Parlando di Storia del diritto del lavoro, aiuta segnare degli spartiacque chiari che rimandino a immagini note ai più (1).
E allora partiamo, dall’avvento del Berlusconismo nel 94’, in cui si sono alternati governi di centro destra e centro sinistra, e maggioranze allargate.
Governi diversi, ma uguale tendenza alla riduzione delle tutele.
L’unico intervento che ha mosso minimamente in controtendenza è stato il Decreto dignità, del Governo Giallo – Verde. Questo è un dato di fatto con cui fare i conti.
Qualsiasi forma di avanzamento o resistenza, in questi anni, è avvenuta, dal punto di vista politico, da mobilitazioni dal basso (ad esempio, le battaglie contro la modifica dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori su cui tornerò, le lotte operaie in nuovi settori come la logistica, ad es.), dal punto di vista tecnico, dalla forza che i principi del diritto del lavoro di valenza costituzionale hanno esercitato sulla legge ordinaria.
Nulla è giunto dal parlamento.
I Referendum sul lavoro
Dato questo contesto, ben venga ogni iniziativa volta a eliminare leggi precarizzanti. Occorre andare a votare, e votare SI.
Ma ritengo sia utile una riflessione su ciò che serve e ciò che c’è.
Ciò che serve è un approccio radicale alle questioni del lavoro, cogliere alla radice, appunto, che ogni richiesta di sacrifici e responsabilità, è stata una concessione non alla modernità, ma ad un Capitalismo che ha rotto con la giustizia sociale.
Ciò che c’è: ancora una volta i Referendum peccano in timidezza, sperando forse di ottenere qualcosa mostrandoci docili.
La destra con chiarezza manda messaggi razzisti. Con chiarezza vanno mandati i messaggi progressisti.
In questo quadro, vorrei analizzare i Referendum.
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ABROGAZIONE DEL JOBS ACT2
Il referendum mira ad abrogare il d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, noto come Jobs Act.
Si può tranquillamente affermare che il d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 ha introdotto il più feroce e antipatico attacco legislativo al mondo del lavoro. E lo ha fatto il Partito Democratico, va necessariamente notato al fine di ulteriori approfondimenti.
Questa disposizione normativa disciplina, per i soli lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015, le sanzioni imposte al datore di lavoro nel caso in cui un Tribunale dichiari ingiusto un licenziamento.
Il Jobs Act, in un colpo solo
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Ha eliminato quasi del tutto il diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro (lasciandolo solo in pochi casi in cui un lavoratore fosse accusato di un fatto del tutto insussistente);
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ha forfettizzato e ridotto il risarcimento a favore del lavoratore stabilendolo in due mensilità per ogni biennio di servizio, con un minimo di 4 mensilità e un massimo di 24.
Lo dico meglio: un lavoratore fino a 4 anni di servizio non poteva che ricevere un risarcimento di 4 mesi di retribuzione, quale che fosse la gravità della condotta del datore di lavoro3.
Quindi bene eliminarlo. Ma non basta.
In primo luogo, è utile ricordare che fortunatamente la Corte Costituzionale ha scardinato l’impianto del Jobs act, dichiarando l’illegittimità costituzionale del risarcimento ancorato solo all’anzianità di servizio (Cort. Cost., n. 194/2018), consentendo la reintegrazione anche nel caso in cui il Giudice accerti che la condotta del lavoratore va punita solo con una sanzione disciplinare e non con il licenziamento (Corte Cost. n. 129/2024), o nel caso di licenziamento per soppressione del posto di lavoro, quando il Giudice accerti che il fatto allegato dal datore di lavoro non sussiste (Corte Cost. n. 128/2024).
Ma il punto importante è un altro.
Occorreva andare alla radice del problema.
Lo Statuto dei lavoratori (L. 300/70), con il famoso art. 18, prevedeva che il lavoratore licenziato ingiustamente avesse sempre diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro.
Questa norma ha segnato un passaggio di civiltà nel diritto del lavoro, in quanto muove dal principio che il posto di lavoro appartiene anzitutto al lavoratore e che la vita di chi lavora è sottratta al sopruso di chi detiene i mezzi di produzione.
L’art. 18 fosse era il punto di forza politico del mondo del lavoro.
E infatti Berlusconi, che di lotta di classe ne capiva, lo sapeva bene, tanto che dopo aver utilizzato gli anni ’90 per consolidare il suo potere, e dopo aver potuto contare sull’inizio del percorso recente di scardinamento delle tutele da parte del centro sinistra con il Pacchetto Treu del 1997, all’inizio del secolo ha tentato di modificare l’art. 18 L. 300/70.
Fu fermato da tre milioni di persone che riempirono il Circo Massimo.
Toccò così a Monti e alla Ministra Fornero, ancora una volta con un governo sostenuto dal Partito Democratico, di modificare l’art. 18 dello statuto dei lavoratori, riducendo le ipotesi di reintegrazione per il licenziamento illegittimo.
Non è questa la sede per analizzare nel dettaglio le modifiche della Legge Fornero, il punto è che con il nuovo articolo 18 è il momento recente di scardinamento delle conquiste giuridiche del lavoro.
Va detto, che ancora nel 2017 con un precedente referendum la CGIL aveva proposto un ritorno al vecchio art. 18, ma il quesito era stato dichiarato inammissibile per questioni connesse alla formulazione del quesito.
Ma il punto politico rimane. L’attuale referendum tralascia di attaccare il vero “nemico” e di perseguire il necessario obiettivo: la generalizzazione del diritto alla reintegrazione nel caso di licenziamento illegittimo.
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Il licenziamento nelle piccole imprese4
Questo quesito, collegato al precedente, riguarda le sanzioni imposte al datore di lavoro nel caso in cui un Tribunale dichiari ingiusto un licenziamento adottato da una piccola impresa con meno di 15 dipendenti.
Al momento la legge 604/66 prevede solo una tutela risarcitoria con un massimo di 6 mensilità.
Come al solito, lo dico chiaramente: il lavoratore licenziato ingiustamente da una impresa con pochi dipendenti può avere solo un piccolo risarcimento.
Si tratta di una norma da sempre discutibile, tanto che la mancanza di adeguata tutela dei lavoratori delle piccole imprese fu uno dei motivi astensione da parte del PCI.
Ma adesso è anche anacronistico, in un mondo in cui capita che grandi imprese abbiano pochi dipendenti, che a causa di meccanismi di aggregazione tra imprese il numero dei dipendenti non sia più segnale di forza del datore.
L’inadeguatezza della norma è stata segnalata anche dalla Corte Costituzionale (sento. N. 183/22) che ha precisato che “Tali esigenze di effettività e di adeguatezza [che riguardano il licenziamento in generale NDA] della tutela si impongono anche per i licenziamenti intimati da datori di lavoro di più piccole dimensioni (di cui ai citati commi ottavo e nono dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori)”. Perciò la Consulta ha chiesto al legislatore di intervenire, ma ovviamente tutto tace.
Ebbene, il referendum propone di eliminare la soglia massima del risarcimento, consentendo così al Giudice di adottare un risarcimento superiore.
E qui sta la erronea timidezza.
Come detto, l’obiettivo politico da rivendicare consiste nell’ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro per ogni caso di licenziamento illegittimo, per ribadire la prevalenza assoluta della dignità della persona.
Non è la prima volta che si pone la questione. Rifondazione comunista nel 2003 propose proprio un referendum di questo tipo, a cui la CGIL diede il suo appoggio, non raggiungendo il quorum.
Cosa è cambiato negli ultimi vent’anni per consigliare un altro approccio?
Nulla, anzi è ancora più necessario segnare l’esigenza di avanzamento del mondo del lavoro.
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Contratti a termine5
Condivo a pieno questo referendum.
Se vi fosse sincerità la questione dei contratti a tempo determinato sarebbe semplicissima. Vanno applicati per i picchi di produzione. Assume a termine la fabbrica di panettoni per le feste di natale.
Punto.
I tentativi di liberalizzazione altro non sono che il sogno del capitalismo verace di addossare sui lavoratori il rischio della programmazione del lavoro e della produzione.
Ancora una volta la liberalizzazione più feroce è venuta da Renzi con il Jobs act che sostanzialmente aveva consentito sempre l’assunzione a termine con il solo limite di trentasei mesi.
Il Decreto dignità, si ripete l’unico provvedimento in lieve controtendenza di cui ho memoria, ha ripristinato delle causali rigide (consentendo un’assunzione libera solo per i primi 12 mesi), allargate ulteriormente dal Governo Meloni che mira a consentire l’inserimento di causali di apposizione al contratto a tempo determinato da parte dei contratti collettivi.
Ebbene, il referendum mira a ripristinare le causali rigide da imporre dal primo giorno.
Un approccio netto. Giusto.
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Gli appalti e sicurezza6
Anche qui si trascura la radice del problema.
IL referendum interviene sull’ art. 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81.
La disposizione normativa è il testo unico sulla sicurezza e l’art. 26 si occupa di “Obblighi connessi ai contratti d’appalto o d’opera o di somministrazione”.
In particolare, il comma 4 dell’art. 26 prevede che
“l’imprenditore committente risponde in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, per tutti i danni per i quali il lavoratore, dipendente dall’appaltatore o dal subappaltatore, non risulti indennizzato ad opera dell’Istituto nazionale per l’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) o dell’Istituto di previdenza per il settore marittimo (IPSEMA). Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.”
Si tratta del c.d. Danno differenziale, che è il risarcimento del danno dovuto al lavoratore in caso di infortunio conseguente alla colpa del datore di lavoro. Tale risarcimento non è coperto dall’INAIL, che in quanto assicurazione, interviene su ogni infortunio occasionato dal rapporto di lavoro, a prescindere da una colpa del datore, ma con un indennizzo che non comprende la totalità dei danni che possono essere chiesti al datore in caso di colpa.
Ebbene, l’art. 26 comma 4 estende la responsabilità per il danno differenziale al committente.
IL referendum vuol abrogare l’ultima parte dell’art. 26 comma 4 che dice: “Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.”. Questa disposizione esenta il committente per il danno riconducibile all’attività specifica svolta dall’appaltatore, sicché l’obiettivo del referendum è di estendere al Committente ogni ipotesi di responsabilità per danno differenziale dovuto al dipendente dell’appaltatore.
Bene.
Ma non coglie la radice.
Occorre stigmatizzare anzitutto la funzione principale degli appalti. Nota a tutti, che incide sulla vita di migliaia di famiglie, ma che non fa scandalo, ahimè.
Gli appalti sono uno strumento di peggioramento delle condizioni di lavoro. Il motivo principale – dichiarato, pensato, taciuto, o magari ignorato anche da committenti che seguono solo il flusso delle cose o i consigli dei loro consulenti del lavoro – è indebolire i lavoratori senza perdere il controllo della produzione. E il cambio di appalto, un occasione per raschiare il fondo.
Il congegno normativo che ha agevolato questo è frutto di una idea geniale e diabolica del governo Berlusconi e del Ministro Sacconi all’inizio degli anni 2000.
Mi riferisco all’art. 29 dlgs 276/03 che in un colpo solo ha distrutto il contratto di appalto, quello serio.
Anche qui, mi scuso, devo citare la norma.
Ai sensi dell’art. 1655 c.c. con il contratto di appalto l’appaltatore “assume, con organizzazione dei mezzi necessari e con gestione a proprio rischio, il compimento di un’opera o di un servizio verso un corrispettivo in danaro. “.
L’appalto è quello che tutto conosciamo, da secoli. Un soggetto, che ha una sua struttura organizzativa materiale fa una cosa per un altro, che non li ha e non li potrebbe avere perché fa altro.
Ebbene, l’art. 29 dlgs 276/03 ha previsto che l’organizzazione dei mezzi necessari può risultare “dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto,”.
Da allora sono proliferati appalti in cui l’appaltatore non conferisce nulla. In molti casi l’appaltatore altro non è che un commercialista che realizza buste paga, ma anche dove realmente l’appaltatore organizza il lavoratori non è quello che vende davvero. Il committente paga la possibilità di poter mantenere il potere sulla produzione senza doversi addossare i diritti dei lavoratori.
La questione non muta nella sua essenza con l’introduzione di norme che garantiscono ai lavoratori in appalto di poter chiedere le retribuzioni non pagate al committente, o poter pretendere lo stesso CCNL o la stessa retribuzione (mi riferisco al D.L. n. 19/2024 che ha introdotto un nuovo comma 1bis7).
Occorre cambiare il funzionamento del sistema.
L’Appalto deve essere consentito solo quando l’appaltatore dia un contributo materiale notevole e il committente dimostri di non poterne fare fronte con la sua organizzazione.
Pertanto, l’intervento da realizzare, non sta a me dire con che strumenti, consiste nel vietare appalti in cui il servizio coincida con “l’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto,”.
Questo segnalerebbe il problema e toglierebbe nelle mani del capitalismo versa uno strumento di sfruttamento.
*avvocato del lavoro
Note:
1 Il presente intervento non è rivolto ad un pubblico di operatori del diritto, pertanto concetti giuridici vengono descritti in maniera semplificata, con l’obiettivo di essere fruibili. Questo a volte sacrifica il necessario rigore giuridico, di cui mi scuso.
2 «Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza?»
3 Per completezza preciso che rimanevano tutelati i lavoratori vittime di discriminazione o atti ritorsivi per i quali permaneva il diritto alla reintegrazione.
4 Volete voi l’abrogazione dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, recante “Norme sui licenziamenti individuali”, come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, n. 108, limitatamente alle parole: “compreso tra un”, alle parole “ed un massimo di 6” e alle parole “La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.”?»
5 «Volete voi l’abrogazione dell’articolo 19 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 recante “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183”, comma 1, limitatamente alle parole “non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque”, alle parole “in presenza di almeno una delle seguenti condizioni”, alle parole “in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2024, per esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti;” e alle parole “b bis)”; comma 1 -bis , limitatamente alle parole “di durata superiore a dodici mesi” e alle parole “dalla data di superamento del termine di dodici mesi”; comma 4, limitatamente alle parole “,in caso di rinnovo,” e alle parole “solo quando il termine complessivo eccede i dodici mesi”; articolo 21, comma 01, limitatamente alle parole “liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente,”?»
6 Volete voi l’abrogazione dell’art. 26, comma 4, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, recante “Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” come modificato dall’art. 16 del decreto legislativo 3 agosto 2009 n. 106, dall’art. 32 del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modifiche dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, nonché dall’art. 13 del decreto legge 21 ottobre 2021, n. 146, convertito con modifiche dalla legge 17 dicembre 2021, n. 215, limitatamente alle parole “Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.”?»
7 ((1-bis. Al personale impiegato nell’appalto di opere o servizi e nel subappalto spetta un trattamento economico e normativo complessivamente non inferiore a quello previsto dal contratto collettivo nazionale e territoriale stipulato dalle associazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, applicato nel settore e per la zona strettamente connessi con l’attività oggetto dell’appalto e del subappalto))
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