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Roma. Sigilli alla discarica, emergenza più vicina


L’ombra di Malagrotta, così potrebbe essere chiamata la discarica di Testa di cane, area distante poche centinaia di metri dall’ottava collina – piena di monnezza – della capitale. Una ex cava, accudita discretamente per anni, riproposta lo scorso gennaio come la carta vincente per superare l’emergenza, ricoperta, durante l’estate, di teloni a tenuta stagna, pensando al prossimo capodanno, quando l’invaso storico di Roma dovrà chiudere le porte, per esaurimento. Un’ombra, perché ufficialmente la gigantesca buca di Testa di cane – sequestrata ieri dal Noe di Roma – non era mai stata un’alternativa ai due siti scelti dal prefetto Giuseppe Pecoraro lo scorso ottobre, Corcolle e Quadro alto. Un’ombra pesante, però, perché firmata Manlio Cerroni, il proprietario di Malagrotta, monopolista indiscusso dei rifiuti romani, che partendo da questa zona poco fuori il raccordo anulare, chiaramente visibile oggi dal consiglio regionale del Lazio, ha costruito un impero della monnezza, che si estende in buona parte fuori dai confini nazionali, nei paesi dell’est e in giro per almeno altri due continenti.
Ieri mattina quando i carabinieri guidati dal capitano del Noe Pietro Rajola Pescarini hanno messo i sigilli alla discarica di Testa di cane, in tanti hanno tremato. Ad iniziare da Manlio Cerroni – non indagato – che lo scorso settembre aveva pubblicamente presentato su Il sole 24 ore Roma il suo personale piano dei rifiuti. Quel sito bloccato su ordine della Procura di Roma con l’accusa di abusivismo edilizio e violanzione delle norme ambientali lo aveva messo tra parentesi, spiegando che era destinato a contenere «esclusivamente i residui di lavorazione degli impianti Tmb e le scorie vetrificate dei gassificatori». In realtà l’amministratore delegato delle E.Giovi Francesco Rando – iscritto nel registro degli indagati – a gennaio aveva inviato una lettera alla Regione Lazio, spiegando che Testa di cane avrebbe potuto agevolmente contenere fino a 5 milioni di metri cubi di rifiuti, indifferenziati o triturati. Ovvero la monnezza romana dei prossimi quattro anni. Come a dire, se serve, siamo a disposizione. Una lettera che oggi suona come un’autoaccusa, visto che secondo i carabinieri del Noe il sito era stato autorizzato solo per poche centinaia di migliaia di metri cubi.
Nella situazione romana dei rifiuti anche i piccoli segni possono essere importanti. L’emergenza sembra inevitabile, salvo miracoli. I due siti scelti dal prefetto sono ancora un semplice progetto sulla carta, senza nessun atto concreto realizzato fino ad oggi. Con una nuova inchiesta che pende sullo studio della Regione Lazio che aveva individuato la rosa dei sette siti alternativi a Malagrotta. Documenti che – secondo alcune indiscrezioni – sarebbero stati acquisiti dalla magistratura nei giorni scorsi. Il 24 novembre, poi, il Tar del Lazio deciderà sul ricorso presentato dalla Federambiente – leggasi Manlio Cerroni – contro il decreto di nomina di Giuseppe Pecoraro come commissario straordinario all’emergenza del post Malagrotta. Il discorso del monopolista romano è semplice: non esiste un’emergenza, visto che di siti pronti per accogliere la monnezza ne ho quanti ne volete.
La questione è in realtà tutta politica. Continuare ad alimentare le aziende che per quarant’anni hanno servito la capitale è una scelta che nessuno, tra Comune e Regione, vuole firmare. Basti ricordare quanto costò a Mario Di Carlo – esponente del Pd romano scomparso da poco – la vicinanza con Cerroni, divenuta famosa dopo il fuori onda su Report. C’è però un altro elemento che è entrato in gioco da pochi mesi, un terzo incomodo, un fantasma – per ora – che aleggia da tempo sul sistema monnezza laziale. Da tempo nei corridoi della politica romana circola la voce della volontà da parte del centrodestra di utilizzare la finestra di opportunità della chiusura di Malagrotta per creare un nuovo soggetto gestore del ciclo industriale dei rifiuti, che possa sostituire Manlio Cerroni. Qualcuno azzarda il nome di Acea – che poi vuol dire gruppo Caltagirone – che circola con insistenza, anche se nessuno lo vuole pronunciarlo ufficialmente. Di certo i prossimi tre mesi saranno decisivi: non solo dovrà essere trovata una soluzione per la discarica, ma c’è anche il carico da novanta messo dal governo Berlusconi, che con la manovra del 13 agosto scorso ha obbligato il Comune di Roma a cedere parte delle quote di Ama, il gestore della raccolta di rifiuti nella capitale. Ama e Acea da tempo hanno sviluppato delle partnership, proprio nel settore ambientale, alleandosi, qualche anno fa, con le società di Cerroni. Una cordata pronta ad allearsi con il capitalismo romano alleato con la destra, sapendo benissimo quanto poi conta avere in mano il ricchissimo affare dei rifiuti.
Mancano ora meno di quaranta giorni alla chiusura ufficiale di Malagrotta, la cui ulteriore proroga viene data per inevitabile. Secondo alcune fonti sarebbe già pronta la decisione della Regione per rinviare di sei mesi lo stop della mega discarica romana. Un tempo che sarà utilizzato per definire i nuovi scenari, con variabili ancora in gioco, che rendono fare una previsione. La Regione Lazio per ora cerca di muovere le pedine apparentemente minori: ieri ha chiesto al consorzio Gaia di accogliere negli inceneritori di Colleferro il Cdr prodotto dagli impianti di Malagrotta. Il 17 novembre scorso, intanto, si è costituito il nuovo soggetto regionale – per ora completamente pubblico – che acquisirà gli impianti delle società di Colleferro, commissariate dal 2007. Si chiama Lazio Ambiente, una creatura completamente gestita dal gruppo di Renata Polverini. Come entrerà nel gioco pericoloso dei rifiuti è solo l’ultima delle tante incognite, in attesa dell’emergenza.

da Il manifesto” del 22 novembre 2011

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