“Aiuto, mi vogliono ammazzare”, gridò, con un ultimo slancio di volontà e già pesantemente ferito, uscendo dall’atrio del civico 39: indomabile fino all’ultimo, rese pubblica l’esecuzione che gli sbirri intendevano consumare nel chiuso dell’atrio.
Lo stato ha condannato a morte Pedro perchè era un militante comunista, da sempre attivo nel movimento rivoluzionario e nelle lotte popolari e proletarie, sopratutto a Padova, città dove si trasferì, lasciando la Calabria, per motivi di studio, alla fine degli anni sessanta.
Proprio per questo la repressione lo colpì più volte: già nel 1980 un’inchiesta avviata dal pm Calogero, d’area Pci, lo aveva costretto alla latitanza. L’accusa nei suoi confronti, associazione sovversiva – articolo 270 bis cp, cadde nel nulla, ma due anni dopo, sempre da Calogero, ne venne nuovamente richiesto l’arresto. Da questa seconda latitanza, Pedro non ritornò più: contro di lui fu eseguita una condanna a morte extragiudiziale, nell’ambito di un’inchiesta costruita perlopiù su una montatura giudiziaria, come dimostrarono le assoluzioni, un anno dopo, per i suoi coimputati.
Il suo omicidio rappresentò uno degli apici del tentativo del regime della borghesia di chiudere i conti con più di due decenni di conflittualità di classe, espressasi in vigorose lotte di massa, nella crescita dell’egemonia del proletariato nella società e nella prospettiva della rottura rivoluzionaria, rappresentata sopratutto dalla prassi delle organizzazioni combattenti. I padroni e il loro stato puntavano così ad annullare i rapporti di forza che gli sfruttati erano riusciti, almeno in parte, a muovere per i loro interessi, strappando conquiste in ogni campo della vita sociale, rafforzando la propria coscienza politica di classe e dunque la capacità di incidere in quanto tale.
Alla base di questo disegno strategico della borghesia stava il procedere della crisi internazionale del capitalismo, apertasi all’inizio degli anni ’70, con le necessità ed opportunità che essa offriva alla classe dominante in termini, rispettivamente, di ristrutturazione economico-sociale e di determinazione d’un arretramento della forza resistente e di offensiva della classe lavoratrice. Quest’ultima si trovò a passare da una fase di slancio soggettivo, determinata sopratutto dalle possibilità oggettive che il ciclo economico capitalista positivo dava in termini di conquiste materiali, ad una contro-offensiva padronale, dispiegata sulla base della fine di questi stessi spazi di avanzamento e dunque delle difficoltà di perpetuare e di far progredire la propria capacità e potenzialità di lotta.
La crisi, dunque, scompaginò le carte: la borghesia seppe capitalizzarne il dato di fatto e utilizzare a proprio favore i fattori che andavano mutando, per ridefinire così la propria egemonia, mentre il proletariato, privo d’una forza politica strategica, cioè d’un vero partito comunista d’avanguardia, arretrò inevitabilmente, incapace progressivamente di far fronte alla doppia mannaia dell’attacco nella sfera economico-sociale e della repressione contro le sue forze soggettive più avanzate. Fu esemplare, in tal senso, anche nei termini della mobilitazione reazionaria delle masse che potenzialmente portavano seco i nuovi equilibri che la classe dominante voleva imporre, la cosiddetta “marcia dei quarantamila” crumiri durante la storica vertenza Fiat nell’ottobre del 1980.
In questa fase, lo stato puntò a perfezionare la propria natura di regime di controrivoluzione preventiva, sulla base del patrimonio sviluppato nel contrasto al movimento proletario.
A partire, innanzitutto, dagli strumenti giuridico-legali sviluppati. Innanzitutto, l’aggravarsi e la modalità di applicazione dei reati associativi, la rimodulazione e la rinfuzionalizzazione del carcere, con l’introduzione dei regimi differenziati e dell’isolamento (oggi divisi tra 41 bis e moduli As1, As2, As3) e l’uso del pentiti, come vere e proprie macchine da guerre giudiziarie nelle mani di pubblici ministeri e forze di repressione. Tutti passaggi che trovarono collocazione organica e sbocco nella riforma complessiva dell’ordinamento penitenziario (1975) e nel nuovo codice di procedura penale (1988).
E quando tutto ciò non bastò, la controrivoluzione si scatenò nell’applicare una sorte di pena di morte non ufficiale, applicata fuori dai tribunali, nelle strade, come il caso di Pedro e di altri compagni rivoluzionari uccisi dimostra.
Più indirettamente, ma non meno calibrata dal punto di vista politico, fu la costruzione/ricostruzione d’una egemonia politico-culturale basata dapprima sull’emergenzialismo antiterrorista, poi sulla criminalizzazione della memoria degli anni settanta. A quest’opera, se vogliamo più fine dal punto di vista degli argomenti ideologici utilizzati rispetto alle riforme sul piano penale e penitenziario, ha contribuito principalmente il revisionismo, sia di vecchia matrice picista, sia di nuova impostazione soggettivista-sociologica (Negri e compagnia cantante), che si è “fatto stato” e ha, più o meno, trovato così il suo degno posto tra le fila della classe dominante.
La borghesia riuscì così ad autoproclamare la fine della sua crisi ideologico-politica, rappresentata dalla prospettiva della rivoluzione socialista, proprio quando, paradossalmente, iniziava a imperversare la crisi sistemica del capitalismo che, tuttora, con andamento congiunturale e progressivamente sempre più aggravandosi, lo attanaglia. Del resto, quanto succedeva in Italia, fu parte d’un uguale processo reazionario a livello internazionale, il quale portò al sorgere d’una rinverdita identità ideologica del grande capitale, il cosiddetto neoliberismo, d’una nuova prassi nelle relazioni sociali all’interno dei maggiori paesi capitalisti per distruggere ogni prospettiva di resistenza ed autonomia di classe e, sul piano globale, ad un rilancio del dominio imperialista, dovuto al crollo dei paesi del campo socialista e alla conseguente riaffermazione, sempre più accelerata, della tendenza alla guerra neocolonialista.
Oggi, tutt’altro che simbolicamente, si ripropongono i luoghi di quel conflitto, sul piano interno ed estero, segno di come le contraddizioni siano presenti e avanzino, di come la borghesia punti a mantenerne il controllo, di come il proletariato e i popoli oppressi sono chiamati a farle esplodere in senso antagonista. Due luoghi per tutti: la Fiat, con il modello Marchionne come definitivo ariete neocorporativo contro i lavoratori, i loro interessi immediati e storici, e la Libia, l’ottavo paese per risorse petrolifere nel mondo, che, con i bombardamenti del 1986 fu vittima dell’apice del militarismo reaganiano e oggi sta finendo nuovamente nel mirino dell’interventismo bellico Usa-Nato.
Passano i giorni, gli anni e i decenni: la storia è storia di lotte di classe ed in ogni momento ed in ogni luogo del mondo vi è chi lotta, nelle fabbriche, nei quartieri, nelle metropoli del Nord del mondo e nelle campagne del Sud del mondo. Fra questi vi è anche chi, come Pedro, dona o è pronto a donare la propria vita per la liberazione della propria classe.
Pedro vive laddove la memoria della classe per cui combattè si riafferma, dove la memoria diventa resistenza e lotta e dove resistenza e lotta corrono necessariamente a riprendersi la propria memoria.
Non è solo ricordo, è tendenzialmente movimento reale: ai compagni di oggi il compito di dargli più forza possibile.
I compagni e la compagna del Circolo Pedro di Trieste
via Oberdorfer 2, 34100 Trieste
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