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Tunisia. Che cosa ha causato la rivolta

Pochi sono gli affamati o i senza casa. Tunisi non ha niente che assomigli agli slum del Cairo – nè le sue manifestazioni di ricchezza. Nonostante ciò la Tunisia è anche un paese in cui lo stipendio minimo è di 216 dollari al mese e in cui molti desidererebbero guadagnare questa somma, se riescono affatto a trovare lavoro.

A Sidi Bouzid, la città dell’interno in cui la rivolta è iniziata, ci sono più connessioni internet che gabinetti. Circa un quarto dei poco più di 10 milioni di tunisini hanno qualche connessione alla rete, e ci sono due milioni di acconti Facebook. Le immagini di Sidi Bouzid e della rivolta diffusasi sono state portate da Al Jazeera in quasi tutte le case.

Molti tunisini sono connessi direttamente al resto del mondo, e sono profondamente consapevoli di ciò che il mondo moderno ha da offrire ma che è a loro negato. Vogliono sapere perché.

La posizione della Tunisia nelle relazioni economiche, politiche e sociali internazionali è quel che costituisce il palco sul quale i vari attori nella rivolta hanno giocato la loro parte. Come altri paesi terzomondisti, la sua economia è organizzata in accordo ai bisogni del mercato mondiale, che non è un campo da gioco piatto ma un’espressione della divisione del mondo in paesi capitalisti monopolisti e paesi oppressi le cui economie sono subordinate al capitale finanziario estero. A causa del dominio del capitale basato a New York, Londra, Parigi e via di seguito, invece di sviluppare economie nazionali dove i vari rami dell’industria e dell’agricoltura grosso modo combacino, le diverse parti dell’ economia sono connesse più con il mercato internazionale che tra esse stesse.

La Tunisia, considerata un modello dall’FMI, ha avuto il più alto tasso di crescita in Africa, una media di circa 5% lungo diversi decenni. Ma la sua subordinazione economica ha frenato un molto maggiore sviluppo potenziale, e lo sviluppo distorto sperimentato dal paese è una delle maggiori fonti della miseria della gente.

Una questione centrale in Tunisia, come in altri paesi oppressi, è l’agricoltura. In Europa e negli Stati Uniti viene sovvenzionata perchè l’autosufficienza alimentare è un prerequisito per un’economia nazionale indipendente e bilanciata. In tempi antichi la Tunisia nutrì una buona parte del mondo mediterraneo. Ora la terra migliore nella regione lungo la costa è utilizzata per una manciata di colture da esporto, ed il resto è trascurato.

Gli investimenti vanno dove maggiori sono le possibilità di profitto, al saccheggio delle risorse per l’esportazione, in industrie come le miniere di fosfato che poco contribuiscono allo sivluppo generale, e alle regioni costiere (dove le strade non servono perché i beni vengono spediti all’estero via mare), mentre il grosso dell’agricoltura è stagnante per la mancanza di risorse, inclusa la mancanza di fertilizzanti a base di fosfato. Interi settori sociali nell’interno sono spinti nelle città costiere per lavorare nell’industria leggera export-dipendente e nei call centre ed altri servizi forniti all’Europa, mentre la restante parte della popolazione e del paese è lasciata a marcire. La divisione internazionale del lavoro diretta dal mercato e l’organizzazione dell’economia globale determinano lo sviluppo in ogni angolo della Tunisia, sia laddove gli investimenti vi arrivano sia dove non arrivano. La sottoccupazione relativa dell’interno, risultato della dominanza del capitale imperialista, rende gli investimenti più profittevoli mediante la riduzione del costo del lavoro in tutto il paese.

Di nuovo il turismo viene promosso come la salvezza della Tunisia. Anche se il tasso di un milione di turisti all’anno riuscisse a venir sostenuto – per non parlare di incrementarlo largamente – nella situazione odierna in cui si trova l’economia globale, questa “industria” si è già dimostrata una distruttrice di nazioni.

La prostituzione che ha inevitabilmente accompagnato il turismo è la peggior sfaccettatura di un settore le cui ragioni di base della sua esistenza non sono le bellezze naturali tunisine o le sue meraviglie archeologiche, ma l’inequaglianza che lo rende a basso costo e trasforma la sua gente in servi invece di offrire loro le opportunità per contribuire e sviluppare i loro talenti. Più il turismo cresce e ingoia le risorse, peggio diventa per l’ambiente e per uno sviluppo nazionale bilanciato che possa rendere possibile lo sviluppo a tutto tondo degli esseri umani.

Di fatto una delle maggiori esportazioni della Tunisia è la sua gente. Ad ogni dato momento uno su dieci tunisini vive all’estero, metà in Francia ed il resto in Italia, Libia e altrove. La maggior parte sono lavoratori, a volte nei servizi grazie alle loro qualità linguistiche. Vi sono pure insegnanti, tecnici, ingegneri ed altri professionisti che sono un affare per il paese in cui vi lavorano, non solo per via dell’ineguaglianza salariale ma ancor più perché il costo della loro educazione è sostenuto dai tunisini. E’ un vantaggio per la Tunisia che così tanta della propria gente conosca il mondo, ma questa situazione è anche un enorme salasso per il suo potenziale e una delle tante fonti dell’umiliazione nazionale.

Da quando Ben Ali e i servizi di sicurezza iniziarono a vacillare nel pattugliare I litorali e le acque costiere, decine di migliaia di tunisini si sono imbarcati in piccole barche provando a scappare da una vita a fondo cieco. Probabilmente migliaia sono annegati o morti di sete provando a raggiungere l’Europa la quale è ancora avida di sfruttarli laggiù, anche se in numero minore rispetto a prima della crisi finanziaria. Queste morti sono un terribile indicatore umano di quanto il mercato internazionale e le oppressive relazioni economiche e politiche che rappresentano hanno imprigionato la Tunisia, e di quanto lo sviluppo del paese è stato conseguito alle spese della propria gente.

 

La Tunisia e la crisi economica globale

Molti, forse la maggior parte dei tunisini accusano Ben Ali per questa situazione, come anche qualche esperto internazionale. E’ importante vedere dove sta la verità, in particolare se il punto di vista riguarda come la Tunisia possa diventare radicalmente diversa.

Il regime di Ben Ali era basato su un sistema di patronato organizzato largamente attorno a legami famigliari. Guardando in basso, questo significava un sistema di favori politici fino in fondo ai quartieri più poveri. Un posto di lavoro, le cure sanitarie ed altre cose dipendevano dai legami con il regime e a chi si era imparentati/collegati (ed essere collegati alle persone sbagliate, ad esempio ad un oppositore del regime, voleva dire difficoltà costanti). Guardando in alto, significava che le maggiori risorse di ricchezza erano nelle mani della famiglia di Ben Ali e di sua moglie, Leila Trabelsi. Niente poteva essere ottenuto senza mazzette, ed ognuno che volesse iniziare un grosso commercio doveva dare al “clan” dirigente un’interesse nella loro impresa. L’importanza delle relazioni personali ereditarie in questa economia e società relativamente sviluppate sembra essere un retaggio delle relazioni sociali feudali o comunque pre-capitaliste.

Similmente alla Siria e l’Egitto, quando le liberalizzazioni da parte di Ben Ali di ciò che un tempo era un’economia dominata dalle aziende statali iniziarono a mettere vecchie e nuove imprese in mani private, mettendo in gioco le forze del mercato più pienamente, ci fu una maggiore concentrazione della ricchezza in un minor numero di persone – persone associate al “clan” dominante.

Questo avrebbe potuto essere un serio ostacolo allo sviluppo capitalista, dato che rese gli investitori stranieri riluttanti a fare affari in Tunisia e lasciò indietro e addirittura escluse anche qualche maggiore capitalista locale. Questa è l’opinione espressa dall’ambasciatore statunitense in un cablo per Washington esposto da Wikileaks l’anno scorso. Può anche essere vero, come alcuni tunisini affermano, che ci sia stata una rottura tra il “clan” capitalista e latifondista associato a Ben Ali e quello associato a Habib Bourguiba, il primo presidente tunisino dell’indipendenza, dal quale Ben Ali prese il potere in un golpe di palazzo.

Ma non è vero che la concentrazione di ricchezza in un circolo sempre più ristretto, l’instabilità e le condizioni deterioranti subite da coloro che si consideravano classe media, e l’inabilità crescente dell’assistenza sanitaria, di quella educativa e di altri sistemi di stato sociale del paese di mantenere quel che i tunisini considerano i loro diritti legittimi, possano essere spiegati solamente o principalmente dalla “cleptocrazia”, dall’avidità illimitata del “clan” di regime. Questi sviluppi sono comuni non solo ai paesi arabi ed a quelli del terzo mondo ma anche al mondo capitalista odierno. Questo tipo di polarizzazione è una caratteristica generale dell’accumulazione capitalista sotto le condizioni delle necessità e della crisi economica corrente affrontate dal sistema imperialista globale, anche se questo funziona differentemente in paesi differenti.

 

Le dinamiche di una crisi politica

Tutto questo ha preparato il terreno per quel che è successo, ma non significa affatto che le masse furono semplicemente pedine nell’interesse di qualcun’altro. La rivolta di massa ha intensificato lo sviluppo delle scissioni all’interno della classe dirigente, che ha a sua volta incoraggiato lo sviluppo del movimento di massa. Uno dei fattori meno compresi e tra i più importanti è l’interazione dinamica dei vari settori della popolazione.

 

Quando la gente non può più vivere alla vecchia maniera

Per decenni il regime rimase non minacciato e niente accadde perché era “sapere comune” che niente possa mai accadere. La maggior parte della gente era silenziosa e passiva perché pensava che tutti gli altri sarebbero rimasti in silenzio e passivi. Poi, quando i giovani nelle cittadine dell’interno presero il tragico suicidio di Bouazizi come un segnale – che anche loro non avevano niente da perdere – e gl’insegnanti li incoraggiarono a lanciare i sassi alla polizia mentre gli avvocati e gli artisti parlarono per loro, questo fece diventare gli studenti ed i giovani nelle grandi città in particolare Tunisi più coraggiosi e determinati ad andare oltre internet fino in strada. Tutto questo a sua volta ritornò indietro alle ribellioni della provincia.

La manifestazione del 12 gennaio a Sfax (la seconda città del paese per grandezza ma sfavorita se comparata ad altre città costiere) sembra aver giocato un ruolo centrale nel portare la rivolta della provincia alla capitale. Questa è stata la prima grande manifestazione per chiedere apertamente che Ben Ali se ne andasse. Ma mentre è stata la maggior protesta fino a quel momento, contò comunque probabilmente solo 30 mila persone. Il suo significato politico fu molto più importante della sua dimensione.

Non solo il regime perse la sua legittimità, ma perse la sua abilità di terrorizzare un crescente numero di persone, addirittura nei centri urbani del paese, e questo ovviamente gli fece perdere ancora più legittimità agli occhi dei suoi propri elementi sostenitori e vacillanti. Improvvisamente, invece che ognuno almeno tollerasse il regime, “ognuno” fu contro di esso.

E’ rimarchevole che il partito di regime, che dichiarò di avere un milione di membri, non fu capace di organizzare un maggiore supporto. E’ stato sostenuto che con la privatizzazione e il disastroso declino nei servizi pubblici, il partito dirigente divenne incapace di portare favori ai settori della popolazione messi peggio che furono stati quelli maggiormente dipendenti ad esso. Secondo alcuni studiosi, le classi inferiori furono una base di supporto più affidabile per il partito dirigente (RCD) che alcune delle famiglie più ricche le quali, ad esempio, possono preferire di venir assistiti da un medico privato e quindi non hanno veramente bisogno di una tessera sanitaria statale. Un attivista a Sidi Bouzid spiegò che la dirigenza del partito al potere era più abituato a schierare i propri sostenitori come delinquenti che come attivisti politici. Secondo le figure di regime, il 20 % della popolazione di Sidi Bouzid era membro dell’RCD, una delle più grandi concentrazioni nel paese.

Il regime chiamò le sue masse nella capitale per marciare in suo supporto al mattino del 14 gennaio, e la polizia, incapace di identificare chi fosse chi, all’inizio non fece nulla per fermare le persone assembranti in viale Bourguiba. Anche se la folla avesse potuto includere sostenitori del regime, finì solidamente unita contro la polizia ed il suo capo, Ben Ali.

 

Chi guidò la rivolta?

Nel parlare a dozzine di persone, incluse alcune di quelle che dissero di essere tra i principali organizzatori di questi eventi, una delle cose che più colpiscono è questa: pochi, se affatto alcuno, presero parte a questo movimento con l’idea di stare per cacciare Ben Ali.

Non che nessuno lo volesse. Oggi quasi tutti dicono di essere felici di averlo visto andarsene. Ma molto pochi nel paese (ed esperti di punta della Tunisia all’estero) pensarono che il regime sarebbe affatto caduto in un modo così improvviso e drammatico. Ciò che la maggior parte sperò di ottenere fu, al massimo, un’apertura graduale, un processo di conquista dei diritti democratici. Pochi, se affatto alcuno, chiamarono apertamente al rovesciamento del regime prima dei momenti finali, o quando Ben Ali se ne era già andato. Il dirigente del PCOT, Hamma Hammami, disse che il suo partito fu “praticamente il primo” a rilasciare una tale richiesta, il 10 gennaio, quattro giorni prima della fine, quando lo slogan “Ben Ali sloggia!” dilagò di colpo per il paese.

Di colpo sembrò che un intero popolo lo urlò all’unisono, entusiasta di essere capace di gridare queste parole il più fortemente possibile e quasi senza credere alle proprie orecchie.

In una tumultuousa intervista di massa in un caffè in viale Bourguiba che iniziò con una mezza dozzina di studenti universitari e più giovani adolescenti ed infine coinvolse molti dei loro amici, essi sostennero di essere (alcuni di loro specificamente, ma più in generale altri giovani come loro) gli unici a chiamare alla “rivoluzione”, anche se quelli che vennero alle dimostrazioni maggiori coinvolsero un ben maggiore campione della società. Pure gli anziani ammisero a malincuore che questo era il caso a Tunisi, anche se dichiararono che il supporto delle organizzazioni degli avvocati (una forza chiave), degli artisti ed in particolare dei sindacati dettero al movimento il suo potere.

Niente di quel che successe fu pianificato da alcuno. Il grosso della sinistra a livello nazionale fu trattenuta dalla sua convinzione che solo un cambiamento graduale fosse possibile. I giovani con meno sviluppata visione politica agirono spontaneamente e presero la guida, non “organizzando” il movimento ma ponendo le sue condizioni e spingendolo in avanti nella convinzione che loro avrebbero vinto perché la loro causa era giusta – senza che fosse completamente chiaro cosa “vincere” avrebbe significato.

Ci sono precedenti alla rivolta, in particolare una sollevazione nella cittadina mineraria meridionale di Gasfa nel 2008, scatenata dalle vedove dei minatori che protestarono contro il fatto che i posti di lavoro nell’industria venivano assegnati a persone connesse al regime invece che ai propri figli. Le città dell’interno come Sidi Bouzid, Kasserine, Redeyef e Gafsa testimoniarono tutte brusche sommosse nel corso del 2010. La repressione poliziesca seguì sempre. Nella capitale, mentre la vita politica aperta, in particolare le dimostrazioni, non era permessa e molti subirono arresti ed altre forme di persecuzione, e mentre i media e le altre forme di espressione pubblica erano imbavagliate, sembra che comunque, consciamente o meno, l’opposizione abbia conseguito un certo modus vivendi con il regime, il quale si astenne da una repressione più feroce man mano che la gente mantenne la propria attività politica a basso profilo e le loro richieste all’interno di definiti argini. L’attività rivoluzionaria e qualsiasi richiesta di deposizione di Ben Ali erano assolutamente non permesse, ma francamente sembra che quelli che si considerano rivoluzionari finirono con l’adattarsi quasi totalmente a quello che avevano il permesso di fare.

La loro idea fu che lavorando per mezzo di canali ed organizzazioni legali, sollevando ed organizzando la popolazione attorno a richieste legali che non sfidassero il sistema economico e politico nel suo complesso, e che non sfidassero il modo di pensare e le relazioni sociali tradizionali, le masse sarebbero diventate gradualmente coscienti del bisogno di libertà politica, e una volta che questo fosse stato ottenuto, si sarebbero presentate le condizioni per ulteriori cambiamenti rivoluzionari.

Pensarono che se avessero provato a guidare un movimento rivoluzionario prima che le masse fossero preparate a ciò, sarebbero rimasti isolati. Ma poi quando una crisi politica eruppe e molta gente – una minoranza della popolazione ma comunque una massa critica – decise che non poteva più vivere alla vecchia maniera, la sinistra fu colta impreparata e non riuscì a sfruttare pienamente quella opportunità. Emerse che i giovani diventarono improvvisamente molto più radicali dei cinici sinistroidi che pensavano di avere un piano “realistico” per un cambiamento graduale.

Alcuni all’estero dichiararono che la rivolta in Tunisia fu essenzialmente un movimento sindacale, ma questo è per metà errato e per metà ingannevole. E’ errato perché i sindacati seguirono i giovani, che non avevano nessuna organizzazione, e ingannevole perché fino a quasi la fine le principali organizzazioni che si attivarono furono quelle degli insegnanti e di altri gruppi dell’intellighenzia. Inoltre, il dibattito riguardo a quanto gli elementi di sinistra attivi attraverso i sindacati ed altri gruppi aiutarono a diffondere la rivolta va oltre questo punto, perché tutto quello che fecero fu di aiutare la gente a fare quello che stavano già facendo spontaneamente.

Quel che non fecero, e quel che nessuno fece, fu di guidare questo movimento nel senso di sforzarsi ad impartire una direzione cosciente, anche in un senso limitato a cacciare Ben Ali, ancor meno di provare a trasformare il movimento spontaneo in un movimento cosciente per prendere il potere ed iniziare il tipo di trasformazioni rivoluzionarie che potessero di fatto soddisfare i bisogni e le richieste della gente.

Non ci sono molte prove riguardo all’affermazione che questi eventi furono il risultato di una graduale accumulazione di organizzazione e coscienza nel corso degli ultimi anni, sia nella maggioranza della popolazione, sia nelle poche centinaia e migliaia che si rivoltarono per prime e le centinaia di migliaia che vi presero parte attivamente durante gli ultimi giorni. Può essere affermato che ci furono focolai e lotte legittime, ma che furono sconfitte, e non fu questo un fattore negativo che pesasse sulla popolazione?

Il desiderio del popolo al cambiamento, ed in particolare se o meno agirono in riguardo a quel desiderio, fu correlato col se o meno essi pensarono fosse possibile. Ci fu una confluenza di fattori dinamicamente interattivi che si unirono per produrre una situazione nella quale, quasi di colpo, le classi dirigenti non risucirono più a comandare alla vecchia maniera e la gente anch’essa non fu più disposta a continuare a vivere alla vecchia maniera, e queste due condizioni – delle quali Lenin disse definiscono una situazione rivoluzionaria – riverberarono avanti e indietro.

E’ difficile scrivere di queste complesse interazioni senza cadere in congegni letterali semplicistici, ma il punto è che le dinamiche estremamente potenti all’interno di tali situazioni possono trasformare gli individui, interi settori della popolazione, ed il quadro politico improvvisamente.

 

Quando le classi dirigenti non riescono più a comandare alla vecchia maniera

Il capitale e la “classe politica” francesi furono molto stretti sostenitori di Ben Ali, proprio come lo furono stati con il suo predecessore e compare “uomo forte” Bourguiba. Ma come indicano i memo dell’ambasciatore americano, gli Stati Uniti diventarono piuttosto desiderosi di vedere Ben Ali andarsene – e gli Stati Uniti avevano acquisito un’influenza considerevole in Tunisia, in particolare tra le forze armate largamente equipaggiate dagli Americani. Tali armamenti non sono solo un’espressione di supporto poltico, ma possono anche essere una fonte d’influenza politica, perché significano che i militari tunisini addestrano e lavorano a stretto contatto con le loro controparti statunitensi.

Importanti osservatori concordano che ciò che forzò Ben Ali a scappare in Arabia Saudita il 14 gennaio non fu l’impossibilità di reprimere la sollevazione di massa ma che le forze armate si rifiutarono di intervenire pienamente quando la polizia e gli altri servizi di sicurezza non poterono più fare il loro mestiere. Un giornale tunisino riportò che Ben Ali chiese alle forze armate di bombardare Kasserine a dicembre, ma loro disobbedirono. E’ noto che l’esercito – ai vertici – si rifiutò di dare ordini acciocché i carri armati aprano il fuoco sui dimostranti a Tunisi.

I lealisti di regime provarono apparentemente ad intervenire per mezzo di provocazioni deliberate, inclusi i cecchini di cui si è detto abbiano sparato sulle folle – molti morti furono secondo quanto riferito colpiti alla testa o al petto dall’alto – e le misteriose squadre che diffusero terrore a casaccio nei quartieri di Ben Ali l’ultima notte. Se la violenza diventasse generalizzata, pare pensassero, l’esercito non avrebbe più potuto mantenere il suo approccio alquanto riservato nei confronti della rivolta. Ma nel forzare la mano all’esercito, qualla mano sembra abbia invece colpito loro stessi.

Cos’ha fatto cambiare idea a Ben Ali tra la sera del 13, quando il settantacinquenne annunciò in televisione la precedentemente “impensabile” concessione di non correre alle prossime elezioni nel 2014, ed il tardo pomeriggio successivo quando con sua moglie fu impacchettato a bordo di un aeroplano? E’ stato riferito ampiamente, e mai smentito, che il capo delle forze armate Rachid Ammar gli disse che se le folle avessero marciato per il palazzo presidenziale quel giorno la sua sicurezza non sarebbe più potuta essere garantita. Alcuni pensano che Ammar si espresse meno educatamente. Ad ogni modo, è difficile credere che il generale prese questa decisione senza essere sicuro che la “comunità internazionale” ed in particolare gli Stati Uniti fossero d’accordo. I rappresentanti statunitensi da Washington e i pezzi grossi militari in visita a Tunisi hanno da allora espresso un caloroso supporto per le forze armate tunisine.

Gli Stati Uniti e di certo la Francia non vollero vedere un rappresentante dei loro interessi cadere e specialmente non vollero che la gente comune assaggiasse il sangue dei loro oppressori, politicamente parlando, ma possono aver valutato l’alternativa addirittura peggiore – una lunga e sanguinosa lotta con conseguenze imprevedibili in Tunisia e nella regione.

La coesione con le forze armate e la loro lealtà ai propri padroni esteri dettero agli imperialisti una certa libertà di scaricare Ben Ali, sapendo che il cuore dello stato, la sua abilità di rinforzare le relazioni economiche e sociali dominanti attraverso la violenza, sarebbe rimasto intatto. Allo stesso tempo, fu chiaro che se a Ben Ali fosse permesso di aggrapparsi alla presidenza per troppo a lungo e l’esercito in suo supporto, la sua autorità e legittimità agli occhi della gente e forse la sua coesione sarebbe stata in pericolo.

Non è irrispettoso per la gente e i loro risultati evidenziare questo, e nemmeno evidenziare che un movimento con più obiettivi rivoluzionari avrebbe incontrato una maggior resistenza.

Un regime, o il nocciolo di un regime, è caduto, ma il sistema economico e politico resta intatto.

Le vecchie forze politiche stanno lottando disperatamente per la loro legittimità, ma sono ancora in errore, e possono contare sulle forze dell’abitudine e dei vecchi modi di comprendere il mondo delle masse. Non è ampiamente compreso che le forze armate sono in definitiva la rappresentazione locale del dominio imperialista e l’esecutore del mercato mondiale imperialista, e i loro fucili e le organizzazioni di combattimento rimangono intatte. Anche tra quelli che furono più avanzati in termini di porre i le condizioni della rivolta ed in quel modo spingendolo in avanti, non molti comprendono come la Tunisia ed il mondo possano essere completamente differenti, e dunque naturalmente essi cadono preda delle idee e tendenze politiche che di base cercano una versione più o meno diversa del mondo ma così com’è ora.

E’ precisamente a causa di questa situazione complessa e contraddittoria che la questione della leadership in Tunisia è posta così acutamente.

 


http://uk.groups.yahoo.com/group/AWorldToWinNewsService/

Tradotto dalla redazione di Contropiano Bologna

 

La parte 1 e 2: https://www.contropiano.org/it/archivio-news/documenti/item/1757-la-voce-della-rivolta-tunisina-cos%C3%A8-accaduto-e-che-cosa-accadr%C3%A0?

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