Si fa presto a dire “transizione ecologica”… Ma tra il dire e il fare non basta mettere qualche “comunicatore certificato” (un giornalista mainstream, insomma), perché la realtà geofisica e “il mercato” dominato da interessi privati non obbediscono ai “buoni propositi”.
La questione energetica è il cuore di quella ecologica, per un sistema industriale basato da oltre due secoli sull’uso di fonti fossili altamente inquinanti (carbone, petrolio, gas). “Cuore” in senso fisiologico, perché per fare il “trapianto” verso un sistema fondato invece su energie rinnovabili servono molte cose che non ci sono. Alcune perché proprio non esistono ancora, altre che vengono semplicemente ignorate o addirittura combattute per interessi economici privati.
Rientrano nella prima categoria molte “fonti alternative”, che possiamo distinguere in “fintamente greeen” – come l’idrogeno, che va prodotto e non può essere “estratto” – e “insufficienti” (per esempio l’idroelettrico). La quantità di energia ricavata al momento da fonti fossili è tale da non poter essere sostituita in tempi rapidi da altre fonti indisponibili nelle stesse dimensioni.
Questo, diciamo, è il limite fisico, naturale, insuperabile, anche se vivessimo – su tutto il pianeta – in un modo di produzione socialista, ossia con pianificazione centralizzata e programmazione scientifica dell’evoluzione del sistema.
Certo, in quella condizione al momento solo utopica, si potrebbero usare molte accortezze teoricamente possibili (spesso inutilmente consigliate dalla parte più “pensante” dei movimenti ambientalisti), limitando effettivamente l’aumento della temperatura media globale entro i limiti che la scienza ha da tempo individuato come “punto di non ritorno”, ma comunque ci sarebbero molti problemi ed incertezze sui risultati perché la situazione ambientale e climatica è già molto vicina a quel limite.
Ma viviamo in un ambiente capitalistico. Che significa molte cose tutte assolutamente negative. In primo luogo che sono prevalenti gli interessi privati o nazionalistici su quelli universali. Ne deriva che nessuna programmazione o pianificazione è possibile, se non su una base molto ristretta (di singola impresa multinazionale o consorzio di imprese, oppure in base agli “interessi nazionali” di singoli paesi o in alleanze comunque limitate).
In secondo luogo che la ricerca delle nuove fonti energetiche, le tecnologie possibili nei diversi casi, l’invenzione-progettazione di queste tecnologie, ecc, è affidata integralmente alle “dinamiche del mercato” – ossia degli interessi privati aziendali in conflitto tra loro e con quelli dei singoli paesi – con esiti assolutamente imprevedibili.
Per una sintetica ma illuminante fotografia della situazione attuale in campo energetico, vi proponiamo l’editoriale di Guido Salerno Aletta per l’Agenzia TeleBorsa. Sottolineata in corsivo, c’è anche la ragione per cui i governi – a partire da quello dei (molto) presunti “migliori” – dovrebbero intervenire drasticamente sugli aumenti delle bollette energetiche: abbiamo già pagato una volta, con le tasse…
Buona lettura.
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Non giocate col Barile!
Guido Salerno Aletta – Agenzia Teleborsa
Tante belle dichiarazioni, e soprattutto tanti buoni propositi: prima al G20 di Roma e poi a Glasgow dove si sono tenuti i lavori del COP26, il vertice dell’ONU sui cambiamento climatici e la necessaria transizione energetica basata sull’abbandono delle fonti fossili.
Nel frattempo, in vista della “metà del secolo”, periodo non meglio precisato nel quale si sarà raggiunta la parità tra emissioni antropiche di CO2 ed il suo assorbimento per via naturale o mediante cattura, si progettano investimenti green, si sperimentano batterie sempre più efficienti per accumulare energia elettrica, si parla di idrogeno “verde o grigio”, si ipotizza il nucleare “stavolta sicuro e soprattutto pulito”, si pianificano nuovi giganteschi impianti solari, e parchi eolici piazzati in mezzo al mare.
Per evitare che l’aumento della temperatura atmosferica prosegua, è necessario sostituire le fonti energetiche fossili con altre rinnovabili, con impianti che non emettano CO2 nell’atmosfera.
Mentre si discute, si promette e si progetta, siamo alle prese con la realtà: il prezzo dell’energia che abbiamo disponibile è cresciuto vertiginosamente, dalla benzina, al gas alla bolletta della luce.
Sono tutti a cercare di capire il perché.
C’è un sistema di aste per la fornitura spot di gas, che in Europa ha spiazzato i contratti di approvvigionamento a medio termine, quelli “take or pay” basati sull’obbligo di ritirare il quantitativo pattuito o comunque di pagarlo.
C’è la solita questione dell’Ucraina, Paese di passaggio del gas russo, e poi quella della Bielorussia che ha minacciato di tagliare i rifornimenti per ritorsione contro la Polonia che non accettava i profughi che premevano alla sua frontiera.
Della vicenda del North Stream 2 sono piene le cronache: sta lì, completato ma vuoto, in attesa delle autorizzazioni di rito. Per questo inverno, non se ne parla.
E poi c’è l’Opec+, che mette insieme i maggiori Paesi produttori di petrolio e quelli di gas, che fanno cartello: per loro è vitale vendere a prezzi sufficientemente alti per finanziarsi: Arabia Saudita per il petrolio e Russia per il gas, guidano il gruppo.
Manovrano la quantità complessiva che viene immessa sul mercato, ripartita tra gli associati, per assicurarsi che i rispettivi proventi siano coerenti con le attese di ciascuno. Anche recentemente hanno confermato il modesto aumento della produzione già deciso a luglio, che comunque non la riporta ai livelli di fine 2019, pre-crisi sanitaria.
Il barile quota attorno agli 80$, variando giornalmente a seconda che prevalga l’ottimismo circa la ripresa economica ovvero i timori per la diffusione della “variante omicron”: le oscillazioni sono continue, ma non è che la produzione dei pozzi si possa aumentare o diminuire ogni giorno come si fa con il rubinetto dell’acqua di casa.
Ci sono gli Usa, il cui peso nel settore energetico è troppo spesso trascurato: a partire dal 2010 hanno incrementato enormemente la loro produzione interna, arrivando ad essere nel 2019 un esportatore netto di petrolio.
In pratica, aumentando a dismisura le trivellazioni dei giacimenti di scisto, gli Usa non solo si sono resi autonomi rispetto ai produttori stranieri, ma hanno addirittura ipotizzato di vendere GNL all’Europa spiazzando il metano russo.
I giacimenti di scisto sono problematici: hanno alti costi di estrazione e sono di rapido esaurimento. Dopo aver pompato tutto il possibile nei primi anni, c’è stato un forte rallentamento della loro produzione a partire dalla metà del 2019, a causa del blocco dell’economia determinato dalla crisi sanitaria: i prezzi sul mercato erano a livelli assai inferiori ai loro costi.
Ora, la ripresa della produzione è difficoltosa: non solo per via dei costi da affrontare per rimettere in moto gli impianti, ma soprattutto per l’orientamento a finanziare solo investimenti green.
Per ovviare all’aumento del prezzo dei carburanti, l’Amministrazione statunitense ha adottato anche un provvedimento eccezionale, mettendo sul mercato quote della riserva strategica di petrolio, ma con risultati assai incerti.
C’è un ulteriore aspetto: i governi europei hanno esteso il principio secondo cui “chi inquina paga” al settore dell’energia, imponendo l’acquisto all’asta di “diritti di emissioni di CO2”: le quote sono differenziate a seconda della tipologia di combustibile usato negli impianti (carbone, petrolio, gas).
In questo modo si rende meno conveniente la utilizzazione dei combustibili a più alta emissione di CO2, aumentando il costo di produzione ma scaricando sui consumatori il prezzo pagato alle aste per ottenere il diritto di emissione, e che viene poi riversato ai rispettivi governi.
Ci sono dunque delle entrate fiscali aggiuntive per i governi che derivano dai maggiori costi scaricati sui consumatori: sono dunque i cittadini che finanziano indirettamente gli investimenti e gli incentivi green decisi dai governi.
C’è un ultimo aspetto: le politiche green scoraggiano fortemente le nuove perforazioni petrolifere, la ricerca di nuovi giacimenti e la realizzazione di nuovi gasdotti. Non solo servono decenni per passare dalla ricerca e poi alla produzione, ma gli impianti devono essere ammortizzati con i proventi della vendita di petrolio e gas. Lo stesso vale, ed a maggior ragione, per le miniere di carbone.
La conclusione è paradossale: non solo mettiamo “tasse ambientali” che aumentano le bollette pagate dai cittadini e dalle imprese per comprare l’energia elettrica, ma aumentiamo soprattutto la dipendenza strategica per il petrolio ed il gas da una serie di Paesi produttori che si sono organizzati in cartello. E’ un ribaltamento, soprattutto per gli Usa, che avevano scelto la strada della indipendenza energetica.
Il passaggio alle fonti energetiche alternative rispetto a quelle fossili rappresenta una immensa sfida, sul piano sociale, tecnologico, finanziario e geopolitico: il sogno di avere energia abbondante ed a basso costo diviene già un incubo. Anche il Ministro dello sviluppo economico Giorgetti ha recentemente avvertito gli imprenditori del pericolo di un black-out energetico a livello europeo: un segnale preoccupante che è stato lasciato scivolare via.
Siamo in mezzo al guado: ci lasciamo alle spalle la sponda complessa delle fonti fossili per cercare di giungere a quella ancora più problematica di quelle rinnovabili. Le tecnologie, i costi, la effettiva disponibilità, sono tutte questioni non risolte.
Non bastano le belle parole del G20 di Roma o del COP 26 di Glasgow: ci sono già le bollette che raddoppiano e le forniture elettriche a rischio di black-out.
La transizione alla Green Economy è una sfida rischiosa.
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Andrea Bo
“Servono decenni per passare dalla ricerca e poi alla produzione, ma gli impianti devono essere ammortizzati con i proventi della vendita di petrolio e gas. Lo stesso vale, ed a maggior ragione, per le miniere di carbone”
Assolutamente vero.
Purtroppo è altrettanto vero anche per le attività di estrazione di rame, neodimio, cobalto, alluminio, nichel e di tutte le materie prime necessarie alla transizione… elettrica.
Ed è vero, come giustamente si afferma qui per l’idrogeno, che ciò che “è prodotto” ci è costato la produzione di CO2, (e purtroppo vale anche per ciò che è riciclato), ma ciò che “è estratto”, cioè l’estrazione di materie prime, ne produce di più. E più si sfrutta una riserva, più ne diminuisce la concentrazione in prodotto finale, più aumentano i costi energetici dello sfruttamento minerario e l’emissione di CO2.
Finalmente qualcuno si rende conto che il problema è maledettamente complesso, e obbedire ai semplicismi grillini, o delle ragazzine bionde o, peggio, lasciarlo in mano ai “mercati”, è suicida.