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I padroni dell’Ilva uccidono il lavoro, l’ambiente e la salute

La storia del movimento operaio, anche in Italia, ha vissuto, con intensità diversa in funzione delle sue fasi, una prevalente disattenzione, in qualche caso avversità, alle questioni ambientali o una incapacità ad affrontarle. Spesso infatti quest’ultime sono state “sacrificate” sull’altare di una visione sviluppista, e in qualche caso ritenute limitanti al raggiungimento delle aspirazioni del lavoro. Il movimento operaio e sindacale ha ritenuto per anni che le questioni ambientali potessero essere un ostacolo alla crescita industriale e quindi un ostacolo all’occupazione e al benessere. Storicamente, i principali movimenti ambientalisti hanno avuto una connotazione borghese e quindi visti con sospetto, spesso anche giustificato, dal movimento operaio e dai comunisti. Non si è stati in grado di affrontare in maniera matura le questioni ambientali, anche perché non stimolati dall’esistenza di un movimento ambientalista anticapitalista, cioè capace di porre il rapporto uomo-natura all’interno del conflitto capitale-lavoro. Un limiti del quale ne viviamo ancora le conseguenze.

Quelle che sta succedendo a Taranto non è un fulmine a ciel sereno. Da anni è una situazione denunciata da comitati locali, dall’ARPA pugliese, dall’azione della magistratura che da tempo ha istituito indagini e disposizioni di incidenti probatori. Che la dirigenza è la proprietà dell’Ilva abbiano fatto poco o nulla in questi anni non ci sorprende, ma cosa hanno fatto CGIL, CISL e UIL?

Se per l’atteggiamento avuto negli anni ’50, ’60, ’70 si può parlare di scarsa attenzione ai temi ambientali e di poca comprensione della contraddizione capitale-natura e quindi di fatto di incapacità a reagire al ricatto o lavoro o salute e ambiente, questo non si può dire per questi ultimi anni dove i sindacati concertativi sono sostanzialmente complici.

Complici della precarizzazione del lavoro, di distruzione dei diritti sindacali, di devastazioni ambientali, di scellerate politiche di delocalizzazione, assecondando quel processo che doveva rispondere alla competizione globale tra i poli imperialisti e che quindi rendeva necessario per il capitale non essere sottoposto ad alcun limite, sia nei rapporti con il lavoro che nei confronti della salvaguardia dell’ambiente, della sicurezza e della salute.

E’ paradossale che debba essere la magistratura a mettere a fuoco l’essenza esatta della contraddizione del capitale con la natura, con la salute pubblica, con la vita umana, inserendola, consapevolmente o meno, nel conflitto capitale-lavoro: ”Chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato nell’attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza” (frase contenuta nel provvedimento del GIP).

La diossina è classificata come sicuramente cancerogena e inserita nel gruppo 1, Cancerogeni per l’uomo, dalla IARC (International Agency for Research on Cancer).

L’Unione Europea, in un corposo e dettagliato documento intitolato Inventario europeo delle diossine, stima che il trattamento dei rifiuti (e in particolare l’incenerimento) e il settore industriale (in particolare il siderurgico) sono i massimi responsabili dell’emissione in atmosfera di diossine.

Vogliamo ricordare che gli effetti immediati sono venuti alla luce con disastro di Seveso, l’incidente avvenuto il 10 luglio 1976 nell’azienda Icmesa di Meda, che provocò la fuoriuscita di una nube tossica di diossina che investì una vasta area di terreni nel comune di Seveso e in quelli vicini. 240 persone vennero colpite da cloracne, una dermatosi provocata dall’esposizione al cloro e ai suoi derivati che crea lesioni e cisti sebacee, sono rimasti sfigurati e portano sulla loro pelle gli effetti devastanti di questa micidiale sostanza, 80.000 gli animali morti o abbattuti, 158 gli operai esposti alla contaminazione. Per quanto riguarda gli effetti a lungo termine sono state evidenziate disfunzioni ormonali, effetti sull’apparato riproduttivo e alcuni studi sostengono che ci sia stato anche un aumento di neoplasie per i cittadini colpite dalla nube.

Quel disastro evidentemente non ha insegnato nulla se in Italia le leggi sulle emissioni di queste sostanze non danno chiari e rassicuranti limiti. La legislazione nazionale sulle emissioni di diossina infatti è assai blanda.

Il nostro Paese, se pur recependolo, non si è mai adeguato a quanto previsto dal Protocollo di Aarhus (varato nel 1998, entrato in vigore nel 2003 e ratificato dall’Italia nel 2006) che impone limiti alle emissioni in atmosfera di inquinanti organici persistenti, come la diossina, neanche nel Codice dell’Ambiente del 2006.

Una legge regionale pugliese del 2008 ha imposto all’Ilva il limite di 0,4ng Teq/m3 ( Teq, fattore di tossicità equivalente), che però, di fatto, continua a non rispettare.

Nella zona di Taranto, sopratutto in prossimità dell’Ilva, sono da anni rilevati, anche fino ad oggi, eccessi significativi di mortalità per patologie tumorali, malattie del sistema circolatorio, del sistema respiratorio e dell’apparato digerente. Fino al 2002 è stata inoltre registrata significativamente in eccesso la mortalità per tutti i tumori in età pediatrica (0-14 anni). Numerosi sono stati i casi di necessità di abbattimento di capi di bestiame che pascolavano nelle numerose aziende agricole presenti nel raggio di 20 chilometri, avvelenati dalle emissioni dell’impianto industriale.

Certo non possono essere i lavoratori a pagare il conto subendo oltre alle malattie la disoccupazione. Sarebbe doppiamente orribile. Ma chiedere che l’attività inquinante continui per salvare i posti di lavoro crediamo sia disastroso, e significherebbe assecondare un ricatto al quale non si può sottostare: lavoro e morte oppure disoccupazione e salute pubblica.

La cifra stanziata per la bonifica dello stabilimento nell’intesa raggiunta ieri da governo, istituzioni locali, proprietà e sindacati di 330 milioni di euro sono nulla di fronte alla mole di interventi necessari, e oltretutto pagati quasi per intero con denaro pubblico.

I lavoratori dell’Ilva di Taranto, che hanno tutto il nostro appoggio e solidarietà nel chiedere il diritto al lavoro, dimostrino maturità, oltre i loro vertici sindacali, non cedendo al ricatto “o lavoro o salute”, costruendo la capacità di spostare i rapporti di forza e imporre la certezza del lavoro realmente coniugata con la sicurezza, la salute e la salvaguardia ambientale. Il lavoro non si baratta con le vite umane, e neanche viceversa.

Ben venga lo sciopero del 2 agosto, ma su parole d’ordine chiare da questo punto di vista e con nessuna connivenza e solidarietà, diretta o indiretta, con il capitale e con i vertici aziendali e la proprietà dell’Ilva, contro i quali auspichiamo un esito processuale esemplare con un ruolo attivo dei lavoratori, come è stato per Eternit alcuni mesi fa.

* Commissione ambiente della Rete dei Comunisti

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1 Commento


  • miche

    E’ proprio un paradosso come si sostiene nell’articolo,che sia la magistratura a mettere sotto inchiesta coloro che stanno mettendo a dura prova la salute degli esseri umani. Mi chiedo a questo punto dove sono finiti quei sindacati che un tempo rappresentavano le istanze dei lavoratori. Uno di costoro per fare un esempio è Boccuzzi,tessera Uil,che scampato alla tragedia della T.Group ha fatto la sua fortuna diventando parlamentare del Pd e nemico dei NoTav.

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