Qualcuno ebbe a dire che l’energia è il motore delle cose. E’ tanto vero se pensiamo che, in termini biologici, come l’acqua, senza energia non ci sarebbe vita. Questo vale, oltre che per quelle di tutti gli altri essere viventi, anche per la società umana. Cioè tradotto in termini economici e sociali: senza energia non c’è sviluppo. Un assunto semplice, ma dal quale non si può prescindere.
Siamo di fronte ad una crisi economica che non ha precedenti, che per la sua globalità non ha paragoni neanche con quella detta della “Lunga Depressione” del 1873-1895 o con la “Grande Depressione” del 1929. Una crisi globale, che colpisce l’intero pianeta, visto che nessuna regione della terra è esente, oggi, dagli influssi del ciclo capitalista[1].
Inoltre quella attuale, come mai era successo in quelle del passato, si combina con una profonda crisi del paradigma energetico predominante, basato sull’uso irrazionale e predatore del combustibile fossile, una risorsa limitata e non rinnovabile.
Una crisi energetica molto meno percepita rispetto ad altre crisi ambientali, come ad esempio quella climatica, quest’ultima come prodotto stesso delle attuali scelte energetiche e degli attuali modelli di sviluppo, anche in virtù da un lato del suo occultamento da parte del sistema economico, dei suoi governi e dei suoi mezzi di informazione, dall’altro per l’incapacità dei settori anticapitalisti di saperla affrontare in termini politici e sociali, senza parlare di coloro che, seppur all’opposizioni, si propongono come co-gestori della crisi stessa[2].
Questa è invece resa evidente e palese dall’aumento del prezzo del petrolio, che ormai da alcuni anni si sta verificando in modo vertiginoso, e al quale non si può più porre rimedio calmierandolo con il metodo del pompaggio più rapido per aumentare la sua disponibilità sul mercato, aumentando quindi l’offerta rispetto alla domanda.
Infatti ciò che Hubbert, con la sua ormai famosa “curva” matematica, aveva pronosticato già nel 1956, cioè il picco geologico del tasso di estrazione del petrolio, si è effettivamente verificato. Di questo pochi ne parlano, addossando l’aumento del prezzo del greggio a operazioni speculative, o a condizioni geopolitiche, o all’ostilità di alcuni governi possessori dei giacimenti. In realtà la crisi petrolifera, e quindi quella energetica, è determinata prevalentemente da fattori geologici associati a quelli economici. Cioè significa che i giacimenti, per disponibilità quantitativa dei pozzi o per collocazione geografica e fisica, non sono più di facile raggiungimento e quindi l’energia impiegata per estrarre petrolio non è più giustificabile rispetto a quella ottenibile dal petrolio stesso che si estrae, quindi l’energia netta che si ricava è uguale o inferiore a zero. Questo rispetto anche alla previsione della scoperta di nuovi possibili giacimenti che si riduce sempre di più. Tale crisi, dovuta al “picco”, è ormai di carattere mondiale, visto che dopo gli Stati Uniti che sono stati i primi a “piccare” ormai attorno al 1970, si stima che sono ormai l’80% i paesi che hanno “piccato” sui complessivi possessori di giacimenti[3].
Questo vale per il petrolio quanto varrà a breve, se non lo è già, per il gas naturale.
L’attuale crisi energetica pone quindi imperativamente una soluzione in tempi rapidi. La ricerca di tale soluzione, e la necessità di trovarla in tempi molto brevi, rende la crisi economica stessa ancora di più difficile soluzione, visto che l’alternativa è un nuovo paradigma energetico basato sulle fonti rinnovabili, ma molto difficile da realizzare, ancor più sotto la crisi, e che quindi attualmente il sistema capitalista non può permettersi[4].
Questo perché necessità di forti investimenti in ricerca, tecnologia, produzione, cioè risorse economiche che dovrebbero essere sottratte a quelle necessarie agli orientamenti attuali per il tentativo di soluzione della crisi economica, e che si stanno reperendo con il taglio della spesa sociale, riduzione dell’occupazione, privatizzazione dei servizi e dei settori produttivi strategici, sostenendo le banche private e le borse, per rispondere alle necessità dell’Unione Europea determinate e imposte dai suoi paesi centrali, come principalmente Germania e Francia, attraverso la Commissione Europea e diktat della Banca Centrale Europea. Investimenti e modelli che comunque non potrebbero prescindere dalle fonti energetiche non rinnovabili, anche in virtù della loro realizzazione stessa.
Questo sta generando in molti casi opzioni diverse, come quella bellica che tenta di controllare in modo più vantaggioso i giacimenti, come abbiamo visto in Iraq e in altre zone del Medio Oriente, o più recentemente in Libia, o come potremmo vedere in futuro in America Latina nei paesi possessori di risorse energetiche, soprattutto in quelli come Venezuela, Bolivia, Ecuador, attualmente avversi ai poli imperialisti. Opzione che seppur ha un risultato nell’immediato, non ha nessuna possibilità di soluzione effettiva a lunga scadenza.
Nell’attuale passaggio storico dove l’Unione Europea, che fino ad oggi ha avuto soprattutto un carattere economico e finanziario, si sta trasformando in una struttura politica di Stato sovrannazionale che decide sulle scelte politiche ed economiche dei singoli Stati, si sta passando da una competizione tra poli imperialisti ad una maggiore accentuazione della competizione all’interno del polo imperialista della stessa Unione Europea. Questo non solo tra i paesi centrali e quelli della periferia, dove ovviamente predominano gli interessi dei primi a danno delle condizioni economiche e sociali dei lavoratori dei secondi con programmi di vera e propria macelleria sociale, dove a farne maggiormente le spese sono attualmente i settori popolari dei cosiddetti PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna), e che si accentueranno ancora di più in futuro indipendentemente da quale schieramento politico sarà a governarli, ma soprattutto tra gli stessi centrali[5].
E questo si sta verificando anche in campo energetico, dove la Francia continua a sviluppare l’opzione nucleare e cerca nuovi luoghi di produzione delle fonti energetiche non rinnovabili da controllare (vedi guerra in Libia), mentre la Germania accelera sulle rinnovabili, dichiara la sospensione della produzione di energia nucleare, e sviluppa l’esportazione di tecnologia a quest’ultima collegata.
La green economy, altra opzione che si sta percorrendo, trova la sua espressione, e molto, in campo energetico, suscitando le simpatie di molti settori politici italiani anche della sinistra, e da quelli sindacali, primi fra tutti la CGIL. La sua applicazione pratica ad oggi si concretizza in enormi investimenti pubblici in termini di incentivi e sgravi fiscali al capitale e leggi di sostegno alla incentivazione della produzione e al consumo. Nella “economia verde” i rapporti di produzione, il fin della produzione, i rapporti sociali, sono gli stessi di prima. Non può essere altrimenti in una visione econometrica che presuppone il PIL. In questo quadro si inserisce anche la produzione di agro-combustibili, che altro non fanno, nel mantenere gli attuali livelli di consumo, che aumentare la distruzione ambientale e acutizzare la crisi alimentare.
Una situazione insomma rispetta alla quale non si riesce a vedere via d’uscita se non si cambia il punto di osservazione, cioè se non ci si pone nella prospettiva della creazione di un diverso modello di sviluppo. Modello di sviluppo che non può essere semplicisticamente affidato a Piani di Azioni di Efficienza Energetica come quelli approvati dalla Conferenza Stato Regioni nel luglio 2011, al mercato dei Certificati Verdi e dei Certificati Bianchi, ad una maggiore efficienza energetica, al risparmio, a nuovi presupposti stili di vita, quasi come se tutto fosse risolvibile con comportamenti diversi, individuali e collettivi, all’interno della compatibilità capitalista, in un mondo globalizzato dove circa 3 miliardi di persone vivono con meno di 2 dollari al giorno, dove la crisi sta colpendo pesantemente gli strati popolari anche nel cosiddetto Primo Mondo, i paesi emergenti (Cina, India, Brasile, Russia, Sudafrica) stanno accelerando in modo vertiginoso la loro crescita che richiede necessariamente un apporto energetico impensabile fino a soli pochi anni fa, la competizione globale e la mondializzazione del capitale sta imponendo l’imperialismo e il neocolonialismo in tutto il mondo[6].
In questo abbiamo il dovere di esprimere il nostro punto di vista, di stimolare il dibattito, non per proporci come co-gestori della crisi, ma per sottolinearne le contraddizioni, per portare all’interno di questa le rivendicazioni del proprio soggetto sociale di riferimento interne alle lotte e al conflitto sociale, in uno sforzo di qualificazione dell’analisi e delle richieste in quello che abbiamo ha già definito in vari nostri documenti “Programma Minimo di Controtendenza”.
Bisogna rompere la rete della tonnara dove i paesi forti dell’Unione Europea hanno fatto entrare i popoli dell’eurozona senza, come è nelle tonnare, dargli la possibilità di tornare indietro.
In questo quindi si inquadra una progettualità complessiva che abbia al centro un diverso modello di sviluppo, basato già nell’immediato sulla compatibilità ambientale, la qualità della vita, il soddisfacimento dei nuovi bisogni, la centralità del lavoro e la valorizzazione del tempo liberato, la redistribuzione del reddito, del valore e la socializzazione dell’accumulazione, della ricchezza complessivamente prodotta.
Questo è possibile solo se si ribalta l’attuale situazione dove il discorso politico è subordinato all’economia. Condizione che determinerebbe un nuovo ruolo dello Stato non solo regolatore, ma anche redistributore, gestore e occupatore. Il mercato non è in grado di disciplinare se stesso, allora è necessaria la mediazione politica che salvaguardi l’interesse sociale generale. Porre gli orientamenti del credito sotto il controllo democratico, tanto più se partecipativo, significa favorire le attività socialmente utili, sottoporle ad un criterio di rendimento sociale ed ecologico, sviluppare occupazione e attività produttive. Una richiesta quindi di democrazia partecipativa che si è manifestata con chiarezza nei referendum di giugno scorso, dove 27 milioni di italiani, oltre ad avere asserito la difesa dei beni comuni e scelte energetiche compatibili con la salute e con la salvaguardia della natura, ha anche con forza voluto esprime la volontà popolare di poter essere protagonisti in prima persona nel disegnare il proprio futuro.
Questo è tanto più vero in campo energetico come presupposto fondamentale di un nuovo modello di sviluppo, dove un nuovo paradigma ha bisogno, come già detto, di investimenti. Cioè denaro che possa arrivare da un credito scevro dal criterio del massimo profitto, possibile solo attraverso la nazionalizzazione delle banche e attraverso il non pagamento del debito, e che si possa investire nei settori strategici produttivi necessariamente, anche questi, di proprietà dello Stato[7].
Quindi è assolutamente necessario affiancare un indirizzo dello sviluppo che sia governato da un efficiente ruolo pubblico nei settori produttivi strategici, primo fra tutti quello dell’energia.
Cioè in particolare la nazionalizzazione della produzione e distribuzione elettrica e degli idrocarburi, come elemento essenziale di un nuovo sviluppo socio-ecosostenibile. Capace quindi di gestire la transizione dall’uso delle fonti esauribili a quelle rinnovabili attraverso piani di riqualificazione del settore produttivo e distributivo, dell’utilità sociale, della giustizia energetica, dell’occupazione qualitativa. In grado di rompere la spirale delle privatizzazioni, che ha dato alle imprese private acquirenti del patrimonio pubblico grandi benefici, attraverso la socializzazione dei costi, la messa a loro disposizione di reti e tecnologie sviluppate con denaro pubblico, la non imputabilità come costi interni di quelli derivanti dalle distruzioni ambientali. Privatizzazioni che oltre ad aver distrutto il welfare e precarizzato il lavoro, hanno disatteso completamente le motivazioni addotte dai suoi fautori, cioè migliori condizioni di acquisto per l’utente finale dovute al regime di concorrenza, innovazione e qualità nei prodotti e nei servi erogati, creando invece condizioni di monopolio privato o situazioni di trust.
Contemporaneamente è di fondamentale importanza la riappropriazione collettiva della scienza, e quindi della ricerca e delle tecnologie che ne derivano. Indirizzo che dia alla scienza e alla tecnologia lo scopo di utilità sociale, che sia quindi completamente gestito, sviluppato e finanziato, attraverso il credito pubblico, dallo Stato, presupposto essenziale per l’interesse collettivo. Cioè un controllo pubblico sugli scopi della scienza e della ricerca e sullo sviluppo della tecnologia, che accompagni gli aspetti politici e quelli economico-finanziari nella transizione energetica[8].
Un processo che potrà funzionare solo se gestito, se non da una pianificazione, quantomeno da una programmazione economica.
Allora in questo quadro complessivo si possono ipotizzare anche nuovi Piani Energetici Nazionali realmente efficaci, socialmente ed ecologicamente compatibili, come elemento essenziale di un nuovo modello di sviluppo, presupposto tattico per un cambiamento radicale anticapitalista.
*Rete dei Comunisti
[1] vedi C. Cortesi, R. Travaglini, D. Vasapollo, L. Vasapollo, Gaia e l’ape – Strumenti e percorsi per l’educazione ambientale, Natura Avventura Edizioni, Roma 2009
[3] vedi A. Di Fazio, Le grandi crisi ambientali globali, la fine della crescita e l’agonia del sistema industriale di mercato, in Pianeta merce – L’ultima frontiera del modo di produzione capitalista – Seconda Parte, Quaderno dell’Associazione Marxista POLITICA E CLASSE, Roma 2008
[4]vedi a. Boron, Crisi di civiltà e agonia del capitalismo – Dialoghi con Fidel Castro, Natura Avventura Edizioni, Roma, prossima pubblicazione
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