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Le mani sull’oro blu

Andrea Palladino
Assedio al referendum Le mani sull’oro blu
«Non mi aspetto che il risultato dei referendum sull’acqua abbia un impatto sulla nostra strategia idrica in Italia». Francois Cirelli, amministratore delegato del gruppo Suez in Italia, di dichiarazioni non ne ha mai rilasciate moltissime. In lui si racchiude tutta la Francia della grandeur capitalista, ad iniziare dalla sua formazione nella École nationale d’administration, la vera culla del sistema economico d’oltralpe. Si deve a lui buona parte della riuscita della fusione della multinazionale dell’acqua e dei servizi ambientali Suez – ex Compagnie Générale des Eaux – con il colosso energetico Gdf. Per quattro anni è stato ai vertici della direzione generale del Tesoro, per poi passare, nel 1989, al Fondo monetario internazionale. Di finanza e di privatizzazioni, dunque, Cirelli se ne intende.

Le sue parole piene di understatement pronunciate pochi giorni prima del voto del 12 e 13 giugno oggi suonano cupe e profetiche. In fondo per le grandi multinazionali cosa è cambiato? Una domanda che sta riaprendo il cammino di lotta del movimento per l’acqua pubblica, pronto a riapparire nelle piazze il prossimo 26 novembre.
Il paese del Gattopardo
Proviamo a ribaltare la domanda, partendo da chi ha espresso il voto, dai 27 milioni di cittadini che domenica 12 e lunedì 13 giugno, sfidando ogni aspettativa, hanno permesso il raggiungimento storico del quorum. Cosa è cambiato per loro, per noi, in questi quattro mesi? Nulla, poco, o forse tutto. Un dato è certo: se da una parte momentaneamente l’obbligo di privatizzare i sistemi idrici previsto dall’art. 23 bis della legge Fitto Ronchi, abrogata dal primo quesito, sembra scongiurato, la gestione privatizzata all’italiana, che mischia vecchia politica clientelare con gestioni industriali milionarie, non è arretrata di un solo millimetro. La cartina tornasole è il secondo quesito che ha abrogato la «remunerazione del capitale investito», ovvero quel profitto certo messo dal legislatore negli anni ’90 (prima la legge Galli nel 1994, poi un decreto attuativo firmato Antonio Di Pietro nel 1996) che va a incidere direttamente sulle bollette. Su questo fronte tutto è fermo.
Non è un caso che il secondo quesito dei referendum spaventasse a morte anche il Partito democratico di Pier Luigi Bersani. Anche se ufficialmente – dopo estenuanti discussioni con la base – il Pd un mese prima del voto si è espresso per i due sì ai referendum sull’acqua, tanti deputati e amministratori locali più o meno apertamente hanno sempre esternato il loro fastidio per l’abolizione del profitto assicurato per legge. E in effetti era questo il vero grimaldello in grado di far saltare il sistema dell’acqua privata, non solo bloccando le nuove privatizzazioni, ma attaccando frontalmente le gestioni già cedute all’obbrobrio delle società miste. Facciamo qualche nome, per capire cosa è ancora oggi in gioco: partiamo dalla A2A, controllata dai comuni di Brescia e Milano, che gestisce l’acqua a Bergamo, dove interi condomini abitati da stranieri si sono visti tagliare i tubi perché “morosi”. Passiamo in Toscana, dove la società Publiacqua di Firenze ha aumentato la tariffa per compensare il risparmio idrico dei cittadini virtuosi. Facciamo una sosta ad Arezzo, dove con l’arrivo di Nuove Acque alla fine degli anni ’90 (società mista con la partecipazione di Suez, Acea, Monte dei Paschi di Siena, Banca Etruria e Iride) le bollette sono aumentate esponenzialmente. Arriviamo poi nella capitale, dove il colosso Acea in 8 anni ha accumulato un “profitto garantito” di quasi mezzo miliardo di euro, nella sola provincia di Roma, mentre la sua controllata di Frosinone è stata indagata per tentata truffa. Un viaggio che termina tra la Calabria e la Sicilia, regioni i cui acquedotti sono controllati dalla Veolia, multinazionale francese – ben conosciuta a Latina, dove è partner privato di Acqualatina – che conta tra i soci le grandi fabbriche d’armi attivissime in Medio oriente. Un panorama che è frutto della via italiana – trasversale agli schieramenti – alla privatizzazione, con consigli di amministrazione controllati di fatto dai soci privati, che dettano costi operativi, investimenti e strategie finanziarie.
Era questo il cuore del sistema drogato di gestione dell’acqua che il secondo quesito referendario voleva colpire, bloccando il sistema di automatismo in grado di riempire le casse degli azionisti. Un meccanismo semplice quanto infernale: ad ogni investimento si applica una percentuale del 7%, riconosciuta come “remunerazione”. E attenzione, spesso la voce investimento non vuol dire necessariamente nuovi acquedotti o fognature migliori. In molti casi anche la capitalizzazione iniziale – spesso immateriale – viene computata, facendo lievitare la percentuale fino al 18-20% rispetto al costo finale dell’acqua.
I francesi, in fondo, ci conoscono molto bene, tanto da chiamarci cugini. Un manager della Veolia raccontava in un momento di quasi confidenza, chiedendo di rispettare l’anonimato, la sua visione del mercato dei servizi pubblici italiani: «Io vengo dalle grandi scuole di amministrazione – spiegava – e posso quasi definirmi un marxista. Per noi francesi lo Stato è qualcosa di vero, presente, quasi sacro; ma non quando veniamo in Italia, non all’estero». Quella frase di Francois Cirelli era più di una profezia, mostra la sicurezza di una economia che sa di avere poi la politica pronta a risolvere ogni problema.
La strategia del ragno
La tela, la lobby delle privatizzazioni l’hanno iniziata a tessere già poche ore dopo il voto. Nel primo decreto sviluppo di giugno il governo ha infilato, com’è noto, il provvedimento che crea l’Agenzia dell’Acqua, l’autority nazionale con il compito di definire strategie e prezzi. Pochi minuti dopo il voto il fantasioso Valter Lavitola era al telefono con Roberto Guercio, ingegnere idraulico ben noto nel mondo romano che gira attorno ad Acea. Parlano dell’agenzia, di chi occuperà quel posto strategico. Pochi giorni dopo tornano sull’argomento e questa volta il tema è sempre l’incubo del 7%. Guercio è sicuro che il voto non è più un problema, ne ha parlato con Caltagirone – racconta a Lavitola – e la strategia è già pronta. Basta cambiare la convenzione, spostando gli utili dalla gestione alla costruzione degli impianti, grazie al placet che sicuramente arriverà dai vertici politici regionali, assicura Roberto Guercio. È solo l’inizio, solo un piccolo pezzo del puzzle delle lobby, pronte a ribaltare il risultato dei referendum.
Non si può di certo dire che la lobby trasversale dell’acqua privata non abbia preparato il dopo referendum in tempo. Due leggi – solo in apparenza contrapposte – erano state disegnate prima del voto, con l’occhio già teso verso il risultato delle urne. La prima era l’idea di un’agenzia nazionale di regolamentazione del mercato idrico, concepita dai Tremonti boys, per dare un taglio netto privatistico all’acqua. I settori che oggi possono contare su un’autority – le telecomunicazioni e l’energia – sono ampiamente liberalizzati, anche perché l’idea stessa di agenzia è strettamente legata ad un regime di concorrenza. C’è poi il disegno di legge del Pd, che riproponeva – e ancora ripropone, visto che non è stato ritirato – il profitto, cambiando l’espressione di remunerazione del «capitale investito» in costo industriale. La rivoluzione sostanziale dei due referendum – il cui spirito è stato accolto pienamente dalla giunta di Luigi De Magistris, che ha approvato il progetto di Alberto Lucarelli, uno dei padri dei quesiti sull’acqua e autore di »Acqua bene comune Napoli» – che è stata compresa appieno dai 27 milioni di votanti, è in sostanza ancora oggi respinta dalla politica parlamentare. Anzi, apertamente il governo ha aperto le ostilità con il grande popolo dell’acqua, con due provvedimenti smaccatamente anticostituzionali.
La scusa della crisi
Come nel 1992, quando l’attacco alla lira fu il pretesto per l’apertura della stagione dei saldi di Stato, oggi la crisi del debito sovrano è il cavallo di Troia per terminare il lavoro sporco. Ci sono protagonisti che ritornano, come Mario Draghi, che all’inizio degli anni ’90 fu uno degli anfitrioni nel ricevimento sulla nave inglese Britannia, quando quel che rimaneva della prima repubblica discusse con i banchieri inglesi le strategie delle privatizzazioni. Ma senza dubbio oggi l’attacco ai beni comuni porta la firma inequivocabile di Giulio Tremonti. Era lui il gost writer della legge Fitto Ronchi, il cui articolo 23 bis – che obbligava i comuni a cedere ai privati i servizi pubblici locali – è stato poi abrogato dal primo referendum. Ed è lui che il 13 agosto, nel pieno della crisi estiva, ripropone le norme cancellate dal voto popolare, con l’articolo 4 della manovra “anticrisi”. Come sappiamo quel provvedimento molto poco ha potuto sul fronte del terremoto economico che sta scuotendo le basi economiche dell’euro. Il vero obiettivo era in fondo dichiarato fin dal titolo: «Adeguamento della disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare». Ovvero, come cercare di ribaltare quella dannata scelta democratica del popolo italiano, tranquillizzando le grandi corporation.
In piazza il 26 novembre non saranno solamente indignati. C’è un movimento che per due anni ha organizzato un milione e mezzo di persone, portando alle urne più del 50% dei votanti, ricevendo come risposta la bassa politica degli accordi con la finanza tossica e bancarottiera.
da “il manifesto” del 2 novembre 2011

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