L’ immigrazione ci rivela qualcosa di più di un “discorso pubblico” viziato da pregiudizi e fake news. I dati smentiscono i talk show ma non basta. C’è un’incomprensione della sfida sociale (anche da parte della sinistra), al lavoro e al welfare che oggi confinano con la marginalità di tutta la società e non solo degli immigrati.
E un’impronunciabile percezione psicosociologica che ci costringe a indossare “maschere bianche“ di fronte alla “pelle nera” (ma anche olivastra, orientale, della provincia oppure di Bergamo de so e de sotta). L’apartheid economico sociale e il colonialismo economico e mentale, sono tra di noi e fanno il paio con un nazionalismo risorto.
Una passeggiata estiva…
L’esperienza visiva dell’estate lascia sempre un che d’inspiegabile. Di non visto o visto di nuovo, con occhi diversi. Non si tratta di poesia ma di pura prosa. Avendo più tempo e cercando il “fresco”, a volte basta una passeggiata. La “brigata di cucina“ alle 18.30 fuori dal ristorante a fumarsi l’ultima sigaretta prima dell’inizio del servizio: tutti parlano tra loro e si sorridono, talvolta parole in dialetto, pronunciate da due indiani, un paio di maghrebini , un africano scuro dei Paesi dell’interno, talvolta un filippino e forse due studenti italiani, che poi stanno come “aiuto in nero” ai tavoli in vista delle vacanze da pagarsi. Sono loro che vi chiederanno se volete acqua liscia, frizzante o mezza e mezza. Clima disteso.
Mentre concitazione e corsa al trotto tradiscono le necessità di tornare a casa o di trasferirsi da un lavoro all’altro di filippine e badanti est-europee od orientali nei pressi di una stazione metro o una stazione di piccola città dove passano i treni regionali. Si corre parlando cogli amici al telefono oppure cercando di organizzare la cena con la famiglia.
La passeggiata prosegue per cercare qualcosa da mettere sotto i denti anche noi nelle afose serate estive, in cui manca la voglia di cucinare e naturalmente fa tappa dal nostro “Bangla”, dove la figlia cresciuta, nella pausa estiva della scuola, ormai al liceo, viene inserita nel piccolo emporio di famiglia ove latte, acqua minerale, olio, perfino qualche panino morbido, sono sempre presenti e funzionano a meraviglia il POS e la carta di credito, come non succede invece nei “tabacchi” nostrani, non si sa perché. Accanto, per frutta e verdura, c’è la “nazionale” magrebina: algerini, tunisini, marocchini, sempre aperti e disponibili ma che a casa loro quella roba che vendono non la potrebbero rifilare ai propri parenti.
Spesso tutto ha la stessa origine, i frigoriferi del grande centro alimentare di zona, a Roma presso Fondi, dove infiltrazioni camorriste arrivano ormai da oltre un ventennio risalendo la filiera dell’agroalimentare su da Caserta e provincia di Napoli.
Ogni tanto qualcosa di non stereotipato c’è ma ormai la frutta e la verdura o la compri in Provincia o nei due grandi mercati popolari di tradizione, dove ancora qualche vero coltivatore, il famoso “fruttarolo” di mio nonno, potresti ancora trovarlo, spesso a caro prezzo. Vicino e sempre aperto (anche se da un paio d’ anni la domenica pomeriggio riposa) il “cinese”, vale a dire l’emporio del West: dai calzini alla calce, dalle batterie ai quaderni di scuola, sempre aperto, sempre dietro il bancone.
Se poi uno si sposta in campagna e non solo nel Sud d’ Italia, la sera è una lunga fila di ritorno di copricapi sikh vicino alle zone di allevamento oppure di gruppi di africani che scherzano tra loro, e, se hanno qualche anno in più, filano in bicicletta verso casa – se hanno una famiglia con cui si sono riuniti – oppure in una casa “dormitorio”, dopo il lavoro nei campi.
Dimenticato qualcosa? Forse sì, i lavori di ristrutturazione (qui romeni e europei dell’est la fanno da padroni dei numeri, ormai hanno anche società srl) e la consegna a domicilio, dove però il lavoro si divide a metà tra i nuovi immigrati, per lo più giovani, e italiani, a loro volta divisi in due gruppi : i più giovani per cercare qualche soldo da non chiedere ai genitori e quelli più anziani spesso operai in cassa integrazione oppure “esodati“ sopra i quarant’anni, che basta la loro faccia per sentirsi male (e pieni di vergogna) al passaggio. E anche quei bei negozietti lindi che ormai non sono solo tintoria lavasecco ma anche cucito e rammendo, e che prendono il posto con volti orientali e qualche volta nordafricani, di quelli che conoscevamo talvolta dall’infanzia.
Ma come mai li si nota così tanto ora, in estate, quando le città, nonostante la modernità si dimostrano molto differenti dall’aspetto estivo totalmente chiuso di un paio di decenni fa, e sono più lucenti, illuminate, calde ma anche inaspettate?
Dove sono, quanti sono, dove vivono tutto l’anno?
Come vivono tutto l’anno?
Sembrano di più, in estate, gli immigrati che fanno lavori da noi, anzi, sembra che alcuni lavori li facciano solo loro. Ma noi ce ne accorgiamo solo adesso?
Innanzitutto le cifre….
Sentimenti a parte ciò che conta e prima di arrivare alle idee e ai sentimenti o, peggio, le ideologie, ci sono i numeri. Se prendiamo l’ultimo rapporto disponibile, che è il 14esimo e si basa su dati 2023, interessanti perché ormai pienamente post pandemia, sugli “stranieri nel mercato del lavoro”, e che trovate sulle pagine del governo sotto l’egida di Ministero del Lavoro, dell’ Interno e dell’Educazione, i lavoratori immigrati sono in crescita: sono circa due milioni e 400mila gli stranieri occupati in Italia.
Nel 2023 – cito il rapporto e la sua sintesi – il tasso di occupazione degli stranieri non UE cresce al 60,7 per cento (61,5 per cento per gli italiani), mentre calano disoccupazione, 11,4 per cento (7,2 per cento per gli italiani), e inattività, 31,5 per cento (33,6 per cento). I settori con la più alta incidenza di occupati stranieri sono i servizi personali e collettivi (30,4 per cento), agricoltura (18 per cento), ristorazione e turismo (17,4 per cento) e costruzioni (16,4 per cento). Nel corso dell’anno sono stati attivati 2,5 milioni di rapporti di lavoro con cittadini stranieri (+4,7 per cento rispetto al 2022), concentrati soprattutto nell’agricoltura e nelle costruzioni. Aumentano le assunzioni di stranieri programmate dalle imprese nel corso dell’anno, che considerando solo industria e servizi hanno superato quota un milione, oltre il 19 per cento del totale, con una domanda cresciuta del 70 per cento in cinque anni.
Tra le ombre evidenziate dal Rapporto:
il forte divario di genere che vede le donne non UE penalizzate su tutti gli indicatori: occupazione (45,6 per cento), disoccupazione (13,8 per cento), e inattività (46,9 per cento), con forti differenze tra le diverse comunità. È confermato lo schiacciamento dei lavoratori stranieri su basse qualifiche, con retribuzioni medie annue inferiori di oltre il trenta per cento rispetto al totale dei lavoratori.
Preoccupano anche i tassi di NEET (26,5 per cento) e di dispersione scolastica (29,5 per cento) tra i giovani non UE, e la crescita del disagio economico: il 33,2 per cento delle famiglie composte da soli stranieri sono in povertà assoluta, a fronte del 6,3 per cento delle famiglie di italiani.”
Dunque, un bel contributo alla forza lavoro complessiva dell’Italia, con dinamiche che assomigliano fortemente a quelle della forza del lavoro “nativa”, ma aggravate dal bisogno e dall’urgenza e che tuttavia non sembrano indicare nessuna “invasione”, a quanto pare.
Come mai allora li notiamo di più? Perché ancora non siamo abituati a una società multietnica? Per diffidenza atavica? Per il peso che in generale esercitano sulle nostre già affaticate strutture pubbliche?
Forse questo eventuale peso è dato dalle famiglie, dei lavoratori immigrati? Sono pochi quelli che lavorano e troppo i presenti in Italia?
Anche qui facciamo parlare le cifre.
E prendiamo base Istat e sempre il rapporto ufficiale di chiave governativa:
Al primo gennaio 2023, gli stranieri regolarmente residenti in Italia sono 5,050 milioni, l’8,6 pe cento della popolazione totale. Rispetto al 2022, la presenza straniera si è accresciuta di ventimila unità (+0,4 per cento).
I cittadini non comunitari regolarmente soggiornanti al primo gennaio 2023 sono 3,7 milioni. La presenza non comunitaria, dopo il forte calo avvenuto in coincidenza con la crisi sanitaria, ritorna sui livelli pre-pandemia (+diecimila rispetto al 2019). Le comunità nazionali con una maggiore ampiezza demografica sono la comunità marocchina (399mila; 10,7 per cento del totale), albanese (390 mila; 10,5% del totale) e ucraina (384 mila; 10,3 er cento del totale). Tra il 2021 e il 2022 si consolida la ripresa degli ingressi di cittadini non Ue in Italia: i permessi di soggiorno rilasciati passano da 242 mila a 449 mila (+85,9 per cento). L’incremento registrato tra il 2021 e il 2022 avviene dopo un decennio (2010-2019) caratterizzato da una tendenza alla riduzione del volume annuale dei permessi di soggiorno rilasciati.
Qui possiamo cominciare a fare alcune considerazioni: ancora, niente invasione, abbiamo meno del dieci per cento di “invasori” … E la comunità più diffusa, se consideriamo anche i Paesi Ue, è quella rumena, comunitari. I permessi si riferiscono per lo più a chi ha già legami con residenti che lavorano, oltre il cinquanta per cento; infine, i famosi permessi “umanitari” su cui si discute se hanno ragione i giudici a invocare un giudizio sui Paesi di provenienza, di parte terza (ovvero la scelta comune europea) oppure la politica italiana; in ogni caso si riferiscono al 21 per cento di 242mila, ovvero circa cinquemila permessi all’anno, in media cinquanta per comune capoluogo. Ce li potremo permettere? Raddoppiassero, sarebbero cento per comune capoluogo…
Ma si dirà, ovviamente: e gli immigrati “clandestini” ? Senza permesso? Che non lavorano?
Anche qui non ho voglia di fare polemiche ideologiche, ho cercato dati e fatti.
Cito l’ufficio statistico del Parlamento europeo (è online):
Nel 2023, ci sono stati circa 385.000 migranti irregolari, mentre oltre 3,7 milioni di persone hanno utilizzato canali legali di migrazione.
In tutta Europa, si badi bene.
In Italia nel 2023, si stimano circa 458.000 immigrati irregolari, che rappresentano il 7,9 per cento della presenza straniera totale. ” Questi dati emergono dal Rapporto annuale sulle migrazioni di ISMU, che evidenzia come
la diminuzione della componente irregolare sia in parte attribuibile all’effetto dell’emersione del 2020. I dati sul numero di sbarchi di migranti irregolari via mare nel 2024 mostrano una significativa diminuzione rispetto agli anni precedenti, con circa 66.000 arrivi rispetto ai 157.651 del 2023, secondo il Ministero dell’Interno.
E consideriamo che in questo gruppo di “irregolari”, che – lo ricordo – rappresenta meno del 10 per cento degli stranieri in Italia, ci sono coloro che attendono l’udienza del giudice; coloro che hanno esaurito il termine del permesso ed attendono il rinnovo; coloro che per rifare o fare un permesso attendono il documento originale di identità in forma digitale dalla loro ambasciata che spesso ci mette mesi a dotarli di questi documenti; coloro che stanno trasformando il loro permesso di studio in un permesso di lavoro….
Pensate a cosa significhi fare il rinnovo della carta d’ identità elettronica per noi italiani, soprattutto nelle grandi città e confrontate la attesa burocratica… non dovremmo avere un miglioramento per tutti? Noi e “loro”?.
E rispetto agli altri Paesi Ue come siamo messi, non sarà che ci tocca solo a noi, l’Italia, fare tutto il “lavoro sporco” di tutela delle frontiere e di accettazione degli immigrati?
Immigrazione Low Cost in un Paese Low cost
L’Italia si distingue rispetto ad altri paesi OCSE su vari aspetti. La metà della popolazione immigrata in Italia ha solo una bassa istruzione formale, la seconda percentuale più alta dell’OCSE. In contrasto, tra i nativi, solo un terzo ha al massimo la scuola secondaria inferiore in Italia.
All’estremità opposta dello spettro educativo, l’Italia ha la più bassa percentuale di immigrati laureati nell’area OCSE. Solo il dodici per cento degli immigrati in Italia ha una laurea, rispetto al venti per cento dei nativi.
Mentre la percentuale di immigrati altamente istruiti è aumentata in tutti i paesi (a eccezione del Messico) nel decennio fino al 2020, in Italia è aumentata solo marginalmente, di meno di un punto percentuale, la cifra più bassa dell’OCSE. Inoltre, solo una piccola percentuale di immigrati in Italia, il due per cento, ha partecipato a corsi di formazione per adulti nel 2020, rispetto a circa il sei per cento nell’UE nel suo complesso
Questo significa che ha ancora grande attualità un lavoro di sintesi scientifica (e ipotesi culturale) svolto negli anni Dieci del Duemila e pubblicato nel 2013 da tre studiosi, Ferruccio Pastore, Ester Salis e Claudia Villosio, e ripreso più volte anche dal prof. Maurizio Ambrosini, docente di sociologia delle migrazioni all’ Università di Milano: siamo dentro un’immigrazione che l’Italia ha, non coscientemente forse, ma purtroppo incoscientemente, condotto in maniera “low cost”.
Infatti, ancora oggi oltre il 28 pe cento degli immigrati occupati in Italia lavora in lavori a bassa qualifica, rispetto al solo 8,5 per cento dei nativi del paese. Solo il 13 per cento degli stranieri impiegati in Italia nel 2021 aveva occupazioni classificate come richiedenti competenze superiori, mentre il 39 per cento dei nativi impiegati aveva lavori di questo tipo. E questi lavori spesso presentano ulteriori sfide, come bassi redditi e scarsa sicurezza lavorativa e nei paesi con un’alta percentuale di migranti non UE e con basso livello di istruzione, i redditi dei migranti sono inferiori all’ottanta per cento di quelli dei nativi.
L’Italia rientra in questo gruppo, insieme ad altre destinazioni comparabili come la Grecia. Gli immigrati in Italia hanno in media solo tre quarti del reddito mediano dei nativi.
In breve, mentre in altri Paesi, specie UE, la presenza di nuovi lavoratori immigrati ha rappresentato una sorta di spinta alla competitività di aziende e redditi e quindi di maggiori introiti per le aziende, da noi, complici la burocrazia che addossa il fardello del riconoscimento lavorativo al datore di lavoro, la formazione alla lingua e professionale inferiore e poco gestita dal “pubblico”, si è venuto a creare il paradosso di inserimento, largo ma a basso costo e basso risultato produttivo, della forza lavoro immigrata, producendo un risultato “low cost” .
Così guadagnano meno i nativi e pure i lavoratori immigrati; e le aziende, soprattutto nel sistema italiano di “piccolo, familiare e a basso investimento di ricerca e tecnologia” che il Censis ci ha raccontato dagli anni settanta del Novecento, hanno tenuto i costi internazionali, soprattutto nell’area industriale della manifattura, allargando la presenza di manodopera a basso costo e non particolarmente professionalizzata , e rinunciando alla sfida di una occasione collettiva di miglioramento qualitativo.
Low cost l’immigrazione, non cercata né scelta ma “subìta”; low cost l’inserimento nella società e nel lavoro senza professionalizzazione; low cost – almeno finché gli immigrati sono giovani – l’inserimento nel welfare dove a fronte di entrate previdenziali per 7,5 miliardi di euro lo Stato ne spende solo 1,5 per i lavoratori immigrati (Fonte Inps e Istat e Cnel e Banca d’ Italia); low cost l’impegno per la diplomazia nei Paesi di provenienza (niente consolati e ambasciate più attrezzate o corsi di lingua e professionalizzazione preventivi); low cost, l’impegno per il miglioramento degli aspetti burocratici : semplificazione dei permessi, unificazione tra permessi studio e lavoro, riunificazione delle funzioni frammentate tra Ministero del Lavoro, Ong e autorità locali e regionali (C’è qualcosa nel nuovo decreto flussi per onestà intellettuale ma non certamente un riordino).
Low Costs uguale Low benefits.
Adifferenza di Germania dove il permesso non è in base a quote di nazionalità ma rispetto alla professionalità o scolarità, oppure alla Gran Bretagna dove un sistema a punti premia la qualificazione in lingua e mestieri che vengono offerti con corsi qualificanti a cui lo Stato obbliga persino i datori di lavoro, per esempio, noi ci ritroviamo con tutta la “filiera” che ha a che fare con l’immigrazione che invece che produrre maggiore razionalità, risponde a battute politiche da talk show.
Hai voglia a parlarne!
I numeri si incaricano di dirci che non c’è una “invasione”; che i famosi “sbarchi” che fanno tanto rumore (e tante vittime) sono meno del passaggio nel Mediterraneo orientale ( Grecia e più in là) e nei Balcani; che in Europa come in Italia gli “irregolari” (tra cui un buon settanta per cento avrebbe i titoli per divenire “regolare”) sono meno del 10 per cento della popolazione di stranieri residente.
Che se costruissimo una filiera di regolarità sin dalle nostre rappresentanze diplomatiche nei Paesi di partenza fino a costituire occasioni pubbliche di scolarizzazione e di professionalizzazione e ad impiegarli subito al lavoro (ora se si attende un permesso per riunificazione familiare non si può lavorare con contratto ufficiale, assurdo! ndr) e a migliorare la burocrazia, non solo a fini paternalistici e pietistici ma per noi, per il benessere della nostra pubblica amministrazione e del nostro Stato, avremmo una immigrazione migliore, meno costosa per le casse dello stato, ed anzi vantaggiosa ai fini economici, previdenziali e di convivenza civile nelle città, come avvenuto in altri Stati europei.
Stiamo parlando di grandi benefici di sistema. Prendiamo un rapporto Cespi su dati del 2021 sull’“inclusione economica e finanziaria degli immigrati”. Anche qui cito:
L’analisi dei dati relativi al campione delle 21 nazionalità considerate, (le prime 21 comunità residenti in Italia ndr), relativamente alle banche aderenti ad ABI e a BancoPosta, consente di evidenziare alcune indicazioni di sintesi relative alla bancarizzazione dei migranti residenti in Italia e circa le dinamiche in atto dal lato dell’offerta. Il numero di conti correnti intestati a cittadini immigrati presso le banche italiane e BancoPosta ammonta a 1.782.426 unità; considerando solamente la popolazione immigrata adulta (regolarmente residente) è possibile determinare un indice di bancarizzazione pari al 61,2 per cento.
E considerate di aggiungere questi ultimi quattro anni e la forte crescita dell’uso del denaro a livello digitale, con Carte e Pos.
Ma allora, se questi sono i dati perché continuare una polemica sull’immigrazione “selvaggia”, sui “clandestini” pericolosi, e i “tira e molla” su ius scholae e ius cultura?
La risposta potete certamente darvela da soli e in breve tempo, ma come abbiamo visto non è un problema che riguarda solo la parte più retriva del panorama politico, perché il centrosinistra – quando ancora la Meloni era all’uno per cento e Vannacci faceva il comandante paracadutista senza macchia e senza paura – ha ampiamente maturato colpe e ritardi quando ha governato, condividendo con la destra italiana la colpa, prima culturale e poi politica, di non aver mai voluto discutere fino in fondo e seriamente di un fenomeno complesso e difficile da affrontare, certamente, ma che chiama in causa anche il disagio delle città ad accogliere, includere e integrare così come quelle del mondo del lavoro che nello sfruttamento al ribasso non fa differenze (se non in percentuale) tra lavoratori nativi e immigrati.
Questa immigrazione low cost infatti, in Italia ha fatto il paio con una educazione ed un mondo del lavoro low cost del tutto tipico del nostro Paese. Ed avrebbe richiesto una riflessione della sinistra, non corriva verso le cadute populistiche di destra, ma capace di suscitare un dibattito sui fatti e sui numeri concreti, e ideologicamente aperta a un fenomeno che non finirà certo con i decreti legge.
Il lavoro dei migranti ci parla di “noi”
Il crollo della presenza di artigiani e piccoli professionisti, oltre 410mila unità perse tra il 2012 e 2023, ha visto un “rimpiazzo” da parte di immigrati, ma non fino al punto di prendere il posto di imbianchini, muratori, giornalai, ciabattini etc… pareggiando i conti.
È solo che un negozietto che non rendeva a un italiano è l’obbligato “poco, meglio che niente” che fa liberi e con in tasca un permesso di lavoro, per un immigrato; diciamo – sempre dai numeri – che stiamo comunque parlando di un solo “rimpiazzo” su due attività che chiudono.
C’è una sequela di piccole inchieste e news da social networks (ma ormai pure il TG1 glorioso di Rossi, Fava e Morrione segue questo andazzo…) sui “lavori che gli italiani non fanno più”: calzolai, corniciai, fabbri, falegnami, fotografi, lavasecco, orologiai, pellettieri, riparatori di elettrodomestici e tv, etc….
In realtà non sono sostituiti da quelli che, lo raccontavamo all’inizio dell’articolo, incontriamo per le strade. C’è una ragione intrinseca alla nostra società: scarso interesse, anche culturale, per i lavori manuali, mancanza di scuole di settore, inesistenza dell’orientamento a queste professioni. Molta retorica sull’artigianato e le piccole professioni senza veramente crederci, convinti che l’intelligenza artificiale (che tra l’altro poi non si pratica molto in Italia come ricerca e innovazione) sia l’unico futuro.
Insomma, chi ha la percezione che gli immigrati ci invadono, rubano i nostri lavori e salari e ci sostituiscono nei lavori che i nostri giovani non vogliono più fare, di fronte ai numeri dovrebbero ricredersi. Il problema è tutto “italiano” (nel senso del nostro sistema economico sociale), da un lato, e tutto “psicosociologico” dall’altro.
Italiano perché abbiamo un’immigrazione low cost povera di istruzione e di professionalizzazione tanto quanto i lavori che stiamo offrendo ai nostri giovani. E l’impressione è che ci siano lavori che non solo non vengono “sostituiti” ma cedono il posto ad altri lavori “nuovi”, che ci raccontano della crisi del welfare italiano e non dell’invasione.
Che dire dei 700mila badanti registrati all’Inps che si prendono cura dei nostri anziani o delle situazioni difficili di invalidità, handicap fisici e mentali o babysitting (erano duecentomila nel 1990)?
Ci dicono almeno di una conferma: che siamo una società dove il 18 per cento di non autosufficienti sopra i 65 anni riceve aiuto dal welfare per il due per cento dei numeri necessari (in ordine sia di personale sia di costi) e quindi sostituiamo il welfare con soluzioni private. Come avviene per la sanità o per il collocamento al lavoro da anni ormai.
Oppure, ancora, che dire dei 770mila lavoratori e lavoratrici dei “lavori domestici” che hanno completamente sostituito le cameriere “tipicizzate” venete dei film degli anni Sessanta o quelle del Sud nei film degli anni Ottanta?
Ma soprattutto quante donne nella condizione attuale-ancora di non parità reale dei diritti (e dei salari ndr) – potrebbero conciliare il loro lavoro, con i “lavori di casa” che una società patriarcale gli affidava e affida?
Sempre più dunque parlare di immigrazione significa parlare della società italiana e di come si evolve (anche in peggio), una cosa che sociologi e demografi predicano da anni, inascoltati.
Se c’è una cosa, forse positiva – ma è l’altra faccia della medaglia – della presenza degli immigrati nel nostro Paese, rispetto alle banlieue francesi o gli slum di Chicago Sud (Shameless docet) e dei dintorni di Londra, è che la loro povertà si perde nella povertà delle nostre periferie. Periferie che non sono più solo “periferiche” in senso fisico e urbanistico, cioè “attorno alla città”, anzi, sono spesso nel centro, nel pieno della gentryficazione, e subiscono esclusione e marginalità per i residenti storici.
Perché si è “periferici” in città o provincia anche vicini al centro, quando ci si ritrova tagliati fuori dai vantaggi sociali ed economici che i social network reclamizzano come merce da consumare, allo stesso tempo raggiungibile immediatamente dal desiderio ma irraggiungibile dai mezzi economici e sociali quotidiani.
La grande quantità di desiderio che diventa rancore per l’assenza dei mezzi per realizzarlo unisce purtroppo al peggior livello: i lavapiatti cinesi, bangladesh, africani e italiani hanno differenze di mezzi e di salari ma parlano lo stesso dialetto della zona e vedono gli stessi social che li condannano a vivere nel sottoscala della società. Le badanti che corrono alla fermata della metro e le donne dei “servizi familiari” passano in autobus da una casa all’altra, ma la frustrazione è la stessa identica di chi ha un salario che non gli permette ciò che i social o la tv gli promette.
Poveri tra poveri. Questo da un lato disinnesca la bomba sociale del confronto tra “etnie”, comune a Parigi o Londra, o peggio quello tra etnie religiose radicalizzate, ma c‘introduce a un’altra condizione di cui l’immigrazione raccontata all’inizio e così visibile d’estate ci fa regalo: c’ è ormai nel nostro Paese e in tutti i cosiddetti Paesi occidentali consumisti, ma anche in quelli che hanno abbracciato il consumismo su scala mondiale, penso ai Paesi arabi, una crescente nuova stagione di sovrapposizione di mondi diversi e paralleli.
Il ristorante si regge sullo chef italiano e i lavapiatti immigrati; le famiglie girano e producono reddito e comprano beni se hanno organizzato la casa con badanti e donne (o uomini) di casa; la logistica ci fa arrivare i pacchi con lavoratori strozzati dal tempo e dai controlli algoritmici e fa talmente poco caso che sia italiano o lavoratore immigrato… tant’è che Amazon sperimenta ormai i droni o la guida automatica per le consegne, negli Usa.
A un mondo “visibile”, la sala del ristorante, la casa in ordine, il libro o l’elettrodomestico nuovo acquistato, fa da contrappunto un mondo “invisibile”, che lo permette e lo supporta.
Mondi visibili e invisibili che corrono paralleli ma in cui uno è al servizio dell’altro purché non reclami esistenza e visibilità….
Sembra di definire …. Ma sì… l’apartheid.
Oppure le società della Colonizzazione.
Credevamo fossero concetti del passato, vero?
E invece eccoli qua.
Una lettura recente di una biografia di Frantz Fanon, psichiatra, studioso di antropologia e sociologia, autore di Pelle nera, Maschere bianche e dei Dannati della Terra, Antillese e militante della lotta per l’ indipendenza algerina, mi ha sollecitato invece a far emergere il tratto psicosociologico di questa percezione (grazie al suggerimento culturale del sociologo e psicologo tunisino Wael Garnaoui e dell’ Aiempr, seminario sull’ immigrazione: Harga et desir d’Occidente).
Ovviamente è solo un’ispirazione, considerato che parliamo di prima delle cosiddette decolonizzazioni degli anni Sessanta…ma anche i nazionalismi pensavamo fossero un arnese del passato….
L’immigrato che fugge in Europa vive la sua condizione con vergogna, soprattutto verso se stesso e dentro di sé: cerca lavoro, vita, dignità, ma lascia la sua patria, gli affetti, il suo contesto. Risolve la sua vicenda umana, psicologicamente drammatica, con l’adesione al desiderio di fuga dal suo “immobilismo”, al punto di rischiare anche la sua vita, se necessario, per il desiderio di “bruciare” (dice Garnaoui, citando Fanon) le frontiere (harraga in arabo significa “bruciare”).
Pur di non sottomettersi al destino di rimanere immobile sceglie di bruciare la frontiera (e la casa, la famiglia, la patria) perché questo è anche un mezzo di ribellarsi, alle società decolonizzate immobili, alle rivoluzioni arabe e africane abortite, all’assenza di lavoro e prospettive di dignità umana. Alle società decolonizzate ed economicamente ricolonizzate (pensiamo solo al debito estero di questi Paesi…ndr) .
Il nativo di un Paese di accoglienza, “noi”, vive invece la condizione di vergogna del suo essere discendente di una nazione che poco o tanto ha partecipato di imperi coloniali e sfruttamento economico. Non lo sente coscientemente e non l’afferra finché vive nel suo quartiere rassicurante o in una nazione che trasmette valori tradizionali e incontestati: campanili di chiese cattoliche e non ortodosse, o moschee, sono il nostro panorama dall’infanzia… L’immigrato che esiste ora nelle nostre strade e che si manifesta e chiede diritti – o anche solo vuole ottemperare ai suoi doveri – richiama però queste verità sottaciute.
Se il “noi” e il “loro” sono accomunati dalla paura reciproca e l’incapacità di dialogare, o se li accomuna solamente l’esperienza della marginalità, allora partecipano entrambi, “cosificati” e senza ribellarsi, sia al sistema consumista aggiornato al neocapitalismo delle piattaforme sia all’ Apartheid economico. Entrambi sono allo stesso tempo “Pelle Nera e Maschere Bianche” .
In ogni caso i loro gironi economici e sociali sono “invisibili”.
Io credo che le pulsioni leghiste, nazionaliste, razziste, siano esattamente le pulsioni di chi crede, in questo modo, di liberarsi di una maledizione sociale che accomuna, direi “scandalosamente”, “noi” a “loro”.
I “nuovi arrivati”, la loro Pelle nera (dei nuovi arrivati, anche orientali …”sono tutti uguali”) ci fa indossare una maschera bianca, ma la sostanza dell’esclusione sociale ed economica non cambia. Solo viene esorcizzata. Credendo di rimettere “tutto a posto”, assegnandoci ruoli prestabiliti, costruendo e confermando stereotipi di identità che non esistono più.
L’apartheid economico sociale e il colonialismo economico e mentale, sono tra di noi e fanno il paio con un nazionalismo risorto.
O li analizziamo fino in fondo e li combattiamo culturalmente o sprofondiamo nella fantasia di una società che non c’è più.
Qui starebbe anche la differenza tra progressisti (cosa è il progresso, come evolvere, come risolvere i problemi concreti, come rassicurare le tante “maschere bianche” anche tra di noi?) e i conservatori (conservatori di quali società? di quali relazioni sociali? di quali blocchi economico sociali?).
A questo punto non mi stupisce più di tanto che poi Varoufakis abbia bisogno di cercare nel medioevo il Feudalesimo, per spiegare il neocapitalismo delle piattaforme.
Non sono questioni da poco, ma non mi lasciano senza la speranza che, dopo questa estate, non ci sia necessariamente un “inverno del nostro scontento”, ma una stagione di apertura e riflessione su dati, numeri e fenomeni, ma anche sulla nostra anima più profonda.
* da ytaly
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