Nel corso dell’anno passato le aggressioni contro i difensori dei diritti umani in Colombia sono ulteriormente aumentate. Nel 2014 si sono registrati infatti oltre 626 attacchi ad attivisti, fra cui si possono contare ben 55 omicidi. Lo rivela il rapporto annuale
dell’ong “Somos Defensores”, realizzato con il contributo delle ambasciate di Canada e Norvegia e dell’ong Diakonia Svezia. Il rapporto evidenzia che la maggior parte delle vittime erano lider di collettivi di difesa del territorio o di organizzazioni di base in zone di sfruttamento petrolifero o minerario,principalmente nei dipartimenti di Arauca, Meta e Nord di Santander. Il maggior numero di omicidi si registra nelle zone dove storicamente il conflitto fra l’insorgenza e l’esercito dell’oligarchia è più forte, e di conseguenza le lotte sociali e le forme di autogestione contadina sono più solide.
Emblematico è il caso del Cauca, dove sono stati assassinati 10 attivisti.
Evidentemente, nonostante tutti gli altisonanti quanto inconsistenti proclami di Santos, lo stato colombiano non ha rinunciato alla tradizionale maniera di gestire il conflitto sociale: l’assassinio politico come mezzo per mettere a tacere e disarticolare le legittime istanze del popolo.
Ai paramilitari, che paradossalmente secondo lo stato colombiano hanno cessato di esistere da 10 anni, sono stati attribuiti con certezza 4 omicidi.
Sono questi i presupposti della pace di Santos e dell’oligarchia criminale che lo sostiene? Quanto dovremo ancora aspettare per vedere garantito al popolo il sacrosanto diritto di organizzarsi senza incorrere nella repressione dello Stato e delle sue emanazioni paramilitari?
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