Abu Mohammad al Jolani, per anni nome da taglia dell’FBI, oggi circola come Ahmad al Sharaa, presidente siriano ricevuto alla Casa Bianca con onori da Donald Trump, con sponde diplomatiche che fino a ieri parevano impensabili.
Bello vero? Da terrorista da top 5 dei ricercati a “attendibile” partner del presidente USA. Strana la vita. Strane le definizioni. Il Regno Unito ha appena rimosso Hayat Tahrir al Sham dalle organizzazioni bandite, e Reuters ha raccontato la logica politica esplicita di quel gesto. (leggetelo, è interessante, importante: Il Regno Unito rimuove la designazione di terrorismo per l’HTS siriano, https://www.reuters.com/…/uk-removes-terrorism…/…
Queste metamorfosi rendono visibile un meccanismo che in Europa si preferisce lasciare implicito: l’etichetta “terrorista” vive anche di liste, deroghe, opportunità diplomatiche, scelte di potenza, anzi vive soprattutto di queste. La parola entra nei codici penali, poi scivola nel linguaggio comune, poi torna al diritto come un’ombra che ritiene attuazione, pure penale.
In sede ONU il punto resta incandescente, perché la definizione giuridica condivisa resta oggetto di stallo. Un resoconto dell’Assemblea generale lo dice con chiarezza: «In assenza di una definizione specifica di terrorismo, ha sottolineato la necessità di distinguere tra il terrorismo … e gli atti di resistenza nazionale contro l’occupazione straniera».
La lotta armata, sotto occupazione, è LEGITTIMA. Trovate che esiste una situazione che meglio calza con questa definizione di Israele e Palestina? Io no. Quindi in base a quale diritto si definisce Hamas un’organizzazione terroristica? Mistero! Ci piace? No, Hamas non ci piace. Ma il giudizio non è né etico, né estetico, semmai penale.
Il diritto internazionale porta, da decenni, questa tensione sulle spalle. Da una parte, in risoluzioni dedicate all’autodeterminazione, l’Assemblea generale ha riaffermato «La legittimità della lotta dei popoli … con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata». Dall’altra, il diritto umanitario traccia una linea sul bersaglio, e la formula resta anatomica: «Atti o minacce di violenza il cui scopo principale è diffondere terrore tra la popolazione civile».
Chi diffonde terrore sulla popolazione? Devo fare una lista di migliaia di pagine sul terrore diffuso da Israele?
Con questa ambivalenza addosso, la cronaca italiana di queste ore cambia aspetto. A Genova, l’inchiesta su Mohammad Hannoun e su una rete di raccolta fondi per la Palestina viene presentata come ipotesi di finanziamento a Hamas, dentro il perimetro dell’antiterrorismo. Il dettaglio decisivo, riportato in ricostruzioni di stampa, riguarda la provenienza di una parte rilevante del materiale: elementi raccolti, selezionati e forniti dalle autorità israeliane, comprese valutazioni su enti ritenuti “controllati” e su enti ritenuti estranei.
Insomma, Israele ordina e lo stato vassallo italiano esegue.
La separazione pulita tra “umanitario” e “politico” resta una fantasia da salotto, perché l’accesso ai beni, la circolazione del denaro, perfino la possibilità di far arrivare qualcosa a qualcuno, passano attraverso il controllo territoriale. In più, la storia recente mostra che quel potere è stato anche maneggiato come leva di stabilizzazione: i trasferimenti qatarini verso Gaza sono passati a lungo attraverso autorizzazioni israeliane, presentati come strumento di “calma” in cambio di liquidità. Reuters ha riportato, nel 2025, la posizione di Doha: l’ufficio politico di Hamas in Qatar viene rivendicato come parte di un ruolo di mediazione avviato con conoscenza e cooperazione di Stati Uniti e Israele.
Da qui deriva la frase che molti evitano, per paura di sporcarsi le mani: Hamas resta l’unico soggetto politico palestinese capace di contrattare davvero, per quanto moralmente e politicamente indigesto, per quanto attraversato da atti che meritano condanna. Dentro questa realtà, l’idea che “dei soldi finiscano a loro” diventa, spesso, la forma banale con cui funzionano i territori sotto assedio. Il denaro segue il potere effettivo. Questa constatazione riguarda la struttura concreta della Striscia, riguarda anche le scelte israeliane di gestione del problema nel corso degli anni.
Quindi? Quindi tutta questa inchiesta è surreale, tendenziosa e ipocrita. Però ci dice molto del nostro ruolo nello scacchiere mondiale: complici, sottomessi e ostinatamente ipocriti, stampa inclusa. Uno schifo di proporzioni immani.
* da Facebook
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