L’Arabia Saudita ha annunciato nei giorni scorsi l’arresto di 93 jihadisti, tutti presuntamente legati allo Stato islamico (Is), e ha reso noto di aver smantellato diverse cellule terroristiche che progettavano attentati in tutto il regno wahabita contro personalità politiche e militari, e anche contro la sede diplomatica degli Stati Uniti nella capitale Riad. Secondo un comunicato del ministero dell’Interno, gli arresti hanno avuto luogo a partire dal dicembre del 2014, e la maggior parte dei detenuti sono cittadini sauditi, scoperti grazie soprattutto al monitoraggio dei social network.
La prima cellula “terroristica” scoperta si faceva chiamare “Jund Bilad al Haramein” (“Soldati della terra dei due luoghi sacri”, in riferimento alla Mecca e la Medina) ed era composta – sempre stando ai servizi di sicurezza di Riad – da 15 elementi “tutti sauditi ed arrestati il 30 dicembre 2014”. A capo della cellula, un cittadino saudita “esperto in ordigni esplosivi”. Le riunioni della cellula invece si tenevano in zone desertiche nella zona di al Qasim (a metà strada tra la capitale Riad e la città santa della Medina). Le riunioni si tenevano in un “resort, preso in affitto per lo scopo”. In questo luogo, “venivano fatte esercitazioni con armi e munizioni” e in particolare i membri della cellula “hanno eseguito una prova in aperto deserto per verificare il funzionamento degli ordigni caricati su un’auto imbottita di esplosivi”. Tra gli arrestati grazie proprio al monitoraggio delle comunicazioni su internet e dei social network anche “una donna” che “era stata usata dai terroristi per adescare un ufficiale dell’esercito, che doveva essere ucciso”. Inoltre, stando al comunicato del ministero dell’Interno saudita, lo scorso 12 marzo sono giunte informazioni su una “operazione kamikaze” contro la sede diplomatica Usa a Riad con un’autobomba. L’intelligence saudita avrebbe scoperto un “coordinamento tra tre persone: un cittadino saudita e due siriani residenti in uno Stato del Golfo” che non viene indicato. Uno dei due siriani sarebbe “entrato nel Regno il 9 marzo”; motivo per il quale sarebbe scattato l’allarme e il conseguente “potenziamento delle misure di sicurezza a difesa dell’obbiettivo indicato”, ovvero la sede dell’ambasciata Usa. Dalle indagini è emerso che il saudita, originario della città santa di al Madina, “si occupava nella raccolta di donazioni illegali” e che ha “confessato i suoi legami con due siriani. Il primo febbraio è stato invece arrestato un cittadino saudita sempre nella zona di al Qasim; dalle indagini è emerso che l’uomo aveva contatti con l’Isis tramite la rete “al fine di formare una cellula terroristica”. Nella mail dell’arrestato gli inquirenti hanno trovato un messaggio di “fedeltà al califfo Abu Bakr al Baghdadi”.
Tra le cellule smantellate, una scoperta il 7 marzo scorso con l’arresto di 65 persone: tutti sauditi ad eccezione di uno yemenita e un palestinese”. Il compito principale di questa cellula “era quello di incitare all’odio confessionale” tra la maggioranza sunnita e la esigua minoranza sciita concentrata nella parte orientale del regno. Istigazione che sarebbe stata resa possibile con “propaganda in rete tra i giovani”, ma anche con attentati contro le autorità saudite nelle zone abitate da una maggioranza sciita.
Di fatto le stesse strategie che al Qaeda prima e lo Stato Islamico hanno adottato in tutto il Medio Oriente per conto e con il sostegno della monarchia wahabita per destabilizzare paesi come l’Iraq, lo Yemen, il Libano e la Siria, ma che Riad non gradisce vengano messe in pratica all’interno del territorio del’Arabia Saudita.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa