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La cattedrale di metallo e vetro, dove si lavora come 50 anni fa

La «cattedrale di metallo e vetro» dove si lavora come 50 anni fa
Antonella De Palma
L’Ilva di Taranto ha un’incredibile estensione di 15 milioni di metri quadrati; ogni anno sui suoi moli sbarcano 20 milioni di tonnellate di minerali, fossili e coke, che vengono accumulati nei parchi a cielo aperto per poi essere utilizzati per la produzione della ghisa e dell’acciaio. La capacità produttiva dello stabilimento è di circa 10 milioni di tonnellate annue di acciaio.
Quando iniziò a produrre, agli inizi degli anni sessanta, la «cattedrale immensa di metallo e di vetro» che avrebbe reso moderni gli uomini che «venivano dai campi, dai pascoli e dalla rassegnazione», come la definì Dino Buzzati, disponeva delle migliori tecnologie produttive dell’epoca. Da allora sono passati 50 anni, nei quali l’Ilva ha continuato a sfornare acciaio nello stesso modo: la ghisa, prodotta attraverso il processo cokeria-agglomerato-altoforno passa poi ai convertitori dell’acciaieria e via via alle altre lavorazioni. È vero che sono state adottate soluzioni che hanno permesso un miglioramento nel campo della produzione (ormai fortemente automatizzata e informatizzata) e del controllo delle emissioni nocive (ogni volta tamponando il danno già fatto che man mano è emerso), ma il ciclo produttivo non ha subito modifiche sostanziali.
L’azienda, sia durante la gestione pubblica (quando si chiamava Italsider) sia dopo la privatizzazione (dal 1995 ad oggi), ha fatto poco o niente per la ricerca e l’applicazione di nuove tecnologie produttive che potessero risolvere davvero il problema ambientale, che non è certo questione degli ultimi mesi, come potrebbe sembrare dalle sbalordite reazioni di molti amministratori, politici e sindacalisti ai fatti più recenti. Già nel 1964 il sindaco di Taranto denunciò il fatto che, a fronte delle richieste di informazioni avanzate ai dirigenti aziendali rispetto alle misure che si intendevano adottare per salvaguardare lavoratori e cittadini dai rischi di inquinamento atmosferico, delle acque e «da altri processi gravemente preoccupanti per la pubblica salute», quelli si trincerarono dietro un segreto che, disse il sindaco, «se non è quello militare quasi lo raggiunge».
Da oltre dieci anni nei paesi emergenti nella produzione dell’acciaio (Cina, Corea del Sud, India, Brasile, Sud Africa), sono in uso tecniche di produzione alternative al processo d’altoforno. Tra queste, in particolare, la riduzione durante la fusione del minerale di ferro (Smelting Reduction) può essere considerata la vera alternativa all’altoforno.
Questa tecnologia utilizza carbon fossile al posto del coke e minerale di ferro grezzo. Non sono quindi più necessari nel ciclo produttivo le cokerie e l’impianto di agglomerazione del ferro, cioè gli impianti più inquinanti. Senza di essi non ci sono più emissioni di diossine, benzene, idrocarburi policiclici aromatici, polvere di coke ed altre vengono sensibilmente abbattute sia gassose, come CO2, ossidi di azoto, anidride solforosa, polveri, sia fluide, come ammoniaca, fenoli, solfuro e cianuro.
Altri vantaggi della riduzione durante la fusione sono un significativo contenimento dei costi operativi e un notevole risparmio energetico, in quanto il gas prodotto dalla gassificazione del carbone rientra in ciclo per alimentare lo stesso impianto; è anche un ottimo gas di esportazione che può essere impiegato per diversi altri scopi, dalla produzione di energia elettrica all’uso come combustibile in sostituzione dei gas naturali.
L’unico processo commerciale attualmente in funzione è il Corex, realizzato dalla Siemens, a cui si è poi affiancato il Finex, una evoluzione del Corex che può impiegare anche minerale fine e polvere di carbone. Altri sono in fase di avanzata sperimentazione.
Queste tecnologie sono state finora utilizzate in impianti di dimensioni più ridotte rispetto a quello tarantino. Attualmente ogni modulo Corex può produrre al massimo 2 milioni di tonnellate annue, (un modulo di capacità maggiore è in fase di sperimentazione) ma, almeno apparentemente, nulla vieta di accrescere il numero dei moduli fino a raggiungere la capacità produttiva necessaria per il sito di Taranto.
Proprio la possibilità di moltiplicare i moduli renderebbe la sua applicazione all’impianto tarantino ancora più fattibile, in quanto la sostituzione degli altiforni potrebbe essere effettuata gradualmente permettendo quindi la continuità della produzione.
Stupisce il silenzio che circonda queste tecnologie, che pure sono state indicate fra le migliori disponibili per la produzione dell’acciaio dalla Commissione europea.
Silenzio anche da parte degli amministratori locali.
Nel mondo sindacale Gianni Alioti, responsabile internazionale della Fim-Cisl e coordinatore dell’ufficio salute-ambiente-sicurezza è stato l’unico a occuparsi significativamente di questi processi produttivi. Un suo documento del 2008, centrato proprio sull’analisi della situazione tarantina, ha dato lo spunto ad un gruppo di lavoro formatosi lo scorso anno a Taranto che ha poi approfondito l’argomento, reperendo altro materiale informativo prodotto da tecnici di varia provenienza e nazionalità, da cui emerge la possibilità di un cambiamento radicale e di lungo respiro per la città.
Bisogna che oggi si apra un concreto confronto sulla riconversione tecnologica del ciclo produttivo dell’acciaio. È necessario studiare anche tempi, modi e costi dell’operazione e, una volta riscontratane la fattibilità, invitare con fermezza l’azienda ad adottare questa linea di intervento, risolutiva per i problemi della città.
È importante anche iniziare a discutere sulla necessità di ridurre il carico produttivo dell’Ilva di Taranto, troppo gravoso per il territorio che deve sopportarne le conseguenze disastrose sull’ambiente e sulla salute. Già oggi lo stabilimento produce meno della sua capacità (7 milioni circa di tonnellate annue) e ciononostante il gruppo Riva continua ad essere al decimo posto nella produzione mondiale dell’acciaio.
Bisogna anche dire che, dei 42 impianti produttivi di proprietà Riva sparsi nel mondo, Taranto è l’unico che utilizzi ancora il processo d’altoforno. Negli altri siti di proprietà del gruppo, tutti di dimensioni molto minori, sono in uso i forni ad arco elettrico, che hanno un impatto ridottissimo sull’ambiente e sono ormai, in Italia, la principale modalità di produzione di acciaio, in aziende che raramente superano i due milioni di tonnellate di produzione annua.
È su questo impegnativo progetto di riconversione eco-compatibile che vorremmo vedere impegnati insieme amministratori, sindacati, lavoratori, cittadini e Ilva, senza dover ancora una volta veder minacciosamente sbandierato lo spauracchio del ricatto occupazionale.

da “il manifesto”

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