Il settore privato è già sulla buona strada per risolvere la crisi climatica.
Questo, almeno, è ciò di cui i funzionari dell’amministrazione Biden che partecipano alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, o COP26, questa settimana stanno cercando di convincersi mentre in casa affrontano la sconfitta legislativa delle proposte di spesa per il clima della Casa Bianca.
Cedendo all’ottimismo, l’inviato internazionale per il clima John Kerry ha fatto esplicito riferimento al ruolo di mero operatore derisking che lo Stato assumerebbe per agevolare gli investimenti, ruolo molto ben descritto dalla professoressa Daniela Gabor, secondo i dettami di quello che lei stessa definisce il Wall Street Consensus.
“Attraverso la finanza, si possono ridurre i rischi dell’investimento e creare la capacità di avere accordi bancabili”, ossia rapidamente negoziabili, in modo da trovare facilmente accoglimento e supporto da parte dei lenders, se necessario, ha detto Kerry. “Tutto ciò è fattibile per l’energia, per l’acqua, per il trasporto”.
Dopo la COP26, ha aggiunto Kerry, “trasformeremo la mia squadra direttamente in un’agenzia di aiuti umanitari”. “Dobbiamo trasformare questa sfida”, ha aggiunto, senza ulteriori commenti, il consigliere nazionale per il clima della Casa Bianca Gina McCarthy, “in un’opportunità creativa. Il tutto al fine di fare soldi. E Dio benedica l’America”.
“Le vecchie nozioni secondo cui il settore privato dovrebbe de-carbonizzare, perché il bene del Pianeta deve essere messo prima degli affari, non sono più in discussione, ma sono universalmente accettate”, ha detto il segretario al Tesoro Janet Yellen (il primo segretario del Tesoro degli Stati Uniti per l’indirizzo negoziati sul clima delle Nazioni Unite), durante la COP26.
“Molte energie rinnovabili sono ora più economiche delle alternative a combustibili a base di carbonio e hanno costi operativi a lungo termine inferiori. Altre tecnologie verdi hanno curve di costo che continuano a precipitare. In molti casi, è semplicemente conveniente diventare ecologisti”.
L’ottimismo era nell’aria presso lo Scottish Events Center. Era il “Finance Day”, uno dei tanti giorni a tema che metteva in luce gli sforzi in diversi settori per ridurre le emissioni. L’ex governatore della Banca del Canada e della Banca d’Inghilterra, diventato guru della finanza verde, Mark Carney, aveva appena annunciato erano stati per l’occasione firmati per la Glasgow Financial Alliance for Net Zero (GFANZ) 130 trilioni di dollari.
In pratica, ciò significa che le istituzioni finanziarie del settore privato che controllano una così grande massa di denaro hanno previsto un piano per conseguire portafogli finanziari ad emissioni nette nulle, qualunque cosa ciò significhi.
Ciò non includeva l’impegno di quelle stesse banche, compagnie assicurative o gestori patrimoniali a smettere di finanziare carbone, petrolio o gas. Molte società aderenti alla alleanza GFANZ, infatti, producono o fanno uso di quei combustibili.
Un rapporto del Rainforest Action Network, organizzazione senza scopo di lucro, dello scorso marzo ha rilevato che JP Morgan Chase, che ha aderito all’Alleanza in occasione della COP26, ha fornito 317 miliardi di dollari alle società di combustibili fossili dal 2016.
A partire dalla COP26, tutti i primi 10 finanziatori di combustibili fossili hanno aderito alla GFANZ. Solo l’anno scorso, hanno contribuito collettivamente con 303 miliardi di dollari a progetti che impiegano carbone, petrolio e gas. Come membri di GFANZ, essi promettono di finanziare anche progetti più rispettosi del clima.
Ad esempio, alla COP26 sono state fatte grandi promesse da parte di finanzieri di livello multinazionale per la riduzione dell’impiego di metano. Nessuno strumento è stato, però, previsto per trasformare quegli impegni in realtà o farli rispettare in alcun modo, così come è sostanzialmente caduto nel vuoto l’Accordo di Parigi che questa Conferenza avrebbe dovuto, almeno nelle dichiarate intenzioni, contribuire ad attuare.
Eppure, mentre il mondo cercava di impedire all’economia globale di implodere in mezzo alla pandemia di Covid-19, tutti si sono resi conto che il potere delle banche centrali, in particolare della Federal Reserve statunitense, è sostanzialmente illimitato. Le vecchie norme sulla responsabilità fiscale sono sembrate svanire di fronte a un’esigenza così urgente.
Molti speravano che i politici avrebbero trattato la crisi climatica allo stesso modo. È tornata, invece, la solita retorica sulla prudenza fiscale. “Quell’idea è scomparsa molto rapidamente non appena le condizioni del mercato sono cambiate e una volta che si è visto salire un po’ di inflazione”, ha detto Daniela Gabor, economista presso l’Università dell’Inghilterra occidentale a Bristol, che ha scritto molto sulla finanza verde.
“A meno che non si abbia un cambiamento nel paradigma macro-finanziario, nel modo in cui organizziamo le nostre istituzioni macro-finanziarie e nel loro rapporto con il capitale finanziario – non si otterrà il tipo di trasformazioni strutturali che si sperava, in cui è lo Stato che organizza la transizione a basse emissioni di carbonio. [Ipotizzare il ricorso ad un cosiddetto Green New Deal] è stato quindi un errore temporaneo”.
La prof. Gabor ha anche posto un interrogativo più preoccupante: “Fino a che punto l’amministrazione Biden è controproducente qui?”.
Da un lato, il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi sotto Trump e l’adozione di una posizione generalmente ostile nei confronti degli accordi internazionali sono stati disastrosi. Dall’altro, hanno aumentato la pressione sul resto del mondo perché si riprendesse il dialogo sul tema.
Ora che l’amministrazione Biden ha riportato gli Stati Uniti nel dibattito, si ritorna, però, “alla linea di base degli Stati Uniti e la linea di base degli Stati Uniti è che la Federal Reserve non può fare nulla”.
L’argomento che gli Stati Uniti e altri Paesi ricchi hanno sostenuto questa settimana è che l’obiettivo principale degli investimenti pubblici sul clima dovrebbe essere quello di trasformare i progetti climatici estremamente necessari in investimenti redditizi, assumendosi il rischio che le aziende private non sono disposte a correre per salvare il mondo.
Adesso ci sono soldi veri da impiegare in settori verdi come le energie rinnovabili, ad esempio. Ma è difficile immaginare che i trilioni necessari per intervenire ex post, in seguito a disastri climatici, genereranno mai i tipi di rendimenti che gli investitori sono ansiosi di conseguire.
Al di là del timore che quei fondi del settore privato non saranno mai effettivamente “mobilitati” nella scala necessaria, ci sono altre preoccupazioni sui vincoli legati ai progetti che finanziano. Trasformare i beni pubblici in asset class significa costruire opportunità per generare rendimenti, come gli onerosi pedaggi sulle autostrade costruite da Goldman Sachs o le tariffe esorbitanti applicate sulle ricariche dei veicoli elettrici.
Questo perché l’obiettivo di queste politiche non è ridurre le emissioni; è generare rendimenti dalle attività a minori emissioni. Fare in modo che gli investitori possano sfruttare le “enormi opportunità commerciali della transizione al net-zero” è “ciò che prevede” il quadro del finanziamento verde presentato da Mark Carney.
“L’idea è che si possa avere di nuovo l’austerità monetaria e fiscale perché arriverà BlackRock e salverà la situazione con un po’ di finanza mista”, ha detto la prof. Gabor. In un panel ospitato dalla CNBC alla COP26, Larry Fink, CEO di BlackRock, ha annunciato che la sua azienda ha raccolto 673 milioni di dollari per finanziare “infrastrutture incentrate sul clima” nei Paesi in via di sviluppo.
Utilizzando una “struttura di leva innovativa”, la Yellen ha poi affermato che i nuovi green bond, la cui emissione ha annunciato questa settimana, “contribuiranno ad attirare nuovi significativi finanziamenti privati per il clima e forniranno $ 500 milioni all’anno” per finanziare iniziative pubbliche e private attraverso il meccanismo dei mercati dei capitali dei fondi di investimento per il clima.
Come ha affermato Kerry in una recente intervista, dopo aver notato che c’erano migliaia di miliardi disponibili per le questioni del green, “il vero problema è distribuire quei trilioni di dollari, perché devono essere destinati ad affari bancabili, investibili”.
In conclusione, con con una fiducia comprensibilmente diminuita nella propria capacità di governare, le figure dell’amministrazione più attente al clima hanno tentato di rendersi utili mostrando come le infrastrutture climatiche siano un buon affare per gli investitori privati dotati di maggiore liquidità. Probabilmente, il tutto non sarà invece un buon affare per il pianeta e i suoi abitanti meno benestanti.
P.s. 1
Nell’era in cui la finanza globale (sistema bancario ombra, investitori istituzionali, gestori patrimoniali) sposta liberamente enormi capitali attraverso flussi di portafoglio (la prof. Gabor chiama il fenomeno “eccesso di portafoglio”, “portfolio glut”), la finanziarizzazione (subordinata) non è più limitata al bilancio di banche e società non finanziarie , ma diventa un progetto mediato dallo Stato di costruzione di nuove classi di attività finanziarie legate allo sviluppo al fine di attirare il crescente eccesso di portafoglio.
Rendere lo sviluppo “investibile” richiede una duplice strategia:
(a) riorientare il braccio fiscale e monetario dello Stato verso il mero de-risking di classi di attività finanziarie connesse allo sviluppo, per garantire flussi di cassa costanti per gli investitori;
(b) riprogettare i sistemi finanziari locali a immagine della finanza statunitense basata sul mercato per consentire agli investitori di portafoglio di entrare e uscire facilmente da quelle nuove classi di attività finanziarie.
E’ con la cartolarizzazione che attività ed infrastrutture legate a trasporti, salute, benessere, istruzione saranno trasformate in opportunità di mercato in progetti bancabili / investibili attraverso partenariati pubblico-privato (PPP) in cui lo Stato interviene solo per assumere su di sé i rischi connessi con le oscillazioni della domanda, con i cambiamenti o le resistenze politico/normative.
Lo Stato con un ruolo di mero de-risking può destinare risorse minime alla politica economica proprio mentre crea, invece, una rete di sicurezza per i detentori di beni di sviluppo, proteggendo i loro profitti dai rischi della domanda dei beni e servizi coinvolti; dai rischi politici che minaccerebbero i flussi di cassa, tra cui ad esempio politiche di nazionalizzazione, salari minimi più elevati e, in modo critico, la regolamentazione del clima; e dai rischi di liquidità e valutari.
Con riferimento alla salute, l’insistenza per la “prevenzione delle malattie” rientra appieno nella strategia di de-risking se si pensa che dovendo investire nello sviluppo di alcune economie la relativa forza lavoro che si intende necessaria sia un collateral indispensabile per il buon esito dell’investimento e quindi per definirlo ex-ante “bancabile”, “investibile”, “cartolalizzabile”
P.s. 2
La Risposta strategica occidentale alla Belt and Road Initiative cinese si chiama ‘Wall Street Consensus’ e la sua parola d’ordine è: cartolarizzazione
Nel suo lucido articolo, “The Wall Street Consensus”, la professoressa Daniela Gabor, ci spiega la strategia occidentale del Wall Street Consensus (WSC). Attori compartecipi sul palco sono: la finanza globale (i cd mercati), gli Stati, le Banche Centrali e le Banche Multilaterali di Sviluppo. Tra gli input e output della strategia ci sono i cittadini e i loro diritti primari.
L’ambiente in cui si svolge la scena è un Occidente in decadenza che teme, a ragion veduta, di perdere la propria posizione egemonica nel contesto globale e che non rinuncia a sperare di conservarla usando le leve della finanza nell’era del ‘portfolio glut’, ovvero, in un’epoca di ‘eccesso di portafoglio’, in cui investitori istituzionali e gestori patrimoniali spostano capitali, non più e non tanto attraverso l’intermediazione delle banche ma attraverso la finanziarizzazione subordinata che trasferisce in modo diretto ed estremamente rapido, ingenti flussi di danaro sui mercati finanziari globali.
Dieci sono i comandamenti di policy del WSC, rispettando i quali, secondo la Gabor, gli attori istituzionali – Stato, Banche Centrali e Banche Multilaterali di Sviluppo – dovrebbero riuscire a creare una rete di sicurezza tanto convincente per gli investitori della finanza globale da orientarne le scelte verso il massiccio finanziamento di attività utili allo sviluppo economico e ad accrescere il benessere della collettività, attività per l’occasione tradotte in ‘commodity’ globalmente commerciabili (‘bancabili’, ‘investibili’) attraverso una pratica – quella della cartolarizzazione – che, ampiamente screditata in seguito al fallimento della Lehman Brothers, è, quindi, proprio attraverso la strategia del WSC, oggetto di un tentativo di riabilitazione.
Queste prescrizioni sono dalla Gabor poste a confronto con quelle del Washington Consensus (WC) in una tabella di facile lettura.
Al punto 1 (tab. 1) si ribadisce immediatamente, ed a scanso di equivoci, che attraverso la strategia del WCS, esattamente come nel WC, non saranno minimamente intaccate né la indipendenza delle Banche Centrali (dal potere politico, si badi bene, non dalla finanza globale), né si rinuncerà alla disciplina fiscale.
Il punto 2 segna, invece, la netta cesura tra le due strategie in merito al ruolo dei governi: la spesa pubblica per l’istruzione primaria, la salute, l’ambiente, il clima e le infrastrutture in generale viene completamente azzerata: lo Stato, che per l’occasione noi definiremo quindi minimo, si limiterà ad assumere il ruolo di facilitatore, abbattendo i rischi insiti nelle attività finanziarie – opportunamente denominate – frutto della cartolarizzazione di quei capitoli di spesa dello Stato che saranno appunto eliminati, al fine di renderle internazionalmente scambiabili su mercati finanziari globali, liquidi e spessi.
Ecco quindi che, se gli esperti di marketing daranno il nome giusto alle attività finanziarie progettate dai guru della finanza globale, anche i meno esperti – e forse proprio per questo più scettici – saranno indotti a credere che affidare le gestione di tutto ciò che è essenziale per il benessere delle collettività, prima che per lo sviluppo economico delle stesse, e cioè, appunto, istruzione primaria, salute, infrastrutture, clima, natura, sarà assai più vantaggioso, tanto in termini di efficienza, quanto in termini di equità.
Il punto 3 riorienta il discorso sulla sostenibilità delle iniziative per lo sviluppo, svincolandolo dagli aspetti strettamente fiscali, peraltro già insiti in modo inequivocabile nel punto 1 del decalogo, ed indirizzandolo verso gli investimenti di natura finanziaria attraverso i rating (Environmental, Social, Governance, ESG) della cd finanza sostenibile, che dovrebbero servire a misurare il grado di rispetto della tutela dell’ambiente, della società e della governance, con l’intenzione dichiarata, di generare sia un ritorno finanziario che un impatto ambientale e sociale positivo, concreto e misurabile, seguendo le priorità segnalate dall’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.
Il punto 4 richiama l’esigenza di trasformare le istituzioni preposte alla politica economica – e quindi governi e banche centrali – per trasformarle in “market-maker di ultima istanza” a presidio della esistenza in vita dei mercati finanziari e quindi, della progettazione di attività finanziarie liquide, e del contenimento della volatilità dei prezzi delle stesse.
Il punto 5 aggiunge per le stesse istituzioni, sempre al fine di facilitare gli investitori finanziari nel contesto globale, il ruolo di “agenti assicuratori di ultima istanza” abili a garantire la possibilità per gli stessi di coprirsi costantemente da tutti i rischi ed in particolare, specie nel caso di investimenti realizzati in Paesi con valuta a circolazione essenzialmente locale, dal rischio di cambio (saranno in tal caso “hedger e swapper di ultima istanza”) ma anche dal rischio climatico e da qualunque rischio di calo improvviso della domanda, dell’offerta, politico e normativo.
La globalizzazione finanziaria di cui al punto 6 del decalogo WSC, sostituisce, nella sostanza, i contenuti dei punti 4., 5. e 6., del decalogo WC, richiamando la necessità di eliminare qualunque ostacolo alla libera circolazione dei capitali e la rimozione di qualunque fattore di disturbo alla circolazione delle ‘commodity’ intese in senso ampio del termine e quindi tanto merci quanto attività finanziarie frutto della cartolarizzazione delle attività di sviluppo, come già detto.
La liberalizzazione del commercio internazionale di beni e servizi, la totale deregolamentazione del mercato dei cambi, la promozione di Investimenti Diretti Esteri (IDE), previste nel WC, vengono poi sintetizzate nella raccomandazione 7 del WSC relativa alla necessità, non solo di non ostacolare, ma anzi, di promuovere globalmente i ‘flussi di portafoglio’.
Alla generica previsione di privatizzazioni del WC, nel punto 8 del decalogo WSC, si richiama, invece, la necessità di dar luogo a Partnership Pubblico Privato (PPP) per la mobilitazione di risorse sul fronte interno, domestico, specie del settore pensionistico ma anche più in generale opportunamente cartolarizzando, e quindi rendendo globalmente ‘investibile’, qualunque infrastruttura a presidio del benessere della popolazione e dello sviluppo economico dei Paesi.
Il ruolo di regolatore della concorrenza previso dal WC per lo Stato viene sostituito nel punto 9 del decalogo WSC dalla esigenza – definita di de-risking normativo – per lo Stato-Partner di rimuovere tutte le barriere normative che ostacolano i produttori privati, innanzitutto, smantellando le posizioni monopolistiche delle utility energetiche statali verticalmente integrate; reindirizzando i sussidi pubblici dal finanziamento della produzione di combustibili fossili ai produttori di energia rinnovabile per il tramite della predisposizione, ad esempio, di tariffe feed-in e dell’accesso garantito alla rete.
Dulcis in fundo (antifrasticamente detto), la tutela dei diritti di proprietà lascia il posto al capitalismo di sorveglianza ed a quello che Naomi Klein ha definito lo Screen New Deal.
Il Wall Street Consensus mira cioè a sfruttare il modello di capitalismo di sorveglianza già implementato attraverso l’inclusione della finanza digitale in reti sovrapposte di istituzioni statali, organizzazioni di sviluppo internazionali e società fintech dedite al sedicente “investimento filantropico”. L’obiettivo è mappare, raccogliere e monetizzare tutte le impronte digitali e farne oggetto di analisi comportamentale al fine di cartolarizzarle e renderle globalmente commerciabili.
Il capitalismo della sorveglianza trova applicazione anche nella svolta verso la PPP tra Stato-facilitatore ed assistenza sanitaria privata, dopo che, sulla scia del WC, i Paesi abbiano hanno preventivamente privatizzato la sanità attraverso l’applicazione di tariffe agli utenti sui servizi sanitari pubblici, incoraggiando l’assistenza sanitaria privata e promuovendo schemi assicurativi privati.
Il capitalismo di sorveglianza entra nell’assistenza sanitaria digitale, con la sua promessa di garantire una migliore diagnostica attraverso tecnologie avanzate e un ecosistema complesso maturo per cartolarizzare anche la salute ed intervenire sia dal lato dell’offerta che dal lato della domanda dell’assistenza sanitaria privata fornendo, dal lato dell’offerta, finanziamenti a piccole aziende sanitarie private, a fornitori di assistenza specialistica e contribuendo allo sviluppo di app sanitarie in base alle quali, dal lato della domanda, gli utenti risparmiano per le cure mediche, pagano e gestiscono le loro polizze assicurative e supportano le persone a carico.
L’assistenza sanitaria digitale può trasformarsi in dispositivi di sorveglianza (ad esempio con app per il monitoraggio dell’ipertensione) attraverso i quali le compagnie assicurative possono regolare i premi e facilitare anche i controlli periodici dei medici per la cura periodica dei pazienti a basso reddito, consentendo ad essi l’accesso ai dati con i quali potranno monitorare con continuità, tra l’altro, la pressione sanguigna e i livelli di glucosio nel sangue.
La maggiore consapevolezza digitale e il supporto all’autogestione attraverso app innovative mirano ad agevolare il riconoscimento dei sintomi e l’aderenza al trattamento sanitario e funzionano anche per incoraggiare investitori istituzionali come le compagnie assicurative a sviluppare nuovi prodotti e mercati cartolarizzando i prestiti sanitari.
Gli elementi del capitalismo di sorveglianza del WSC hanno visto nella pandemia di COVID-19 un’opportunità strategica.
Le società fintech statunitensi hanno iniziato a sostenere, poi, quello che Naomi Klein ha definito uno “Screen New Deal” che promuove le PPP nell’intelligenza artificiale al fine di accelerare la fornitura digitale privata di beni pubblici, tra cui istruzione, sanità e infrastrutture.
* da GiubbeRosse
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