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Speranze e dilemmi dell’auto elettrica

Il prossimo decennio vedrà una trasformazione radicale del sistema dei trasporti. I governi delle economie ricche stanno prendendo impegni sempre più stringenti, nel disperato tentativo di contenere l’aumento della temperatura globale entro i fatidici 1,5 C° e, per quanto riguarda l’Europa, i trasporti sono uno dei pochi settori in cui le emissioni stanno ancora aumentando1.

La Commissione europea ha proposto nei mesi scorsi di estendere anche a questo settore il mercato delle emissioni (di fatto una forma di tassazione che ricade in misura notevole sui consumatori), e di vietare la vendita di veicoli a combustione interna (VC), inclusi i modelli ibridi, a partire dal 20352.

Secondo l’ICCT (International Council on Clean Transportation), per limitare il riscaldamento a 1,5 °C occorre ridurre, entro il 2050, le emissioni generate dalla combustione e dalla produzione di combustibili e di elettricità per i trasporti di almeno l’80% rispetto ai livelli odierni.

La maggior parte di questa riduzione dovrà provenire dalle autovetture, a causa dei maggiori vincoli tecnologici esistenti per la conversione ecologica dei trasporti pesanti, aerei e marittimi.

Allo stato attuale della tecnologia, questi obiettivi possono essere raggiunti soltanto attraverso il passaggio ai veicoli elettrici a batteria (VE). Sebbene la produzione dei VE generi maggiori emissioni rispetto a quella dei VC, fonti autorevoli hanno evidenziato i benefici netti dei VE in termini di emissioni calcolate lungo tutto il ciclo di vita del veicolo (Life Cycle Emissions o LCE).

In particolare, l’ICCT ha affermato di recente con grande nettezza che solo i VE hanno il potenziale per soddisfare gli obiettivi dell’accordo di Parigi. Secondo le stime del ICCT, il risparmio di LCE generato dai VE è nell’ordine del 63%–69% rispetto ai VC. Queste percentuali riflettono il mix attuale della produzione elettrica nei paesi del vecchio continente. Se le energie rinnovabili coprissero il 100% della produzione elettrica in Europa, la riduzione di LCE garantita dai VE potrebbe arrivare al 76%–81%3.

L’alternativa rappresentata dai veicoli a celle di combustibile alimentate ad idrogeno (VI) non sembra, allo stato delle cose, percorribile.

Da una parte, la produzione di idrogeno a partire dal gas naturale (“idrogeno grigio”) è fonte di emissioni di metano, per cui, sul mercato europeo, il risparmio assicurato dai veicoli alimentati da idrogeno grigio rispetto ai VC è attualmente nell’ordine del 21-26% in termini di LCE.

D’altra parte, la produzione di idrogeno basata sulle energie rinnovabili (“idrogeno verde”) comporta un’efficienza energetica molto bassa rispetto a quella delle batterie (25-35% contro 70-90%) e quindi non è economicamente competitiva rispetto a queste ultime per quanto riguarda le autovetture.

D’altra parte, l’idrogeno può risultare competitivo per i trasporti commerciali terrestri e marittimi, per i quali il passaggio alla propulsione elettrica sembra a momento più difficoltoso.

Le stime ottimistiche dell’ICCT sull’elettrico non contraddicono quelle, in apparenza molto meno ottimistiche, dell’IEA (International Energy Agency), che attribuiscono un livello simile di LCE a VE, VC, veicoli ibridi e ad idrogeno4. Infatti, la stima dell’IEA si basa sul mix attuale di produzione elettrica globale, che è molto meno orientato verso le energie rinnovabili di quello europeo e ha una maggiore componente derivante dalla combustione del carbone fossile.

In definitiva, gli esperti appaiono concordi su due punti fondamentali: 1) la maggior parte delle LCE (emissioni totali nel ciclo di vita del veicolo, ndr) dipende dalla produzione e dal consumo del carburante, indipendentemente dal tipo di tecnologia di propulsione adottata per il veicolo; 2) il beneficio ambientale dei VE dipende strettamente dalla produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili.

Questo beneficio si realizzerà su scala globale solo a fronte di investimenti complementari che puntino ad una decisa decarbonizzazione della generazione dell’elettricità.

La disponibilità di una tecnologia matura non è di per sé sufficiente a garantire una transizione ecologica equa.

Prima di tutto, la produzione di batterie solleva alcune criticità. La prima tra queste riguarda le materie prime necessarie. La maggior parte delle batterie impiega cobalto e nichel. Oltre il 60% del cobalto mondiale proviene dalla Repubblica Democratica del Congo, dove viene estratto con poche garanzie di correttezza sociale e ambientale, mentre il nichel proviene principalmente dall’Indonesia, con problemi analoghi.

Si tratta in entrambi i casi di materiali rari, i cui prezzi si stanno già impennando. La corsa ad accaparrarseli rischia di rendere economicamente insostenibile la produzione di batterie e soprattutto di provocare nuovi sanguinosi conflitti.

Fortunatamente, esistono delle alternative. Ad esempio, molti produttori cinesi realizzano batterie a ioni di litio che sono molto convenienti, e non richiedono materiali rari come nickel o cobalto, ma solo materiali relativamente abbondanti come ferro e litio5.

Inoltre, va sottolineato che lo sfruttamento dei paesi poveri è un problema politico generale che, come tale, deve essere affrontato e risolto su basi generali, senza necessariamente mettere in discussione le potenzialità di una nuova tecnologia.

I recenti accordi di assistenza sottoscritti dal governo boliviano di Louis Arce con imprese cinesi vanno in questa direzione6. Infatti l’assistenza cinese si inserisce negli ambiziosi piani del governo locale per sviluppare l’intera catena di produzione di batterie in loco7, rompendo la maledizione che vede i paesi poveri relegati a fornitori di materie prime a beneficio dei paesi industrializzati.

Ricordiamo che l’abbondanza di litio è stato uno dei fattori fondamentali alla base del colpo di stato che ha rovesciato Evo Morales, con il preciso scopo di stroncare questi progetti di sviluppo8.

La seconda criticità si collega alla prima e riguarda lo smaltimento e il riciclo delle batterie. Le stime di riduzione delle emissioni riportate sopra non includono il beneficio potenziale derivante dal riutilizzo delle batterie e dal riciclo delle loro componenti.

Riuso e riciclo comportano poi ulteriori benefici ambientali determinati dalla minore necessità di estrarre materie prime addizionali. Per questo l’IEA ha raccomandato agli stati membri di attivarsi per favorire, attraverso la legislazione, una gestione ambientalmente e socialmente corretta dell’intero ciclo di vita delle batterie, dall’estrazione delle materie prime fino allo smaltimento delle componenti non riciclabili9.

Per questo obiettivo, non è possibile contare sulla risposta spontanea del mercato. Al contrario, il ruolo dello Stato è decisivo per la corretta gestione delle ricadute sociali ed ambientali delle trasformazioni tecnologiche ed economiche legate alla mobilità elettrica.

Un’ulteriore preoccupazione legata alla diffusione dei VE è la trasformazione del modello dei trasporti e la sua sostenibilità sociale. A questo riguardo, alcuni ambientalisti hanno osservato che, se ci limitiamo a sostituire i VE ai VC, le emissioni potranno sì migliorare, ma i problemi legati al congestionamento urbano resteranno invariati, mentre il peso economico dei trasporti sul bilancio delle famiglie potrà addirittura aumentare, visto che i VE venduti attualmente in Europa sono mediamente più costosi dei VC.

Secondo i critici, per risolvere i problemi di congestionamento, occorre spingere sul trasporto pubblico, sulla mobilità in condivisione e sulla mobilità elettrica alternativa a basso costo (e-bike, monopattini elettrici, etc.). Al contrario, misure che favoriscano l’acquisto e la circolazione dei VE, specialmente all’interno dei centri urbani, rischiano di andare a beneficio delle famiglie più ricche, creando una ulteriore polarizzazione economica e territoriale in una società che diventa sempre più diseguale.

Lo scenario di una transizione ecologica socialmente ingiusta è senza alternative?

Per rispondere a questa domanda i fattori istituzionali contano più di quelli tecnologici. Altrimenti non ci potremmo spiegare perché il VE medio prodotto in Cina pesa 300 kg in meno del VE prodotto in Europa e perché il VE più venduto in Europa è la Tesla 3 (prezzo base 50.000€), mentre quello più venduto in Cina è la Hongguang Mini (prezzo base meno di 4.000€).

La chiave per spiegare questo paradosso è che le regole europee attuali sono state definite in modo da stabilire obbiettivi meno stringenti in termini di emissioni per i veicoli più pesanti, e questo ha portato uno spostamento complessivo del mercato europeo verso i veicoli di lusso10.

Questo regolamento è stato approvato nell’interesse dei produttori premium tedeschi (Mercedes, Audi, BMW e della Volkswagen), i cui veicoli sono mediamente più pesanti, a scapito dei produttori generalisti, principalmente italiani e francesi.

Poiché i VE sono mediamente più costosi, è più facile incorporare questa tecnologia in un veicolo di lusso, che deve però offrire, per essere appetibile, performance comparabili a quelle dei VC della medesima gamma. Per questo, è già chiaro che il VE medio prodotto in Europa sarà addirittura più pesante e potente dell’equivalente VC.

Le conseguenze negative di questa tendenza sono sia di ordine ambientale che sociale. A parità di tecnologia, veicoli più pesanti producono più particelle inquinanti dovute al logoramento e richiedono il consumo di più materie prime e più emissioni per produrre e alimentare batterie più potenti.

Inoltre, se il VE medio è eccessivamente costoso per la maggioranza delle famiglie, la transizione verso la mobilità elettrica sarà inevitabilmente ritardata, se non impedita. Al tempo stesso, le classi popolari saranno colpite dalla tassazione crescente dei combustibili fossili ed escluse dall’accesso alla tecnologia verde, così come dalla mobilità all’interno dei centri urbani, se questi adotteranno limitazioni di circolazione per i VC.

Se la transizione ecologica non sarà sostenibile anche in termini sociali, rischia di innescare forti conflitti e finire deragliata. Il precedente dei gilet gialli dimostra che questo rischio è reale. Per scongiurarlo, il ruolo dello stato è, una volta di più, decisivo.

Ad esempio, il Giappone ha adottato un trattamento fiscale molto favorevole per l’acquisto di auto di piccole dimensioni, con il risultato che il peso delle nuove auto vendute in questo paese è mediamente inferiore di 200kg rispetto a quello delle auto vendute in Europa11.

Vediamo quindi che è possibile individuare delle alternative in grado di agevolare la transizione ecologica e di tutelare al tempo stesso il diritto alla mobilità dei ceti popolari.

Sicuramente la mobilità urbana del futuro, per essere sostenibile, dovrà veder circolare nelle città più veicoli poco ingombranti e leggeri, per i quali la propulsione elettrica è la soluzione ottimale. Al tempo stesso, sarà difficile rinunciare completamente alla flessibilità di impiego dell’automobile tradizionale, in grado di soddisfare sia la mobilità urbana, legata agli spostamenti per lavoro, che quella extraurbana, legata al tempo libero.

La continuità della produzione dell’automobile si lega strettamente alle ricadute occupazionali della transizione elettrica. Questo tema è particolarmente sensibile in un paese come l’Italia, dove l’industria automobilistica è in crisi da decenni, e dove in questo momento molti stabilimenti della filiera automobilistica rischiano di chiudere.

Dagli studi esistenti a livello europeo sembra emergere, a questo riguardo, un consenso su alcuni punti fondamentali12. Il primo è che l’impatto occupazionale sarà notevole per le fasi produttive legate alla realizzazione dei motori a combustione interna, poiché i motori elettrici richiedono il 70% di manodopera in meno rispetto a quelli tradizionali.

Il secondo è che questa riduzione di manodopera sarà compensata da una maggiore occupazione generata dalla produzione di batterie, dallo sviluppo dell’infrastruttura energetica e dalla maggiore produzione di energia elettrica, in modo tale che l’effetto netto dell’elettrificazione sarà sostanzialmente neutro in termini occupazionali.

Il terzo è che la quota di occupat* che dovranno essere coinvolti in percorsi di riqualificazione è molto alta, perché le attività che vedranno crescere l’occupazione sono radicalmente diverse da quelle che la vedranno declinare.

In particolare, una quota rilevante di occupat* si troverà nelle condizioni di dover cambiare datore di lavoro o tipo di occupazione svolta. Questa esigenza riguarderà soprattutto una parte significativa degli addett* nel settore automobilistico, quella appunto impiegata direttamente o indirettamente nella produzione dei motori a combustione.

Il futuro occupazionale dei territori più legati alla produzione automobilistica dipenderà dallo sviluppo di nuove attività produttive che possano sostituire quelle esistenti. Tra queste la produzione di batterie occupa un posto di particolare rilievo.

Non deve quindi stupire che sia già feroce la competizione tra paesi europei per accaparrarsi la localizzazione delle cosiddette gigafactory, in cui le batterie verranno prodotte. Né ci deve stupire che la maggior parte delle gigafactory progettate o in costruzione sia in Germania.

Per quanto riguarda l’Italia, la materia è ancora in gran parte fluida, ma una cosa è già ben chiara: sulle batterie si gioca buona parte del futuro industriale nazionale. Infatti, questa tecnologia non è indispensabile solo per implementare la mobilità elettrica ma anche, più in generale, per aumentare la capacità di stoccaggio dell’energia elettrica.

Questo è un requisito fondamentale per garantire la necessaria continuità di fornitura alla griglia energetica quando, si spera, la totalità dell’elettricità verrà prodotta da fonti rinnovabili, la cui produttività è necessariamente soggetta a continui dislivelli.

Poiché le batterie rappresentano una tecnologia chiave per i prossimi decenni, dove e come verranno prodotte diventa una questione di importanza strategica, con pesanti ricadute economiche e geopolitiche. Data la feroce concorrenza tra territori a livello continentale, è più probabile che i rischi per la filiera automobilistica italiana provengano dai nostri vicini europei che dalla sbandierata minaccia cinese.

In conclusione, possiamo dire che i dilemmi dei VE non sono generati dalla tecnologia ma da una regolazione disfunzionale, da una parte, dei rapporti economici internazionali e, dall’altra, del sistema dei trasporti e del mercato automobilistico interni.

In questo campo così come in molti altri, dovremmo evitare di attribuire alla scienza e alla tecnologia quei difetti che sono dovuti ad una pessima organizzazione sociale e agli interessi particolari che la difendono.

Allo stato dei fatti, le nuove tecnologie ci offrono l’opportunità di rendere la nostra mobilità compatibile con la neutralità climatica, salvaguardando i livelli occupazionali complessivi. Sta a noi lottare perché questi obiettivi si realizzino attraverso una transizione ecologica che sia socialmente equa.

 * Università di Firenze

1Tommaso Pardi, “Prospect and contradictions of the electrification of the European automotive industry: the role of European Union policy”, Int. J. Automotive Technology and Management, in corso di stampa, p. 5. Ricordiamo che a livello globale i trasporti sono responsabili del 20% delle emissioni totali (24% delle emissioni derivanti dai consumi energetici) e che il trasporto di passeggeri rappresenta il 45% delle emissioni dei trasporti (dati riferiti al 2018, vedi https://ourworldindata.org/transport).

2“Svolta Ue: stop alla vendita di auto a benzina e diesel dal 2035”, https://www.ilsole24ore.com/art/svolta-ue-stop-vendita-auto-benzina-e-diesel-entro-2035-AEZqmuW?refresh_ce=1

3Vedi Georg Bieker, “A global comparison of the life-cycle greenhouse gas emissions of combustion engine and electric passenger cars”, https://theicct.org/sites/default/files/publications/Global-LCA-passenger-cars-jul2021_0.pdf.

4IEA, Global EV outlook 2019, https://iea.blob.core.windows.net/assets/7d7e049e-ce64-4c3f-8f23-6e2f529f31a8/Global_EV_Outlook_2019.pdf.

5“Battery technology gives China an opening in electric vehicles”, https://www.ft.com/content/fcbc860b-51cd-40d8-b65f-db97ce9adc57. Ulteriori sviluppi tecnologici sono legati all’utilizzo delle batterie al grafene, materiale avveniristico estratto dalla grafite, vedi https://www.gac-motor.com/en/media/newsdetail/id/166.html.

6https://www.telesurenglish.net/news/Bolivia-President-Arce-Highlights-Lithium-Deals-with-China-20210423-0012.html

7https://www.argusmedia.com/en/news/2247993-bolivia-shortlists-firms-for-lithium-pilot-production.

8https://contropiano.org/news/internazionale-news/2019/11/18/bolivia-un-golpe-per-cristo-o-per-gas-litio-cobalto-uranio-oro-ecc-0120915

9 Per maggiori approfondimenti si veda E. N. Elkind, P. R. P. Heller e T. Lamm, “Building a sustainable electric vehicle battery supply chain: frequently asked questions”, University of California at Berkeley, Center for Law, Energy & The Environment -Natural Resource Governance Institute, aprile 2020, https://www.law.berkeley.edu/wp-content/uploads/2020/04/Building-A-Sustainable-Electric-Vehicle-Battery-Supply-Chain.pdf.

10Tommaso Pardi, cit., p. 10.

11Tommaso Pardi, cit., p. 9.

12Boston Consulting Group, “Is E-mobility a Green Boost for European Automotive Jobs?”, https://web-assets.bcg.com/82/0a/17e745504e46b5981b74fadba825/is-e-mobility-a-green-boost.pdf.

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2 Commenti


  • Andrea Bo

    Molti spunti sono condivisibili, per esempio in merito alla presa in considerazione del peso medio dei singoli veicoli e della non-risolutività delle “illusioni all’idrogeno”. O alla necessità di un approccio di pianificazione pubblica.
    Altri spunti appaiono piuttosto discutibili.
    Qui si afferma che la maggior parte della riduzione delle “emissioni generate dalla combustione e dalla produzione di combustibili e di elettricità per i trasporti” debba “provenire dalle autovetture, a causa dei maggiori vincoli tecnologici esistenti per la conversione ecologica dei trasporti pesanti, aerei e marittimi”: occorrerebbe, prima di questa affermazione, ponderare le quote di incidenza, sulle emissioni totali, di ciascuna di queste componenti. E temo che si scoprirebbero dati sconfortanti.
    (Incidentalmente, nell’occasione non guasterebbe considerare le emissioni per le attività militari: si sarebbe andati fuori tema? Forse, ma questo “tema” sarebbe prioritariamente dirimente.)
    E’ corretto il rinvio a note con le citazioni di fonti ma, sotto questo profilo, sarebbe stato significativo citare le “autorevoli fonti”, e i relativi interventi, che sostengono l’esistenza di benefici netti che i veicoli elettrici manifesterebbero durante il loro ciclo di vita, rispetto a quelli “tradizionali”. A rigore, andrebbero calcolate anche le differenze, in termini di costi ambientali, economici e sociali, dell’originario approvvigionamento delle materie prime necessarie alla produzione delle une e delle altre tipologie di veicoli. E anche qui, almeno in prospettiva, c’è di che temere qualche amara disillusione.
    E’ poi ormai smentito dai fatti che le energie rinnovabili possano coprire il 100% della produzione elettrica in Europa, a meno che non si mettano in cantiere numerosi impianti di produzione idroelettrica. O a meno che non si consideri fonte rinnovabile anche il nucleare a fissione…
    L’amara esperienza della Energiewende tedesca ha ben ridimensionato le potenzialità europee di eolico e fotovoltaico, al punto che è di pochi anni fa la disinvolta inaugurazione di una centrale (tedesca) a carbone di oltre 1 GW. E la cospicua colonizzazione di turbine e campi fotovoltaici, anche in Italia, soprattutto nel meridione e nelle isole, ha dimostrato una capacità di copertura del fabbisogno non solo intermittente e inaffidabile (come ammesso anche nell’articolo, al punto di porre il problema dello stoccaggio dell’elettricità prodotta), ma soprattutto scarsa anche in termini assoluti, e fra l’altro piuttosto dispendiosa.
    L’auspicata “decisa decarbonizzazione della generazione dell’elettricità” dimentica poi di fare i conti con il fabbisogno energetico, e soprattutto elettrico, dei paesi in via di sviluppo: a questo proposito è stato illuminante questo intervento, ospitato da questa stessa testata poche settimane fa:
    https://contropiano.org/news/news-economia/2021/11/03/fare-tutto-da-capo-lillusione-dietro-g20-e-cop26-0143597
    Va poi colta una contraddizione di fondo: se, come qui asserito, per il problema delle batterie, il litio sarebbe un materiale “relativamente abbondante”, perché si sarebbe concentrate sul governo della Bolivia le tensioni che abbiamo già visto?
    Presupponendo poi il “beneficio potenziale derivante dal riutilizzo delle batterie e dal riciclo delle loro componenti” non possono omettere tre considerazioni:
    – il riciclaggio, cioè il recupero di elementi chimici da manufatti a fine vita, presuppone comunque un’estrazione da quei manufatti, che è attività certo meno impattante dell’estrazione mineraria da formazioni geologiche, ma tutt’altro che scevra da effetti inquinanti ed (ulteriori) elevati fabbisogni energetici;
    – la resa, in termini di materiale recuperato, diminuisce a ogni ciclo di riutilizzo dei dispositivi a fine vita;
    – comunque sia, in fase di incremento di produzione e utilizzo, i dispositivi a fine vita, da cui estrarre gli elementi necessari per produrre nuove batterie, devono comunque essere GIA’ disponibili, e quindi essere GIA’ stati costruiti con materiali che a loro volta erano stati precedentemente oggetto di attività estrattive: non si può riciclare un materiale che ancora non sia stato estratto dai terreni…
    Non è banale il fatto che il corrente e previsto aumento del fabbisogno di materiali per l’elettrificazione delle produzioni e dei consumi energetici stia già conducendo a prospezioni minerarie sui fondi oceanici: la prospettiva di sfruttamento dei giacimenti, in parte già individuati, ha conseguenze ambientali ignote e inquietanti…


  • Francesco Morante

    Lo scenario tecnologico è quello delineato dall’articolo e anche i dubbi espressi sono i dubbi legittimi.
    Io però vorrei far notare un aspetto sociale potente. Che è la straordinaria semplificazione del processo produttivo che porta – sostiene l’articolo – ad una riduzione della manodopera pari al 70%. Nell’articolo si parla di motori. La riduzione straordinaria si riflette anche nella costruzione dell’automobile. Non ho i dati per quantificarla ma per certo la semplificazione è drastica e quindi anche la manodopera necessaria.
    C’è lo spettro della disoccupazione. Questo è evidente. Ma si intravede all’orizzonte un fenomeno davvero dirompente, che potrebbe portare alla fine il fordismo in modo definitivo. Cioé, non occorrono più grandi aziende per produrre auto. La progettazione e la produzione di automobili diventa molto più semplice e si presta ad essere realizzata anche da unità piccole.
    Che non sia iniziata l’era della wiki-auto?

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