La mia prima volta è stata la guerra tra Croati e Serbi. Una domenica pomeriggio con un gruppo di rifugiati croati che tutto avevano perso meno le lacrime. Mostravano le foto della case abbandonate e bruciate da gente con cui avevano vissuto per decenni o forse da sempre. La lingua e le tradizioni erano le stesse di una volta. Poi appare il nemico che stava nascosto dentro. D’un tratto la linea divisoria diventa un filo spinato. Si chiama la Krajina che in serbo-croato significa appunto frontiera. Quella di prima e quella seguente che si arma e opera le pulizie etniche. I nemici non sono mai lontani e il Deserto dei Tartari sta dietro l’angolo della storia. Le frontiere sono nelle nostre teste e giocano con le complicità dei buoni. Dall’altra parte ci stanno loro, i rifugiati.
Gli altri che ho incontrato qualche anno dopo erano rifugiati nel proprio paese. In Liberia la guerra civile ne aveva cambiato la geografia. Il paese si era trasformato in un paesaggio occupato da campi per sfollati. Sull’unica strada verso Monrovia, tra Tototà e Maimou erano allineate tende, latrine, dispensari, mercati provvisori, case di fango e negozi di prodotti umanitari. Una città lunga trecentomila persone che si passavano dall’uno all’altro la parola magica. Tomorrow. Era il destino e la speranza. DOMANI, sempre domani. Il giorno della distribuzione, il giorno del ritorno a casa, la fine della guerra, la seminagione dei campi ormai abbandonati, una vita diversa. Ciò che si è lasciato è perduto e il futuro è domani. Rimane il presente che non sa mai da che parte stare.
Eritrei, Sudanesi, Somali, Ivoriani, Curdi e gli immancabili Nigeriani. E’ con loro ed altri rifugiati che dalla casa di via Gagliardo ci si incontrava poi in piazza Caricamento a Genova. Seduti sulle panchine tra i gabbiani e i carabinieri che sorvegliavano i Senegalesi che vendevano borse e occhiali improbabili. Le ragazze erano appena più lontano, tra i vicoli, invitando i clienti al paradiso del primo piano, come ricordava De André. Aspettavano i documenti definitivi per sapere se potevano ancora esistere da qualche parte nel mondo. Nel frattempo a volte cercavano lavoro e telefonavano per sentire la mancanza di casa. La madre, il padre, il fratello, la sorella e il figlio appena nato. I rifugiati portano le parole d’altri tempi e nascondono il dolore nelle valigie.
A Niamey ci siamo incontrati dopo pochi giorni dal mio arrivo. Erano nella capitale da anni. Fuggiti dalle guerre di successione e di secessione del loro paese. Guerre di potere col potere della guerra. Milizie, mercenari, soldati di ventura, commercianti e venditori di nulla. Congiure di palazzo e accordi di pace mai rispettati. Dal Tchad, il Centrafrica, la Repubblica Democratica del Congo, la Costa d’Avorio, il Mali e la vicina Nigeria per via di Boko Haram. Ognuno scappando da qualcosa e qualcuno. Li inseguono ricordi e suoni che vorrebbero dimenticare. Tornano invece senza bussare alla porta della memoria. Si rifanno una vita pensando che basti cambiare di paese. Passa il tempo e le occasioni per ricominciare di nuovo. Fintanto che ci sono i figli si sa da che parte andare.
Marie Laure dice che solo Dio sa perché è viva e spera in un marito bianco. Miriam fa la domestica, l’hanno licenziata tre volte e ora è senza lavoro. Jennifer è contenta perché tutti i suoi figli vanno a scuola.Il 20 giugno è la giornata mondiale dei rifugiati. Un mondo a parte così parte del nostro mondo.
* Niamey, Niger
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