Nucleare e privatizzazione dell’acqua: il modo di produzione capitalista sussume la natura e genera una contraddizione tutta interna al conflitto capitale-lavoro. Sabato 26 marzo tutti in piazza. La drammatica lezione dal Giappone parla anche a noi.
La situazione in Giappone si modifica di giorno in giorno, e oltre a portare alla luce il drammatico bilancio del terremoto e dello tsunami in termini di vite umane e di distruzione del territorio, evolve anche rispetto alla sempre più ormai innascondibile drammaticità degli eventi legati alle centrali nucleari.
La Tokyo Electric Power (Tepco), la società che gestisce l’impianto, e il Governo nipponico, asservito agli interessi di quest’ultima, hanno tentato di nascondere e mistificare la realtà. Un cliché già più volte visto in passato in tutto il mondo, davanti a grandi e “piccoli” incidenti nucleari.
E’ ormai chiaro a tutti che la situazione è già catastrofica e che è destinata solo a peggiorare, checché se ne dica.
Il livello di contaminazione da sostanze radio-tossiche è ormai altissimo, i noccioli in molti casi hanno già avuto una fusione parziale, ma si teme per quella totale, la situazione è sempre più incontrollabile e si compiono operazioni dai dubbi risultati nel tentativo di raffreddare i reattori, tutti gli Stati stranieri, compreso quello italiano, hanno “invitando” i propri cittadini a lasciare il Giappone, alcuni organizzando voli charter o, come nel caso dell’esercito Usa, pagando i biglietti aerei ai propri dipendenti civili per rientrare in patria, il raggio di evacuazione si estende sempre di più, sostanze radioattive a un livello abnorme sono state individuate nell’acqua marina di fronte agli impianti, Tokyo è sempre più una città deserta, è stato vietato l’uso di molti cibi, l’Agenzia Internazione per l’Energia Atomica ha comunicato che il livello di allarme è passato da 4 a 5 su una scala di 7, e alcuni esperti lo indicano a 6.
La Tepco già dagli anni ’70 ha più volte violato i codici di sicurezza degli impianti, ad esempio non comunicando alle autorità giapponesi preposte le decine di anomalie e “piccoli” guasti avvenuti nelle centrali nucleari da lei gestite.
Nonostante questo il Governo giapponese aveva concesso alla Tepco, poco più di un mese fa, la possibilità di gestire la centrale di Fukushima per altri 10 anni, dopo ormai quarant’anni di gestione. Ormai anche per il Governo non è più possibile sostenere la Tepco, così anche il Primo Ministro Naoto Kan deve ammettere che non può più fidarsi.
Sembrerebbero giorni di grandi ripensamenti. La Merkel sospende per tre mesi la produzione in 7 centrali tedesche, quanto basta per superare le prossime elezioni che si svolgeranno in alcune regioni, e non si pronuncia per il futuro. Obama dichiara che il rischio nucleare giapponese è serio, istituirà una commissione di revisioni delle proprie centrali, ma ribadisce che l’energia nucleare rimane il futuro degli USA, nonostante che sono più di 30 anni, dopo il grave incidente di Three Mile Island, che negli Sati Uniti non si attiva una centrale.
In Italia, in queste ultime ore, la strategia dei nuclearisti è cambiata, passando dalle accuse di sciacallaggio verso chi si oppone al nucleare ad un tentativo di uscita furbesca dal loro pantano. Il Governo Berlusconi, con i suoi Ministri Prestigiacomo e Romani, che nei giorni scorsi avevano dichiarato nessun ripensamento sul nucleare, ora si mostrano “preoccupati”. Romani in modo diplomatico dichiara “che sul nucleare servono scelte condivise”, ma non dice con chi le vuole condividere se non genericamente “con le comunità locali”, la Prestigiacomo invece ci va giù diretta, svelando il vero motivo, e dichiarando, in un colloquio con Bonaiuti e Tremonti che sarebbe dovuto rimanere riservato: “non possiamo mica rischiare le elezioni per il nucleare, non facciamo cazzate”. I promoter più autorevoli nel nucleare in Italia, primi fra tutti Chicco Testa, presidente del Forum Nucleare Italiano, e Umberto Veronesi, presidente dell’Agenzia sulla Sicurezza Nucleare, ora chiedono “una pausa di riflessione”. Ovviamente non ci fidiamo, sono troppo vicine le elezioni amministrative (non c’era bisogno della Prestigiacomo per capirlo) e il referendum sul nucleare. Va ricordato che quando si voterà per il referendum contro la privatizzazione dell’acqua e contro la ripartenza del nucleare, si voterà anche per il referendum sul “legittimo impedimento”, e il raggiungimento del quorum preoccupa non poco, anche su questo, Berlusconi.
Davanti a questo quadro è necessario sviluppare una posizione di merito. Pensiamo che sia controproducente uno sterile antiberlusconismo e sia necessaria una indipendenza da chi vuole cavalcare l’onda antinucleare semplicemente per sostituirsi a questo governo alle prossime elezioni.
Crediamo sia molto più utile porre al dibattito alcune riflessioni, oltre a quelle che abbiamo già posto nei giorni scorsi.
La prima è relativa alla necessità di compiere un’analisi sull’uso della tecnica e della scienza all’interno del Modo di Produzione Capitalista.
Storicamente il legame tra scienza-tecnologia e sistema politico-economico è stato sempre strettissimo. La scienza e la tecnologia di per sé non rispondono ad un parametro etico, non sono né buone e né cattive, dipendono solo dall’uso che se ne fa, se servono per gli interessi individuali o settoriali o se sono utili per la società nel suo complesso.
Lo sviluppismo capitalista ha dato esclusivo compito universale alla tecnologia, creando in questo modo il concetto di tecno-scienza, impiegando esclusivamente in questo modo la scienza.
Nell’attuale sistema economico-sociale, la scienza assume un ruolo in quanto forza produttiva, diventa prevalentemente un fattore di produzione.
Per questi motivi la tecnologia del Modo di Produzione Capitalista non può permettersi di tenere conto della sicurezza sociale e ambientale, i costi che ne deriverebbero sarebbero incompatibili con l’accumulazione del capitale.
Lo abbiamo visto, ad esempio, nel Golfo del Messico, dove si è trivellato un pozzo di petrolio a 1500 metri di profondità marina e il disastro che ha provocato. Lo stesso vale per le tecnologie sull’energia nucleare, che fino ad ora si sono rivelate assolutamente insicure, e anche le centrali cosiddette di nuova generazione non sono in grado di garantire sicurezza. Lo sta dimostrando la costruzione della centrale EPR (le stesse che si vorrebbero istallare in Italia) in Finlandia. Senza considerare i problemi dello stoccaggio delle scorie, quelli relativi allo smantellamento delle centrali a fine ciclo produttivo, i molteplici allungamenti della vita delle centrali, che spesso si fanno funzionare ben oltre il tempo previsto dalla progettazione e quindi tutte le incognite relative alla sicurezza a questi collegati.
Una seconda riguarda la crisi energetica. L’attuale crisi del capitalismo, che abbiamo già sottolineato e analizzato più volte indicandola come crisi sistemica, si sta evidenziando anche in una mai sperimentata prima crisi ecologica.
Siamo attualmente nella fase di “picco” dell’estrazione del petrolio a livello mondiale, cioè nelle condizioni attuali non sarà possibile aumentarne la sua produzione. Non significa che i giacimenti siano esauriti, ma che ce ne sarà sempre di meno disponibile. Questo apre scenari nuovi a livello mondiale, relativi al come e dove andare a prendere il petrolio o come controllare i pozzi già esistenti o le altre fonti non rinnovabili. Si tratterà di incrementare l’azione colonialista e imperialista, compresa l’opzione bellica. Lo stiamo vedendo con l’escalation militare in Libia, la dichiarazione della “no fly zone”, i bombardamenti e l’ormai probabilissima invasione militare. Come lo potremmo vedere in un futuro non troppo lontano in America Latina, prima fra tutti in Venezuela, Ecuador, Bolivia, possessori di petrolio, gas e litio, e che si sono posti, con i loro processi di cambiamento, fuori dal controllo degli Stati Uniti.
La soluzione non può essere il nucleare, perché economicamente inconveniente se non attraverso sostegni pubblici a favore delle imprese private; non risolve il problema energetico perché può produrre esclusivamente energia elettrica (e di questa attualmente copre circa il 17% del fabbisogno, per coprirne il 100% bisognerebbe costruire altri 2000/2500 reattori oltre a quelli già esistenti nel mondo) che è meno della metà dell’energia complessiva necessaria. Si potrebbe obiettare che il suo impiego potrebbe comunque contribuire in parte alla soluzione della crisi energetica. Ma a quale prezzo? E negli interessi di chi? L’uranio, come il petrolio, il gas, il carbone, è un elemento naturale esauribile e il suo approvvigionamento aprirà scenari internazionali insostenibili e tragici, socialmente ed ecologicamente, come è già per le altre fonti esauribili; è insicuro per i motivi sopra descritti.
Una possibilità sta in un nuovo modello di sviluppo attraverso una nuova programmazione energetica, economica e sociale, basata su criteri di razionalità, efficienza, democrazia, equità, giustizia.
Bisogna imporre un’inversione di tendenza, una tendenza che ha visto in questi ultimi decenni la privatizzazione di tutti i servizi pubblici locali e nazionali e dei settori produttivi strategici, con la ridefinizione degli scopi della produzione che, oltre ad avere forti ripercussioni sull’occupazione, sul welfare e sul rapporto qualità-prezzi, ha provocato anche forti cambiamenti nelle politiche economiche, ambientali e internazionali, prime fra tutte quelle energetiche.
Dovremmo cominciare a chiederci se non sia allora necessario, come programma minimo di controtendenza, tornare all’intervento pubblico nei settori produttivi strategici, in modo adeguato alle risorse disponibili, controllando e condizionando le scelte delle imprese pubbliche, ma anche di quelle private, su nuove politiche internazionali, di salvaguardia ambientale, del lavoro socialmente e ambientalmente utile, di riconversione, di crescita sociale.
Ridare impulso alla ricerca, investendo su questa e ponendola esclusivamente sotto il controllo pubblico, indirizzandola e finanziandola sopratutto sullo sviluppo delle energie rinnovabili.
Una terza riflessione, di carattere più generale, riguarda la sussunzione della natura.
Il Modo di Produzione Capitalista, con tutto ciò che ne consegue dal punto di vista dell’organizzazione sociale e politica, sta manifestando, forse come mai successo prima, le sue più acute contraddizioni. Tra queste, quelle tra il capitale e la natura sono decisamente tra le più eclatanti. Il capitalismo non solo include la natura, ma anche la subordina ai disegni della produzione del plusvalore e della valorizzazione del capitale.
Oltre alla forza lavoro, usa il resto della natura. Le fonti naturali, oltre alle materie prime e alla forza lavoro, di cui ha più bisogno sono quelle energetiche e l’acqua, l’approvvigionamento e il controllo di queste diventano quindi strategiche per la produzione, la circolazione e la commercializzazione delle merci, quindi per la valorizzazione e la rotazione dei capitali.
Il capitale include e subordina la natura, piegandola alle sue necessità: la produzione capitalista, si nutre di un mondo naturale a lui necessario su grande scala e quindi sempre più mercificato. In questa sussunzione la natura si presenta come una forza produttiva del capitale.
Tutto questo evidenzia i suoi effetti più devastanti proprio negli elementi principali della produzione: il lavoro e la natura.
Sul lavoro ha generato maggiore sfruttamento, diminuzione dei diritti, flessibilità, precarizzazione istituzionalizzata, licenziamenti, emigrazione. Sulla natura ha generato inquinamento, deforestazione, dissesto territoriale, cambiamento climatico, depauperazione, sovrapproduzione di rifiuti.
Questo sia a livello globale che locale. Lo sfruttamento monopolistico delle risorse naturali mondiali è necessità per la mondializzazione dei capitali delle oligarchie finanziarie. Da qui la mondializzazione della forza-lavoro, la delocalizzazione della produzione, la circolazione mondiale delle merci, con tutto ciò che ne consegue dal punto di vista ambientale e socio-economico. Questo attraverso la sua azione imperialista come sbocco necessario al capitalismo, come fase suprema inevitabile. E’ la fase in cui ha necessità di stabilire il dominio sul mondo, non come necessità politica, ma come necessità economica attraverso quella politica e militare.
Gli attuali conflitti sociali sulle questioni ambientali, si sono espressi fino ad oggi in molti casi in modo parcellizzato, su specifiche tematiche e vertenze locali, che raramente hanno avuto una percezione generalizzata e unificante della contraddizione capitale-natura interna al conflitto capitale-lavoro.
Crediamo quindi che l’impegno debba essere prima di tutto quello di favorire l’incontro, il confronto e la connessione di tutte le espressioni organizzate del conflitto, su un terreno che abbia come discriminante la valenza anticapitalista, antimperialista e dell’indipendenza. Questo per creare le condizioni che sappiano anche generare, dal basso, un raccordo soggettivo unificante dei movimenti sociali, del sindacalismo di classe, della rappresentanza politica anche sulle questioni ambientali e su quelle contro la guerra perché tra loro strettamente legate, che unisca le lotte nei posti di lavoro con quelle nei territori.
Questo già a partire dalle iniziative che nasceranno nei prossimi giorni contro l’intervento militare in Libia, dalla manifestazione del 26 marzo contro la privatizzazione dell’acqua e il nucleare e dai relativi referendum. Ma che sappia anche non esaurirsi in questi.
* Rete dei Comunisti
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