Lunedì 22 settembre l’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite potrebbe votare la nascita dello Stato di Palestina. Non ci sono conferme che si metta ai voti una dichiarazione vincolante, dopo che il 12 settembre l’Assemblea ha votato una dichiarazione che chiedeva “passi concreti” per la cosiddetta “soluzione a due Stati”.
Le pressioni USA per vanificare l’appuntamento sono forti, tanto che per volere di Trump, ad Abu Mazen, capo dell’ANP, è stato addirittura vietato il visto di ingresso negli USA e parteciperà solo da remoto.
Comunque, si tratterebbe di un voto che si ripete, perché il 29 novembre 1947, con la Risoluzione 181 dell’Assemblea Generale, che è passata agli atti come Piano di Partizione della Palestina, che era stato stabilito:
- la fine del Mandato britannico sulla Palestina;
- la creazione di due Stati indipendenti, uno ebraico e uno arabo, con Gerusalemme sotto regime internazionale speciale (corpus separatum) amministrato dall’ONU.
Lo Stato di Israele venne poi proclamato formalmente da David Ben Gurion il 14 maggio 1948, poche ore prima della scadenza del Mandato britannico.
Il che sta a dimostrare che fu proclamato uno Stato che ancora non c’era.
Dunque, quando il capo della diplomazia italiana dice che per il riconoscimento italiano prima ci devono essere gli “ingredienti” concreti di uno Stato, – cioè che funzioni come Stato, che abbia autorità, strutture governative riconosciute, controllo del territorio, sicurezza -, ripete, da bravo maggiordomo della Casa Bianca e servo suo di Netanyahu quello che gli è stato detto di dire, perché per la servitù dire “il signore non è in casa” non è mentire, ma obbedire con zelo.
Il governo Meloni, come al solito, fa il doppio gioco: a New York annuncia che voterà a favore, tanto è solo una dichiarazione di cui ancora non si conosce l’eventuale valore; a Roma comunque rimanda – sine die – la decisione del formale riconoscimento dei diritti del popolo palestinese, che invece è stata presa da molti stati europei, tra cui Spagna, Francia e Inghilterra.
Il governo italiano dovrebbe assumere responsabilità che non vuole prendere neanche in considerazione: per quanto sta succedendo nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania, Israele merita la sospensione degli aiuti, delle forniture, dell’assistenza, degli accordi commerciali e tecnologici, compresa la fine della libera circolazione dei militari israeliani nelle basi militari in Italia, ma anche nelle località di villeggiatura.
Non avere il coraggio di farlo significa molto semplicemente che la credibilità della politica estera italiana è finita sotto le macerie insanguinate dei bombardamenti di Gaza City.
Le continue manifestazioni che attraversano le città italiane da Nord a Sud, le proteste nelle università e nelle scuole italiane, il comune sentire dell’opinione pubblica italiana, della stessa Chiesa cattolica, inorridita dal sistematico massacro quotidiano dei civili di Gaza, nonché lo sciopero generale convocato lunedì dai sindacati di base in concomitanza con l’Assemblea generale dell’ONU, dicono, sia pure con linguaggi diversi, tutti la stessa cosa: che gli italiani non sono itajani.
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