vertice delle attività umane, acquista carattere di scienza”. Così scrive nella relazione svolta al convegno di studi gramsciani del 1958, con la limpidezza di una prosa che unisce sempre al rigore intellettuale una classica eleganza, Palmiro Togliatti.

Togliatti ha unito inscindibilmente nella sua personalità la figura dell’uomo politico e quella dell’uomo di cultura (due profili che oggi non solo non coincidono più, ma sono sempre più divaricati): una personalità, è impossibile negarlo, che occupa un posto centrale nella storia del comunismo novecentesco e nella storia della repubblica italiana. Ma quali sono gli insegnamenti che ha trasmesso al movimento operaio e comunista?

Orbene, al di là dei contenuti e degli approdi che hanno scandito le diverse stagioni di un’attività incessante dispiegàtasi lungo l’arco di mezzo secolo (e che secolo!), articolando con esemplare continuità la concezione della politica come filosofia e come scienza, gli insegnamenti che egli ha fornito al movimento di classe, e che costituiscono il ‘punto fermo’ di quelle generazioni di dirigenti comunisti che sono stati definiti “togliattiani”, possono essere riassunti in tre parole chiave: analisi concreta della situazione concreta, iniziativa politica e organizzazione.

Analisi concreta della situazione concreta: il metodo del materialismo storico e l’eurisi per opposizioni di classe applicati alla specifica realtà in cui occorre agire. Iniziativa politica come prodotto della individuazione di una conseguente linea di azione (alleati da conquistare, avversari da neutralizzare, nemici da isolare) per spostare a vantaggio del proletariato i rapporti di forza tra le classi, difendere e migliorare le condizioni di vita dei lavoratori, elevare la loro coscienza di classe.

Togliatti, “un tattico geniale”, secondo la incisiva definizione del maggiore pensatore marxista del Novecento, György Lukács. E organizzazione come politica collettiva strutturata, preparata e guidata. E ancora politica come azione comune (e non come la propria faccia su un manifesto); bisogno umano di partito: per unirsi, per organizzarsi, per vincere.

  1. La politica come “scelta di vita”

Uomini come Antonio Gramsci e come Palmiro Togliatti sono stati la confutazione in vita di un pregiudizio negativo contro la politica e contro i partiti che oggi è così diffuso da aver generato il neologismo dell’“antipolitica”.

La politica fu per loro una “scelta di vita”, espressione coniata proprio da uno di loro, Giorgio Amendola; il partito come comunità, non di destino, ma di volontà e di decisione: volontà e decisione collettive, quel ‘noi’ che è più che ‘io’, oggi anch’esso così fuori di moda.

Questa è la misura umana, politica e intellettuale di Togliatti. Il quale appartiene a quella straordinaria generazione di uomini e di donne “gettata” (il concetto è mutuato consapevolmente dalla filosofia dell’esistenza), gettata nella politica dalla grande storia.

La prima guerra mondiale, la militanza nel partito socialista, la Rivoluzione d’Ottobre, la partecipazione alle lotte del movimento operaio nel corso del “biennio rosso”, la scissione del socialismo e la costituzione del Partito Comunista d’Italia (sezione della Terza Internazionale), la sconfitta della prospettiva rivoluzionaria e l’ascesa del fascismo, l’esperienza di direzione presso il Comintern negli ‘anni di ferro e di fuoco’, l’esperienza fondamentale della guerra civile in Ispagna (laboratorio politico-militare e terreno di applicazione della strategia dei fronti popolari indicata al movimento operaio e comunista internazionale dal VII congresso dell’Internazionale Comunista), la seconda guerra mondiale, la crisi del fascismo, la Resistenza, la “svolta di Salerno” e la Costituzione, la lotta negli anni della restaurazione capitalistica e della ‘guerra fredda’, la strategia della “via italiana al socialismo”, la fase iniziale del centro-sinistra, il dialogo con il mondo cattolico: ecco, a grandi linee, il contesto di quel mezzo secolo (1914-1964) in cui si situano la personalità e l’azione di questo grande dirigente politico.

Per comprendere appieno la concezione politica di Togliatti e il modo in cui questi operò per tradurla in atto è fondamentale un’analisi approfondita del periodo che va dal 1943 al 1945.

  1. Una “rivoluzione senza rivoluzione”: 2 l’utopia togliattiana

Nella primavera del 1943 gli operai di Torino presero l’iniziativa di un possente movimento di sciopero che si estese anche a Milano e a Genova, coinvolgendo più di centomila lavoratori. La sconfitta tedesca a Stalingrado, lo sbarco angloamericano in Sicilia, gli scioperi operai del Nord fanno comprendere ai gruppi dirigenti della borghesia italiana che è giunto il momento di sbarazzarsi di Mussolini e di rifugiarsi sotto l’ala protettrice degli Alleati.

Nel contempo, il loro principale obiettivo è quello di prevenire uno sbocco rivoluzionario della crisi del regime, mentre il governo Badoglio mostra fin da subito la sua vera faccia, repressiva e antipopolare.

In una circolare governativa del governo Badoglio (definito con giusto disprezzo “governo dei Fu”) – la tristemente nota “circolare Roatta” del 26 luglio 1943 – si dànno le seguenti istruzioni, che saranno fedelmente applicate dall’esercito nella repressione sanguinosa dei moti popolari che esplosero nel periodo dei “quarantacinque giorni” (25 luglio 1943 – 8 settembre1943):

«Ogni movimento deve essere inesorabilmente stroncato in origine […] Le truppe procedano in formazione di combattimento, aprendo il fuoco a distanza, anche con mortai e artiglieria, senza preavvisi di sorta, come se si procedesse contro il nemico. Non si tiri mai in aria, ma colpire come in combattimento, e chiunque, anche isolatamente, compia atti di violenza contro le forze armate venga immediatamente passato per le armi3

La storia subisce una forte accelerazione: i partiti antifascisti e i sindacati ritornano alla legalità, mentre si moltiplicano gli scioperi in cui si esige la liberazione dei detenuti politici. Nelle fabbriche si costituiscono per elezione le commissioni operaie (i primo organi elettivi che sorgono in Italia dopo la caduta di Mussolini).

Frattanto i tedeschi che già avevano sette divisioni in Italia ne inviano altre 18, occupando di fatto il Nord e il Centro del paese senza che il governo Badoglio prenda alcuna misura difensiva. Il re e il maresciallo, e la grande borghesia italiana, memori della nota tradizione per cui la dinastia dei Savoia non aveva mai concluso una guerra dalla stessa parte in cui l’aveva iniziata, si illudevano di porre in atto il ‘revirement’ nel campo della politica estera e di potersi concentrare nella lotta contro il nemico interno, utilizzando l’apparato dello Stato fascista e avvalendosi del consenso dei tedeschi e degli angloamericani nel condurre in porto tale operazione.

Ma la reazione dei tedeschi chiuse questa prospettiva e l’unica soluzione che rimase al “Governo di Sua Maestà” fu quella di rifugiarsi al Sud, nel territorio occupato dalle truppe alleate, senza aver preso la minima misura difensiva e lasciando ai tedeschi il compito di reprimere il movimento antifascista nel Nord e nel Centro del paese. Dopo l’8 settembre passerà ancora più di un mese prima che Badoglio, dietro pressione degli Alleati, dichiari la guerra alla Germania.

A partire dal novembre 1943 il movimento di massa e l’azione armata cominciano ad assumere una grande ampiezza nella zona settentrionale e si sviluppano scioperi importanti in Piemonte, in Lombardia, in Liguria e in Toscana. Per iniziativa della direzione comunista del Nord e con l’appoggio del CLNAI, nel marzo 1944 viene dichiarato lo sciopero generale nel territorio occupato dai tedeschi.

Più di un milione di lavoratori partecipano al movimento, il più importante di questo genere durante la IIª guerra mondiale nell’Europa occupata. Contemporaneamente alle azioni di sciopero e alle altre forme di lotta di massa, si sviluppa rapidamente la lotta armata partigiana, Mentre nel Nord incomincia così a prendere corpo un tessuto di vero e proprio potere popolare, nel Sud agrario incominciano a formarsi le strutture di un nuovo potere politico della borghesia italiana.

Nel periodo che segue la caduta di Mussolini i ‘leader’ della sinistra cercano di giungere a un accordo con Badoglio per organizzare la lotta contro l’occupazione tedesca, ma la politica repressiva e antipopolare, praticata con immutato spirito forcaiolo dal re e dal maresciallo, e la loro tacita complicità con i nazisti rendono impossibile qualsiasi collaborazione.

Dopo l’abbandono di Roma il problema di creare un governo rappresentativo dell’antifascismo, che sia disposto a portare avanti la lotta contro la Germania nazista, balza in primo piano. Frattanto i “tre grandi” hanno riconosciuto ‘de facto’ il governo Badoglio e nella loro “Dichiarazione sull’Italia”, pubblicata alla fine dell’ottobre 1943, raccomandano l’inclusione nel governo di «rappresentanti di quei settori del popolo che si sono sempre opposti al fascismo».

Il 12 novembre 1943 la «Pravda» pubblica un articolo di Togliatti, il quale si trovava ancora in Unione Sovietica: «Le misure indicate in questa dichiarazione – scrive il capo del PCI – corrispondono esattamente alle aspirazioni e agli interessi del popolo italiano. Costituiscono il programma intorno a cui devono unirsi tutte le forze antifasciste democratiche del paese per rendere possibile la sua immediata realizzazione.»

Vale la pena di rammentare che la sostanza di questo “programma”, firmato dai rappresentanti di Churchill e di Roosevelt, consisteva nell’instaurazione di una democrazia borghese in Italia e che per iniziare la sua costruzione esso esigeva l’accordo tra i partiti antifascisti e il governo Badoglio, che era giustamente considerato da questi partiti come una sopravvivenza del fascismo.

Sennonché la posizione di Togliatti divergeva nettamente dalla posizione che in quel momento aveva il PCI nel paese. Non a caso un documento interno della direzione del partito che operava nell’Italia occupata, risalente alla fine di ottobre 1943, afferma quanto segue: «Compito e funzione della classe operaia è di porsi all’avanguardia della lotta per la liberazione nazionale, ed attraverso questa lotta conquistare tale influenza sul popolo italiano da divenire la forza direttiva per una effettiva democrazia popolare. Questa deve essere la politica del Partito comunista.»

Il documento indica due errori: il primo sarebbe consistito nell’identificare gli obiettivi della Resistenza con la rivoluzione proletaria, cadendo nell’“infantile estremismo”. «Ma sarebbe pure grave errore in senso opportunista quello di sottovalutare l’importanza del problema della direzione politica nel complesso delle forze fra cui opera la classe operaia, e per un malinteso senso di unità, accedere e consentire alle esigenze di quelle forze reazionarie di cui Badoglio e la monarchia sono l’espressione.» 4

È significativo che questo documento fosse pubblicato dalla stampa illegale del partito sotto forma di articolo nel mese di dicembre, dopo che la radio di Mosca aveva fatto conoscere la posizione di Togliatti. Merita inoltre di essere sottolineato che la politica del partito socialista in questo periodo non si poneva alla destra del PCI, ma era ben più radicale, e anche il Partito d’azione affermava che gli obiettivi della Resistenza non potevano limitarsi all’instaurazione di una democrazia borghese.

  1. La “svolta di Salerno” e la sua gestione opportunista

Alla fine del gennaio 1944 si riunisce a Bari un Congresso unitario di tutti i partiti antifascisti, cui assistono alcuni delegati del CLN. Il Partito d’azione propone al Congresso una serie di misure che vengono appoggiate dai comunisti e dai socialisti, oltre che dai delegati del CLN: esigere l’abdicazione immediata del re; costituirsi in Assemblea rappresentativa del paese fino alla elezione di un’Assemblea Costituente; designare una giunta esecutiva incaricata dei rapporti con le Nazioni Unite. Il nodo gordiano che non poteva essere sciolto se non con un atto di forza ed entrando in conflitto con gli Alleati, è però quello del destino del sovrano.

Viene tuttavia nominata una giunta esecutiva, ma il Congresso non arriva a costituirsi in Assemblea rappresentativa. Ad ogni modo, i partiti di sinistra non rinunciano alle loro posizioni; anzi, in risposta al discorso che Churchill pronuncia il 22 febbraio e in cui ironizza sulle risoluzioni antimonarchiche e antibadogliane del Congresso di Bari, 5 gli operai di Napoli indicono uno sciopero, che di fronte all’opposizione delle autorità militari alleate viene sostituito da un grande comizio popolare cui partecipano soltanto i partiti di sinistra.

Quando nel mese di marzo l’agitazione contro il governo raggiunge il culmine, Badoglio annuncia il riconoscimento del suo governo da parte dell’Unione Sovietica e il ristabilimento dei rapporti diplomatici tra i due paesi (gli Alleati non avevano ancora compiuto questo passo).

Questa è dunque la situazione che trova Togliatti quando sbarca a Napoli il 27 marzo 1944, deciso ad applicare il programma dei “tre grandi”, Non può allora sorprendere il fatto che il suo giudizio sulla politica dei partiti antifascisti di sinistra, e in particolare su quella del suo partito, fosse piuttosto severo. Anni dopo dirà ai suoi biografi che il PCI si era messo su una “strada pericolosa, senza prospettive”, giungendo al punto di organizzare «comizi di protesta contro Churchill, studiando con altri gruppi antifascisti la possibilità di fare una consultazione popolare per iniziativa non del governo ma dei partiti». 6

In un attimo Togliatti sposterà il partito dal piano inclinato di una politica di classe e lo porterà sulla retta via della politica di unità nazionale. Il 29 marzo si riuniscono i dirigenti del partito nella zona meridionale e Togliatti propone di «aggiornare il problema istituzionale fino al momento in cui potrà essere convocata un’Assemblea costituente, di mettere in primo piano l’unione di tutte le correnti politiche nella guerra contro la Germania e di giungere alla creazione immediata di un governo di unione nazionale».

Secondo quanto si legge nella stessa biografia, all’inizio “la maggior parte dei presenti fu sbalordita”, ma Togliatti, oltre ad essere un polemista di razza, espose il suo discorso con tutta l’autorevolezza che gli derivava dal prestigio dell’Internazionale comunista e dell’Unione Sovietica e, anche se alcuni vecchi dirigenti del partito non si lasciarono convincere così facilmente, finì con l’ottenere il consenso dell’uditorio al quale si rivolgeva. 7

La svolta del partito comunista, passata alla storia come la “svolta di Salerno”, permise di vincere la resistenza dei socialisti e degli ‘azionisti’. Vittorio Emanuele, cedendo alle pressioni di Benedetto Croce e di Roosevelt, accettò di ritirarsi e di nominare luogotenente del regno il principe Umberto, una volta che Roma fosse stata liberata. Nel nuovo governo Badoglio entrò come vice-presidente del Consiglio lo stesso Togliatti.

Orbene, nei documenti del PCI si è sempre presentata la costituzione del governo di unità nazionale presieduto da Badoglio come un’iniziativa essenzialmente italiana, il cui principale artefice era stato Togliatti.

In realtà si era trattato di un’operazione dei “tre grandi” e, secondo alcune fonti sovietiche, il merito dell’iniziativa deve essere attribuito al governo dell’URSS. La Grande Enciclopedia Sovietica lo afferma a chiare lettere: «… per iniziativa dell’URSS che l’11 marzo aveva stabilito relazioni dirette con il governo italiano, il 22 aprile 1944 venne riorganizzato il governo Badoglio con l’inclusione di rappresentanti dei sei partiti della coalizione antifascista.» 8

Siccome chi governava di fatto il territorio italiano era l’AMGOT (la commissione militare alleata, in cui non c’erano rappresentanti sovietici), il riconoscimento diplomatico del governo Badoglio, con l’ingresso dei comunisti in tale governo, dava all’URSS la possibilità di intervenire direttamente su questo terreno. Nell’ottica di Stalin la questione consisteva pertanto nel potenziare in alcuni paesi-chiave dell’Europa occidentale, come la Francia e l’Italia, i fattori capaci di controbilanciare l’influenza degli Alleati.

  1. La “svolta di Salerno” e il corso opportunista e revisionista del PCI

È doveroso, a questo punto, affrontare una questione cruciale che si può riassumere nella seguente domanda: che rapporto intercede tra la “svolta di Salerno” e il revisionismo togliattiano? In altri termini, quando cominciò a manifestarsi apertamente il revisionismo di Togliatti?

Nella ricerca della risposta corretta a questi interrogativi occorre, in primo luogo, sgombrare il campo da un falso problema e riconoscere che la scelta di formare un governo di unità nazionale per la lotta contro il nazifascismo era del tutto giusta e non sbarrava affatto la prospettiva della rivoluzione.

In secondo luogo, poiché non esiste alcun documento dell’epoca (e nemmeno posteriore a quell’epoca) in cui sia dato trovare una concreta analisi del PCI riguardo al rapporto di forze tra borghesia e proletariato nella congiuntura storica 1944-1947, il presupposto secondo cui tale rapporto non permetteva una soluzione socialista della crisi del capitalismo italiano (o conduceva inevitabilmente ad un esito di tipo greco) veniva affermato dalla direzione del PCI (ma analogo ragionamento valeva anche per il PCF) come una sorta di principio metafisico o di assioma matematico, partendo dal quale tutta la politica successiva del partito era giustificata.

In realtà, non fu la “svolta” in quanto tale, e tanto meno l’URSS, ad impedire uno sbocco rivoluzionario della crisi del capitalismo italiano; fu invece Togliatti a escluderlo in modo aprioristico usando la vaga formula della “democrazia progressiva” la quale, secondo la sua interpretazione, indicava un regime che, pur restando nell’àmbito della società borghese, si sarebbe trasformato gradualmente in un regime socialista grazie al progressivo estendersi dell’egemonia politico-culturale della classe operaia e dei suoi alleati, laddove tale egemonia era vista non come una delle condizioni per la conquista del potere ma come la via stessa per giungervi.

Insomma, non fu Stalin a scambiare la tattica per la strategia rivoluzionaria né fu la “svolta di Salerno” ad aprire il corso opportunista e revisionista del PCI. Fu invece la concreta prassi politica seguita in quel periodo da Togliatti e dal gruppo dirigente del PCI, che in quella congiuntura trovarono l’occasione per imboccare una linea di destra, revisionista, di cui si erano peraltro manifestati alcuni sintomi nel periodo precedente e di cui il browderismo fu la manifestazione più clamorosa a livello internazionale. 9

Tale linea era. da un lato, il prodotto della sfiducia nelle capacità e nelle possibilità rivoluzionarie del proletariato e dei suoi alleati, e dall’altro scaturiva dalla scelta di rimanere sul terreno preferito dalla borghesia e non su quello, più vantaggioso per il proletariato, di una lotta rivoluzionaria di massa per modificare i rapporti di forza e creare le condizioni della vittoria nel processo della rivoluzione ininterrotta che avrebbe dovuto portare dal capitalismo, attraverso la distruzione del fascismo, al socialismo/comunismo.

Questo orientamento democratico-riformista era già evidente nelle istruzioni per la Direzione del partito che Togliatti inviò il 6 giugno 1944 “a tutti i compagni e a tutte le formazioni di partito”. In questo importante documento Togliatti, dopo aver affermato che la linea generale del partito è l’insurrezione generale delle regioni occupate contro i nazifascisti, precisa «che l’insurrezione che noi vogliamo non ha lo scopo di imporre trasformazioni sociali e politiche in senso socialista e comunista, ma ha come scopo la liberazione nazionale e la distruzione del fascismo. Tutti gli altri problemi verranno risolti dal popolo, domani, una volta liberata tutta l’Italia, attraverso una libera consultazione popolare e l’elezione di una Assemblea costituente». 10

È quasi superfluo osservare che qui manca il concetto di una rivoluzione ininterrotta ed è invece presente il riferimento ad una futura democrazia fondata sui partiti, sia borghesi che proletari (del resto, è opportuno rammentare che i CLN erano basati sui partiti e non su organismi di massa).

  1. Il Togliatti revisionista: realismo o utopia?

Le prime tappe di questo percorso involutivo, conseguenza inesorabile della drastica esclusione di una linea rivoluzionaria, furono: la rinuncia a sfruttare la situazione di accesa lotta di classe, una vera e propria mobilitazione rivoluzionaria delle masse, apertasi nel 1945; l’amnistia ai fascisti; la mancata risposta di lotta quando nel maggio del 1947 il PCI fu estromesso dal governo per opera di De Gasperi, il quale agiva su mandato degli USA, che dovevano avviare il Piano Marshall, e del Vaticano, attestato con il papa Pio XII su una linea di aggressivo anticomunismo; l’art. 7 della Costituzione che, illudendosi di modificare l’atteggiamento del Vaticano, convalidava il Trattato e il Concordato mussoliniani che riconoscevano al cattolicesimo e al clero cattolico privilegi speciali ecc.

In buona sostanza, Togliatti sfruttò la nuova situazione politica, che egli stesso aveva contribuito a creare, e la stessa esperienza delle alleanze antifasciste per annebbiare la coscienza del proletariato e seguire un’altra linea, non più rivoluzionaria e di classe ma gradualista e interclassista, non più caratterizzata dal legame fra lotta antifascista e lotta per il socialismo ma subordinata agli interessi della classe dominante.

Egli non commise dunque solo errori tattici e di valutazione, ma strategici e di principio, escludendo la via rivoluzionaria della conquista del potere da parte della classe operaia, teorizzando la via pacifica e parlamentare, trasformandosi in tal modo da comunista in socialdemocratico ben prima della svolta revisionista attuata dal XX Congresso del PCUS (1956).

La critica di ordine ideologico va quindi centrata sul fatto che la ‘svolta’ non costituì l’inizio di un ampio disegno politico di classe (come allora numerosi amici e nemici del PCI credettero), ma fu invece l’inizio di quello che del resto lo stesso Togliatti proclamò, e ha poi sempre ribadito, che fosse, e cioè un inserimento strategico e permanente della classe operaia nella società borghese e nella sua gestione governativa.

In altri termini, quando Togliatti evocava la formula della “democrazia progressiva”, dimostrava di essere giunto alle ultime conseguenze del lungo viaggio che dal marxismo-leninismo l’aveva portato al revisionismo.

A pochi giorni dalla liberazione, il 7 aprile 1945, parlando al II Consiglio Nazionale del PCI, Togliatti precisava così gli obiettivi della propria politica: «1) Fare il più grande sforzo per la liberazione totale del paese…; 2) evitare che la liberazione del Nord sia accompagnata da urti e conflitti i quali possono creare gravi malintesi tra il popolo e le forze alleate liberatrici…; 3) evitare che si crei, liberato il Nord, una frattura tra il settentrione e il resto d’Italia, frattura che potrebbe essere esiziale per il nostro paese, in quanto aprirebbe un capitolo di storia pieno di confusione».

Naturalmente tutte queste preoccupazioni di “fratture”, di “urti” e di “conflitti” non potevano che mostrarsi il migliore alleato per il ritorno in forze del sistema borghese.

D’altra parte, tutta la teorizzazione togliattiana del “partito nuovo”, teso alla creazione di una “democrazia progressiva” in cui la classe operaia assumesse una funzione dirigente senza l’abbattimento delle strutture dello Stato borghese, conteneva, dal punto di vista del marxismo, il grave errore di confondere una egemonia politica con l’effettiva dittatura del proletariato conquistata per via insurrezionale.

Senza contare che, come si è notato in precedenza, la concezione, secondo cui la classe operaia potesse acquisire una funzione dirigente nella vita nazionale prima della (e senza la) conquista del potere politico di Stato, è una posizione tipicamente gradualista e socialdemocratica.

Era davvero passata molta acqua sotto i ponti da quando, dieci anni prima, un Togliatti ancora leninista aveva dichiarato al VII Congresso dell’Internazionale che una «collaborazione temporanea con la borghesia», così come teorizzata dalla politica dei fronti popolari, «non deve mai condurre a rinunciare alla lotta di classe, cioè non può e non deve essere mai una collaborazione riformista. È tanto più necessario sottolineare questo elemento, in quanto sappiamo che la borghesia, anche se in un determinato momento è costretta a prendere le armi per la difesa della libertà e dell’indipendenza nazionale, è sempre pronta a passare nel campo avversario di fronte al pericolo della trasformazione della guerra in guerra popolare e di una potente sollevazione delle masse operaie e contadine per esigere l’attuazione delle loro rivendicazioni di classe». 11

È stato osservato, da un punto di vista sia teorico sia storico, che «aver ridotto il partito alla ceralacca che tiene insieme il blocco storico, è stato uno dei più forti, forse il più forte, elemento di blocco dell’intera prospettiva rivoluzionaria, in Italia. Il concetto gramsciano di blocco storico era niente altro che la rilevazione di uno stadio particolare, di un momento nazionale dello sviluppo capitalistico. La sua immediata generalizzazione, nelle stesse opere del carcere, era già un primo errore.

Il secondo errore, molto più grave, fu la volgarizzazione togliattiana del partito nuovo che doveva tendere sempre più a identificarsi con questo blocco storico, fino a sparire in esso, man mano che la storia della nazione veniva a identificarsi con la politica nazionale del partito di tutto il popolo. È facile dire oggi: il disegno non è riuscito.

La verità è che non poteva riuscire. Il capitalismo non permette queste cose a chi, sia pure formalmente, parla a nome della classe avversaria. Il capitalismo tiene questi programmi per sé, li adatta al suo livello, li usa nel proprio sviluppo. Tutti hanno detto Togliatti realista. Ma è stato forse l’uomo più lontano dalla realtà sociale del suo paese che il movimento operaio abbia mai espresso. Viene il dubbio che il suo non fosse opportunismo ben calcolato, ma un’utopia bella e buona scarsamente ragionata.» 12

  1. Una ‘possibilità reale’ scartata a priori

Per converso, ricorrendo ad un’ipotesi controfattuale, si può provare a delineare uno scenario ben diverso, corrispondente a quella ‘possibilità reale’ che allora fu scartata dal gruppo dirigente del PCI a causa del condizionamento opportunista e revisionista. 13

La premessa maggiore dell’argomentazione che ci si propone di svolgere è la seguente: a partire dal 1943 la possibilità di una soluzione rivoluzionaria della guerra di liberazione contro il nazifascismo si profila, per quanto concerne lo scenario dell’Europa occidentale, in quattro paesi: Italia, Francia, Jugoslavia e Grecia. Nel contempo si profila la sconfitta della Germania e il ruolo decisivo che hanno in essa le armate sovietiche, la cui offensiva generale si sviluppa con un ritmo travolgente su tutti i fronti nell’estate di quell’anno.

Si può allora affermare, da questo punto di vista, che la ‘svolta’, in quanto espressione di una politica abile e matura, poteva costituire l’inizio di un’azione a largo raggio tendente a battere i nemici di classe isolandoli volta per volta dalle altre forze, a partire dal fascismo e dai tedeschi, passando attraverso gli Alleati, per giungere ai partiti conservatori e reazionari.

È innegabile che la possibilità di una linea politica che combinasse dialetticamente la lotta armata contro il nazifascismo con la lotta per una soluzione socialista si era presentata concretamente in Italia dopo la caduta di Mussolini, quando, per dirla con le parole di Togliatti, sprofondarono le vecchie fondamenta dello Stato borghese, compresa la sua organizzazione militare, ed ebbe inizio la sollevazione popolare più grande di tutta la storia d’Italia; quando sul fronte di questa formidabile avanzata popolare si trovarono comunisti, socialisti e intellettuali progressisti.

Sennonché durante i due anni trascorsi tra lo sbarco alleato in Sicilia e l’insurrezione del Nord, il PCI non si propose di organizzare la lotta delle masse contadine per la terra e frenò le tendenze verso una soluzione socialista che si profilavano nel grande movimento proletario del Nord. 

pratica, la gestione togliattiana della ‘svolta’, ossia della politica di unità nazionale, consisté nel frenare il movimento di massa per evitare, da un lato, la rottura della coalizione governativa e, dall’altro, qualsiasi scontro con le autorità militari angloamericane. Ma solo il movimento di massa, la sua affermazione come potere autonomo a tutti i livelli, con un suo specifico programma, poteva minare e alla fine impedire la restaurazione del potere tradizionale che si andava man mano compiendo.

La presenza degli Alleati avrebbe dovuto certamente suggerire metodi differenti rispetto agli jugoslavi, una forma di scontro essenzialmente politica. Ma proprio questa presenza e proprio il comportamento delle autorità militari angloamericane fornivano un vivo insegnamento al popolo e permettevano alla sinistra comunista di esprimere e far valere la coscienza nazionale risvegliata dalla guerra di liberazione, esigendo il pieno riconoscimento della sovranità italiana e il diritto del popolo a darsi liberamente i propri organi di governo senza che le autorità militari angloamericane interferissero negli affari interni dell’Italia.

Riassumendo e concludendo, nei primi mesi del 1945 la Germania era praticamente sconfitta; le armate sovietiche, rinforzate da importanti contingenti bulgari, romeni e polacchi e anche dall’Esercito di liberazione jugoslavo, avevano una decisiva superiorità nel continente rispetto alle forze alleate; gli Stati Uniti erano ancora impegnati nella guerra del Pacifico.

In tutta Europa era il momento del massimo entusiasmo popolare per gli ideali democratici e innovatori della Resistenza. Sviluppando allora l’ipotesi controfattuale in questione, ci si potrebbe domandare che cosa sarebbe successo se in questa situazione i movimenti operai della Francia e dell’Italia fossero passati risolutamente all’offensiva ponendo all’ordine del giorno la questione del potere dei lavoratori sulla base di un programma di trasformazione democratica e socialista. Sarebbe forse scattato l’intervento degli Alleati? Potevano Roosevelt o Truman rischiare politicamente di sostituirsi a Hitler contro la sinistra europea? Erano nelle condizioni militari per farlo?

Certo, il pericolo non poteva essere scartato, come nell’ottobre 1917 non poteva essere scartato il pericolo dell’intervento degli eserciti tedeschi, che stavano per schiacciare la rivoluzione russa. È però altrettanto vero che finora non si sono conosciute rivoluzioni munite di permesso e garantite da ogni pericolo…

Ponendosi al termine della congiuntura storica oggetto di questa disàmina, ci si può chiedere infine se la politica di unità nazionale del PCI sarebbe stata più fruttuosa, qualora a condizionarla e a limitarla, soprattutto sul terreno politico e sociale, non vi fosse stato il timore di un brutale intervento angloamericano.

È però incontestabile che essa venne sfruttata a fondo dalla borghesia italiana, poiché De Gasperi non deluse la fiducia e le speranze che le vecchie classi dirigenti italiane avevano riposto in lui. Poteva dirsi lo stesso riguardo alla fiducia e alle speranze che il proletariato italiano aveva riposto in coloro che lo rappresentavano nel momento in cui era avvenuta la maggiore catastrofe economica e sociale del capitalismo italiano?

La missione storica del partito rivoluzionario era forse quella di contribuire a preparare le condizioni economiche e politiche della restaurazione capitalistica? Nessuno può negare che i lavoratori italiani ottennero una serie di conquiste che non possono essere disprezzate: invece del fascismo la democrazia borghese; invece della monarchia la repubblica democratica con una Costituzione tanto avanzata quanto può esserlo una Costituzione borghese; infine, una serie di miglioramenti sociali.

  1. Un posto a destra nell’‘album di famiglia’ del gruppo dirigente bolscevico

E sì che perfino Indro Montanelli, il principe dei giornalisti italiani, ha riconosciuto una volta che, nella deprecata “prima Repubblica”, nonché, aggiungerei io, nella non esaltante storia italiana unitaria, non vi è stato (se si esclude nell’opposto campo di classe la Destra storica) un ceto politico migliore di quello comunista.

Con buona pace dei suoi denigratori, Togliatti ha incarnato prima di tutto il ‘tipo ideale’ di questo ceto, riuscendo a coniugare (per riprendere una distinzione concettuale di Max Weber), grazie a molta buona cultura (ecco la lezione di Gramsci), l’‘etica della convinzione’ con l’‘etica della responsabilità’. Togliatti, dunque, come uno dei protagonisti dell’età dei costruttori: costruttori insieme del partito comunista e della repubblica democratica.

Il suo progetto (rimasto incompiuto e oggi non più riproponibile): radicare il partito nel Paese, contribuire a costruire la forma repubblicana dello Stato, con la politica “fare società”, attraverso la politica produrre legame sociale, preparare, educare, organizzare i lavoratori, gli operai, i contadini, i ceti medi vecchi e nuovi, ad essere, a divenire, attraverso la lotta democratica e la formazione di una coscienza e di una cultura adeguate, forza politica di governo.

Sennonché esprimere un giudizio su Togliatti è come accostare la mano ad un filo dell’alta tensione: si rischia di rimanere fulminati. È dunque buona norma di prudenza che, come disse Niccolò Machiavelli di Girolamo Savonarola, “d’uno tanto uomo se ne debbe parlare con riverenza”.

Naturalmente, si possono e si devono, in àmbito comunista, discutere e criticare anche severamente certe scelte e certi orientamenti che hanno caratterizzato il pensiero e l’azione di Togliatti in un senso che, nel lessico marxista-leninista, va sotto il nome di revisionismo moderno.

Tuttavia, persino quando il Partito Comunista Cinese, nel celebre documento intitolato “Sulle divergenze tra il compagno Togliatti e noi”, pubblicato nel 1963, lo criticò apertamente e nominalmente come un esponente di primo piano del revisionismo moderno rappresentato da Kruscev, non venne mai meno il rispetto dovuto alla figura prestigiosa di colui che nel gruppo dirigente del Comintern occupava il terzo posto dopo Giuseppe Stalin e Giorgio Dimitrov.

A questo proposito, si può rammentare, fra i tanti cammei che hanno costellato la vita politica di Togliatti, un episodio significativo che illumina la sua personalità di comunista. Nel marzo del 1953, in occasione del suo sessantesimo compleanno, Togliatti tenne un breve discorso in una saletta del palazzo di via delle Botteghe Oscure.

Nella sua vita, disse, gli erano toccate “tre fortune”: essere stato “allievo” di Gramsci, essersi formato alla scuola della classe operaia torinese, essere stato “al centro” del lavoro del Comintern, “sotto la guida diretta di Stalin”. Su questo punto si soffermò a lungo forse anche perché solo tre settimane prima Stalin era morto e l’evento aveva suscitato una grande ondata di commozione nell’animo dei comunisti.

Invero, quelle “tre fortune” incisero in misura diversa e disuguale sul corso della sua vita e della sua opera. E se l’aver partecipato alle lotte del proletariato torinese nel primo dopoguerra fu decisivo per la sua scelta di campo; se il suo rapporto con Gramsci pesò solo fino ad un certo punto, vale a dire nel periodo dell’«Ordine Nuovo» e in quello della collaborazione con il compagno sardo nella elaborazione delle “Tesi di Lione” per il terzo congresso del PCd’I (1925-1926); il magistero marxista-leninista di Stalin negli anni della maturità lo segnò, sì, in modo indelebile, ma non in modo irreversibile.

Togliatti era una figura politicamente, ideologicamente e culturalmente più affine a Bucharin, e il posto che gli compete nell’‘album di famiglia’ bolscevico è situato sulla destra della foto di quel gruppo dirigente prestigioso.

1 Mao Tse-tung, Discorso alle Guardie Rosse, 1966.

2 Nel novembre del 1792, prendendo la parola dalla tribuna della Convenzione nazionale a Parigi, Maximilien Robespierre domandò: «Cittadini, volete una rivoluzione senza rivoluzione?» Poco meno di un mese dopo, da quella stessa tribuna, Robespierre riprenderà la parola in uno dei suoi discorsi più memorabili, nel corso del rovente dibattito sul processo a Luigi XVI, e ricorderà ai convenzionali che non spettava loro condannare o assolvere un re deposto, ma solo prendere una misura di “salute pubblica”, ossia giustiziarlo. Ciò significa che nella rivoluzione francese, così come in quella russa e in ogni rivoluzione degna di questo nome, il Terrore non è una parentesi o un incubo, ma è parte integrante del processo rivoluzionario. In questo senso è doveroso rammentare il fondamentale articolo di Stefano Merli, I nostri conti con la teoria della “rivoluzione senza rivoluzione” di Gramsci, pubblicato in «Giovane critica», 17 (autunno 1967), e ripubblicato nel n. 21 (autunno 1969) della stessa rivista. Riguardo al sintagma ossimorico di “rivoluzione senza rivoluzione”, parola d’ordine dell’“emancipazione accidiosa”, superfetazione dei cascami post-sessantotteschi e matrice di ogni opportunismo (e della stessa controrivoluzione), i Wu Ming hanno argutamente osservato: «Il 1789 senza il 1793, quindi. È una tendenza del tutto contemporanea. Coca-Cola senza caffeina, sigarette che si possono fumare in aereo perché non si accendono e non fanno fumo, yogurt senza grassi, dolcezza senza zucchero, sensazioni senza corpo, Guerra apparentemente senza Guerra, nel senso che non tocca noi, Rivoluzione senza Rivoluzione: l’edulcorazione prima di tutto».

3 R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione, vol. 2, Edizioni Oriente, Milano 1972, pp. 309-310.

4 F. Claudìn, La crisi del movimento comunista. Dal Comintern al Cominform, Feltrinelli, Milano 1974, pp. 276-277 e sgg. Nella nota a piè di pagina (p. 276) si rileva che in questo articolo Togliatti tace sul fatto che la dichiarazione delle tre potenze riguardante l’Italia conteneva una disposizione secondo la quale durante la guerra tutto il potere effettivo restava nelle mani delle autorità alleate (Allied Military Government of Occupied Territories, in sigla AMGOT). Il diritto del popolo italiano a eleggere democraticamente il suo governo veniva rimandato a dopo la vittoria.

5 È il “discorso della caffettiera”, così passato alla storia, il quale, se mai ce ne fosse bisogno, rivela le doti di brillante scrittore e di mordace polemista che possedeva Churchill. In questo discorso i partiti antifascisti vengono paragonati a “strofinacci”, che per di più non servono allo scopo, e su Benedetto Croce viene espresso questo sarcastico apprezzamento: «Apprendo da MacMillan che Croce è un professore nano sui 75 anni che ha scritto buoni libri di estetica e di filosofia. Non ho più fiducia in Croce che in Sforza. Vyšinskij, che ha provato a leggere i suoi libri, li ha trovati persino più noiosi di quelli di Carlo Marx…» (cfr. P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. V, Einaudi, Torino 1975, pp. 288-289).

6 Marcella e Maurizio Ferrara, Conversando con Togliatti, Edizioni di Cultura Sociale, Roma 1953, pp. 318-319.

7 In realtà, la gestione opportunista della ‘svolta’ non passò senza produrre lacerazioni nella sinistra operaia. Giancarlo Pajetta ebbe ad accennare in una conferenza al caso dei dirigenti comunisti calabresi che rifiutarono di «accettare i primi documenti del partito considerandoli come documenti falsificati da provocatori, quando videro posti in questi documenti i problemi della riscossa nazionale e dell’unità delle forze democratiche» (cfr. R. Del Carria, op. cit., p. 337).

8 Cfr. F. Claudìn, op. cit., p. 280.

9 Rivelatore fu l’atteggiamento di Togliatti nei confronti della deviazione rappresentata dal browderismo, richiamata esplicitamente negli interventi duramente critici verso il partito comunista italiano e quello francese che furono pronunciati dalla maggioranza dei delegati alla conferenza di Szklarska Poreba, da cui nacque il Cominform (1947-1956). Nel 1943 Earl Browder, segretario del partito comunista degli Stati Uniti, identificò infatti il “New Deal” rooseveltiano, cioè una politica economica che era sostanzialmente funzionale alla fuoriuscita dalla “grande crisi” del 1929 e alla preparazione della guerra, con una sorta di nuovo “fronte popolare” e decise di sciogliere in esso il CPUSA, trasformandolo in una “”Communist Political Association”, dalla cui denominazione era addirittura sparita ogni connotazione di partito. La trasformazione del partito in ‘associazione’ significava che i comunisti americani sarebbero stati una delle forze presenti nel ‘melting pot’ dell’esperienza ‘radical’ del “New Deal” e nel fronte antifascista americano (donde si può notare quanta fortuna abbia avuto, e abbia anche ai nostri giorni, il browderismo nella storia antica e recente della ‘sinistra’ nostrana). Narra Italo De Feo, al tempo segretario di Togliatti (cfr. Diario politico. 1943-1948, Rusconi, Milano 1973, pp. 114-116), che, quando i giornalisti americani chiesero al ‘leader’ italiano di commentare quella clamorosa decisione, egli rispose «che Browder era uno dei capi più autorevoli del comunismo internazionale» e che «gli sembrava che l’indirizzo adottato da Browder di piena collaborazione con l’amministrazione di Roosevelt corrispondesse agli interessi del suo paese e della causa della democrazia». Dopodiché, così Togliatti precisò il suo pensiero parlando con De Feo che l’accompagnava: «Riprese il discorso su Earl Browder e il comunismo americano, per dire che quegli era andato forse un po’ oltre nel ritenere che il capitalismo avesse perduto i suoi artigli; ma che nel sostenere che il partito comunista dovesse diventare un partito democratico come gli altri avesse ragione [e qui vien fatto di pensare al PD come esito finale di un processo trasformistico, spacciato come innovativo, che avrebbe compiuto, per gradi, un vero e proprio salto di qualità]… Le cellule e il resto, aggiunse, sono cose del passato… Ricordò che in questo spirito s’era sciolto il Komintern, che era stato l’organo più efficace del vecchio tipo di organizzazione». In realtà, mentre Stalin aveva disegnato una strategia geniale di utilizzazione delle contraddizioni fra i diversi capitalismi sia sul versante interno (approfondendo il conflitto tra la democrazia progressiva e lo Stato borghese) sia sul versante esterno (impedendo la saldatura tra paesi fascisti e paesi democratico-borghesi, che sarebbe stata esiziale per l’intero schieramento comunista internazionale), Togliatti ridusse quella strategia ad una politica di inserimento subalterno della classe operaia nelle strutture dello Stato borghese spacciandola, grazie anche all’uso del pensiero gramsciano in chiave revisionista, per una “trasformazione democratica e socialista” della società. Bisogna tenere presente, peraltro, che l’emergere delle tendenze revisioniste in quegli anni non fu un fenomeno soltanto italiano, ma internazionale, con precise radici di classe. Il browderismo era quindi il prodotto, in primo luogo, della formidabile pressione esercitata dall’imperialismo, in ispecie da quello statunitense, sulla classe operaia e sulle sue organizzazioni, e in secondo luogo dell’influenza delle concezioni borghesi e piccolo-borghesi nelle file dei partiti comunisti, concezioni non combattute e fatte passare da dirigenti che non avevano assimilato il marxismo-leninismo. In questo quadro spicca la debolezza ideologica e politica dei capi del PCI, le deviazioni dei quali sono note: basti ricordare la lunga storia di dissidi con il Komintern, culminata nello scioglimento del Comitato Centrale nel 1938. Ma vi è di più: nel 1947, quando si riunì in Polonia il Cominform, venne avanzata da Andrej Zdanov, a nome del PCUS, e dai dirigenti di altri partiti comunisti ed operai una dura critica al PCI (fra questi ultimi si distinse per ampiezza, radicalità ed asprezza quella del partito comunista jugoslavo). L’accusa non fu quella di aver compiuto la “svolta di Salerno”; fu invece il cretinismo parlamentare, il legalitarismo, lo sviluppo pacifico verso il socialismo, la subalternità del PCI nei confronti dell’ingerenza statunitense, l’essersi fatti estromettere dal governo (non di esservi entrati!), la mancanza di un piano offensivo, l’alleanza con la DC.

10 Cfr. R. Del Carria, op. cit., p. 335.

11 Ivi, pp. 364-365.

12 M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1971, pp. 116-117. A volte la verità, che ha una sua sottile ironia, può manifestarsi nelle voci più avverse.

13 Nella Scienza della logica Hegel afferma quanto segue: «Questa realtà, che costituisce la possibilità di una cosa, non è quindi la sua propria possibilità, ma è l’essere di un altro reale…» (Cfr. G. F. W. Hegel, Scienza della logica, Laterza, Bari 1968, vol. II, p. 617). Per Hegel, quindi, la possibilità è sempre qualcosa di realmente esistente; essa è possibilità solo in relazione a un altro esistente, a una realtà che va trasformandosi. Il marxismo, sviluppando l’interconnessione dialettica della possibilità e della realtà e riconoscendo nelle categorie “forme d’esserci, determinazioni d’esistenza” (Marx, Introduzione del 1857), applica la categoria modale di ‘possibilità reale’, elaborata da Hegel, all’analisi delle (e all’intervento nelle) situazioni concrete. Come argomenta, richiamandosi alla teoria del processo rivoluzionario formulata da Lenin, il filosofo sovietico Alexander Sceptulin, autore di un testo importante del “Diamat”, La filosofia marxista-leninista (Edizioni Progress, Mosca 1977, p. 188), «la possibilità diventa realtà… solo in opportune condizioni. Ad esempio, la possibilità della rivoluzione socialista nei paesi capitalistici può trasformarsi in realtà solo nel caso di una crisi di tutta la nazione, di una situazione in cui non solo gli strati inferiori non vogliano vivere come per il passato, ma anche gli strati superiori non possano governare come per il passato, in cui si aggravino più del solito l’angustia e la miseria delle classi oppresse e si accresca la loro attività, e, infine, in cui la classe operaia sia capace di compiere “azioni rivoluzionarie di massa sufficientemente forti per poter spezzare (o almeno incrinare) il vecchio governo». Forse che la ‘possibilità reale’ qui esposta non corrispondeva alle situazioni analizzate nel presente scritto? Ma se essa sussisteva e corrispondeva, che cosa le ha impedito di diventare, per dirla con Hegel, “un altro reale”?

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4 Commenti


  • Roberto

    Io di Togliatti, oltre alla nota spocchia e ai b8zantinismi, conosco tre fatti:
    1) l’amnistia, che prende il nome da lui, grazie alla quale i fascisti che occupavano la magistratura, pubblica amministrazione, servizi segreti, polizia e tutti gli altri gangli vitali dello stato sono transitati indenni nella Repubblica, mentre d’altro canto I processi contro i partigiani sono andati avanti fino agli anni settanta;
    2) in perfetta coerenza con quanto sopra, la nomina, a proprio consigliere giuridico, dell’ex presidente del fascistissimo Tribunale della Razza, Gaetano Azzariti, poi addirittura presidente della Corte Costituzionale;
    3) L’aver permesso, con un vile voltafaccia a sorpresa attuato alla Costituente, la futura e perpetua ingerenza del Vaticano nello Stato italiano, con il decisivo voto all’articolo 7 della Costituzione “laica e antifascista”, creando l’obbrobrio storico e giuridico di una legge con forza costituzionale, emanata “In nome della santissima Trinità” e suggellata dalla firma di Benito Mussolini.
    Quando leggo la beatificazione di quello che ha che ha posto le premesse storiche e culturali del disastro dell’attuale sinistra, mi viene il voltastomaco. E qua, invece di approfondire anche il suo eventuale ruolo nell’affossare la verità su Portella delle Ginestre, si discetta di Hegel…


    • Redazione Contropiano

      Forse una seconda lettura ti aiuterebbe a capire che Eros Barone – di cui abbiamo ospitato l’intervento – non propone nessuna “beatificazione”. Anche il passaggio dal comunismo al revisionismo, in un personaggio del genere, va studiato…


  • Roberto

    Scusate, mi sono spiegato male per tema di essere prolisso e vorrei chiarire. Quando parlavo di “beatificazione” non alludevo all’articolo di Eros Barone, che trovo assai equilibrato (tranne la riserva di cui dirò da ultimo), ma alle tante posizioni che vedo nella sinistra anche per parte di rispettabilissimi studiosi, che, quando non lo beatificano, parlano di Togliatti in termini, per me, insopportabilmente reverenziali e giustificazionisti.

    Faccio un esempio: lo stesso professor Luigi Canfora le cui doti intellettuali e culturali sono indiscutibili, pare stizzirsi a fronte di quelle che ritiene le abusate critiche sull’iniziativa amnistiale di Togliatti e replica che gli effetti nefasti furono colpa dell’applicazione pratica di essa, aggiungendo che a una guerra civile bisogna pur dare un termine (dimenticando che lo Stato italiano non ha ancora dato termine a quella contro il terrorismo rosso degli anni ’70).

    Ma chi applicò quell’amnistia, se non quella magistratura imbelle e servile che arrivava tutta integra (salvo qualche mosca bianca) dal fascismo? E cosa ci si poteva aspettare da quella corporazione, a sua volta integrata in un’organizzazione statuale rimasta ugualmente immutata? E Togliatti, così consapevole della propria statura politica e intellettuale, non si era immaginato quale sarebbe stata la messa in opera di quella legge? Vogliamo dunque dedurre che sia stato un povero sprovveduto? E cos’ha fatto, dopo, per denunciare e contrastare quella deriva applicativa, del tutto prevedibile, di massima indulgenza nei confronti di chi ci ha trascinato in una guerra al fianco di Hitler e di durezza estrema nei confronti di chi ci ha liberato?

    E che bisogno c’era di asservire la Nazione al Vaticano? Qui non è nemmeno il caso di tirar fuori l’altra tipica pezza dei giustificazionisti del “Migliore”: la possibile reazione degli Angloamericani, a cui non poteva fregare di meno dei preti (avremmo fatto la fine della Grecia, dicono…, dimenticando che l’Italia non è la Grecia e che, come dice anche Eros Barone, “finora non si sono conosciute rivoluzioni munite di permesso e garantite da ogni pericolo”; ammesso che si da considerarsi rivoluzione, l’affrancarsi dal papato).

    E che bisogno c’era di tenersi al fianco l’ex presidente del Tribunale della Razza? Non avevamo altri giuristi di vaglia, nella patria del diritto, che potessero sostituire una tale losca e infame figura? Un’imperdonabile leggerezza o, più probabilmente, una scelta elitistica motivata da un sentimento di intima solidarietà e affinità con un altro intellettuale reputato al proprio livello (tutto molto comunista, vero)?

    Quindi, alla fine e tornando all’articolo, il problema, secondo me, è questo: giusto discutere di passaggio dal comunismo (se mai c’è stato) al revisionismo in un personaggio come Togliatti, ma esiziale lasciare aperta all’infinito la questione, perdendosi in intellettualismi, senza tirare le fila e dare al personaggio un giudizio storico definitivo (e negativo) che sia di guida al futuro, specie se a pagare il suo disastroso gradualismo è tutt’ora la sinistra; perché è imperdonabile non aver capito che scendere a patti (per di più vergognosi) col più forte, significa fare la fine dell’agnello nella favola in cui s’abbeverava col lupo.

    Nel ’68 francese si diceva “CEDER UN PEU C’EST CAPITULER BEAUCOUP”, niente di meno togliattiano, ma niente di più valido oggi.


    • Redazione Contropiano

      Per quanto riguarda il processo teorico, ideologico, politico e culturale in cui consiste il revisionismo, si tratta di chiarirne il fondamento filosofico, che è costituito dallo storicismo inteso (non come riconoscimento di una storicità correlata alla dinamica differenziale dei modi di produzione e della lotta fra le classi ma) come forma di relativizzazione e liquidazione dei princìpi teorici del marxismo-leninismo.
      La versione ormai classica di questo storicismo, la cui origine risale al famoso saggio di Vincenzo Cuoco sulla rivoluzione partenopea del 1799, è quella che Togliatti ha elaborato nel nostro paese, dando vita ad una variante sofisticata (ma pur sempre controrivoluzionaria) di revisionismo, i cui amari frutti (istituzionali, politici e culturali) abbiamo ‘gustato’, come militanti della sinistra di classe, durante alcuni decenni.
      Sennonché nella mia periodizzazione del pensiero e dell’azione di Togliatti la “svolta di Salerno” è ovviamente inclusa nella fase marxista-leninista, laddove fu invece revisionista la gestione successiva di questa svolta, come Scoccimarro e Secchia, fra pochi altri, non mancarono, sia pure con un linguaggio esopico, di sottolineare.
      La “svolta di Salerno” e l’accantonamento della questione istituzionale, concordati da Stalin con Togliatti (e non viceversa, poiché Togliatti si dimostrò a lungo indeciso e contraddittorio nel lasso di tempo intercorso tra l’8 settembre 1943 e il gennaio del 1944), si inquadravano nella strategia dei fronti nazionali antifascisti elaborata dal Comintern come linea di azione dei comunisti nei paesi occupati dalla Germania. La svolta era in sintonia con gli interessi dell’Unione Sovietica, come era logico e giusto che fosse in quel frangente, e servì anche a contrastare i piani degli imperialisti, specie quelli inglesi, che volevano l’Italia più debole per controllare tutto il Mediterraneo, ma fu anche funzionale, in un momento di stallo della situazione politica, alla prosecuzione della lotta contro il nazismo e il fascismo in Italia.
      Non fu dunque la “svolta di Salerno”, necessaria in quella congiuntura storica, la radice di tutti gli opportunismi e della degenerazione revisionista.
      Ciò nondimeno, l’incapacità di comprendere i fondamenti stessi della tattica leninista nel suo legame indissolubile con la strategia rivoluzionaria, ha fatto sì che siano stati messi nello stesso sacco, recante l’etichetta “svolta di Salerno”, l’ingresso del Pci nel governo Badoglio, l’elaborazione da parte del gruppo dirigente togliattiano di una nuova strategia non più rivoluzionaria, la costruzione del “partito nuovo” portatore di tale linea ecc.
      È tipico dell’ideologia revisionista fare un sol fascio di tutte queste erbe, ma l’analisi storica e politica condotta con metodo materialista deve saper distinguere, per usare il linguaggio metaforico dei comunisti cinesi, tra i ‘fiori profumati’ e le ‘erbe velenose’: la “svolta di Salerno” fu una tattica giusta in quella determinata congiuntura, le altre invece, lungi dall’esserne le conseguenze, furono posizioni sbagliate e da combattere, sostanzialmente antitetiche alla linea indicata dal Comintern nel suo VII congresso (1935).
      Quella elaborata da Togliatti e denominata “democrazia progressiva” era un’altra linea, che non derivava dalla “svolta di Salerno” ma dall’abbandono di ogni obiettivo rivoluzionario e di classe, dal mutamento della natura del Partito comunista, dalla fine dell’internazionalismo proletario e dall’emergere di un nazionalismo di tipo socialdemocratico. La “democrazia progressiva” era, in buona sostanza, il nome della “società intermedia” configurata nella Carta, dal cui seno, nella visione irenistica di Togliatti, sarebbe dovuta sbocciare, senza rotture traumatiche di carattere rivoluzionario, in modo graduale e attraverso la costituzionalizzazione del predominio ideologico della Chiesa cattolica, la “società democratica e socialista”.
      Non fu Stalin a scambiare la tattica con la strategia rivoluzionaria né fu la “svolta di Salerno” ad innescare la deriva opportunista. Fu invece la concreta prassi seguìta in quel periodo cruciale da Togliatti e dal gruppo dirigente del Pci, che in quella situazione scelsero di imboccare una linea di destra, revisionista, di cui si erano manifestati alcuni sintomi nei periodi precedenti (si provi a leggere, partendo dall’indice dei primi volumi della “Storia del partito comunista” di Paolo Spriano, tutti i riferimenti a Manuilskij, il dirigente del Comintern incaricato di seguire le questioni italiane, e si scoprirà che questi fu, in molte occasioni, un critico implacabile delle tendenze opportuniste, di destra e di sinistra, presenti nel Pci durante i suoi primi venti anni di esistenza).
      La linea togliattiana esprimeva, in conclusione, da un lato la sfiducia nelle capacità e nelle possibilità rivoluzionarie del proletariato e dei suoi alleati, e dall’altro la scelta di rimanere sul terreno preferito dalla borghesia abbandonando quello più favorevole al proletariato, dove era possibile con la lotta rivoluzionaria di massa spostare in avanti i rapporti di forza e creare le condizioni della vittoria della rivoluzione socialista.

      Eros Barone

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