Coniugare la transizione ecologica e lo sviluppo di qualità è una delle maggiori sfide di Pechino.
Un compito che può fare della Cina un “paese guida” per un nuovo modello di sviluppo socialista in cui agiscano a vari livelli i vari attori istituzionali (centrali e locali) con l’attiva partecipazione dei cittadini.
Questo ruolo presuppone un livello di cooperazione con gli Stati Uniti che potrebbe fungere da importante strumento di raffreddamento delle tensioni sino-statunitensi, ed in generale potrebbe determinare il “new normal” per l’approccio alla crisi climatica a livello globale.
Una cooperazione, a più livelli anche questa, che ha in parte già dato i suoi frutti.
Wishfull thinking? Non proprio.
Questo è ciò che emerge dall’articolo che abbiamo qui tradotto, più incline ad esporre con dovizia di particolari i dati di fatto che le narrazioni giornalistiche demonizzanti nei confronti della Repubblica Popolare, senza nascondere i limiti e le criticità nel processo di transizione ecologica cinese in corso.
A nostro parere sarà piuttosto difficile trovare un terreno di cooperazione, e non di spietata concorrenza, rispetto ad alcune materie strategiche – come le “terre rare” – e le produzione all’avanguardia nell’automotive elettrico o nelle rinnovabili.
A maggior ragione se consideriamo tra l’altro la situazione di recessione dell’economia mondiale che porta all’agguerrito scontro economico tra USA, UE e Cina.
Questo anche perché ormai il ruolo di leadership cinese è affermato.
“Poiché la Cina” – si afferma nel testo, riprendendo uno stralcio di intervista – “è diventata il fulcro della produzione, della lavorazione, della raffinazione e della fabbricazione per trasformare questi minerali in componenti chiave delle tecnologie pulite, detiene la maggior parte dei brevetti in questo settore tecnologico di nicchia molto ricco.
Se la concorrenza con gli Stati Uniti è fatta in modo corretto può avere l’effetto di ridurre i costi, a vantaggio non solo degli Stati Uniti e della Cina, ma anche del resto del mondo. In assenza di una gestione globale delle risorse, trovare fonti alternative di approvvigionamento in Paesi come la Birmania, dove la gestione è ancora più lassista che in Cina, non risolve i problemi, ma ne crea solo altri” .
Buona lettura
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La Cina, il più grande inquinatore del mondo? Con il suo fulmineo sviluppo economico alimentato in gran parte dal carbone, la Cina è diventata il maggior emettitore di anidride carbonica al mondo. Ma il gigante asiatico sta invertendo la rotta.
Gli esperti ci parlano della rivoluzione verde cinese: la posta in gioco economica, sociale e ambientale, la necessità di cooperazione con gli Stati Uniti, la cosiddetta trappola del debito per i Paesi del Sud e il cambiamento avviato dalle Nuove Vie della Seta…
Nella transizione globale verso l’energia pulita, la Cina è sia parte del problema che della soluzione
Parte del problema, perché la Cina è di gran lunga il maggior emettitore di anidride carbonica al mondo. Nel 2022, era responsabile di poco più del 30% delle emissioni annuali, rispetto al 13,5% circa del secondo maggior emettitore, gli Stati Uniti d’America.
Se si prendono in considerazione tutti i gas serra, la situazione rimane più o meno la stessa, con la Cina ancora in testa con il 26% e gli Stati Uniti al secondo posto con circa la metà di questo valore. Ma se guardiamo alla storia delle emissioni, il quadro si inverte: gli Stati Uniti sono stati responsabili di circa il 20% di tutte le emissioni di anidride carbonica dal 1850, mentre la Cina è seconda con l’11%.
Allo stesso modo, in termini di emissioni pro capite, la Cina si colloca al secondo posto con un valore che è quasi la metà di quello degli Stati Uniti o della Russia.
Allo stesso tempo, la Cina è stata leader mondiale nella transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili, dove ha acquisito più capacità di qualsiasi altro Paese.
Entro la fine del 2022, si prevede che la Cina avrà installato ben 156 gigawatt di capacità aggiuntiva da turbine eoliche e pannelli solari, ovvero il 25% in più rispetto al record del 2021. In confronto, si prevede che gli Stati Uniti installeranno solo circa 30 gigawatt di energia eolica e solare quest’anno.
Con la continua crescita dell’economia cinese, anche se al momento meno frenetica, cresce anche il suo fabbisogno energetico. Il suo consumo energetico totale è aumentato di quasi il 4% nel 2022 rispetto all’anno precedente.
Da quando la Cina ha assunto i suoi impegni in materia di cambiamento climatico nel 2009, la sua economia è cresciuta di tre volte, ma il suo consumo solo di una volta e mezza.
“La Cina non ha assolutamente disaccoppiato la crescita del PIL dal consumo energetico e dalle emissioni“, sottolinea il giornalista cinese Liu Hongqiao, “ma la tendenza è verso tale disaccoppiamento“.
La Cina è stata anche in prima linea negli accordi internazionali sul clima. Nel 2014, un accordo bilaterale con gli Stati Uniti ha reso possibile il successivo accordo sul clima di Parigi. Più recentemente, la Cina ha sospeso i colloqui sul clima con gli Stati Uniti a causa della sua politica nei confronti di Taiwan, comprese le visite di alto livello del Congresso all’isola.
“Le relazioni governative tra la Cina e gli Stati Uniti sembrano attualmente ai minimi storici“, afferma Jennifer Turner, che dirige il China Environment Forum del Wilson Center. “Ma per quanto riguarda l’ambiente e il clima, la cooperazione fa ormai parte del DNA di entrambi i Paesi“.
Sottolinea la cooperazione a livello sub-nazionale, ad esempio tra la Cina e la California, nonché il gran numero di ONG ambientali statunitensi che lavorano con la Cina.
Tobita Chow, direttore fondatore di Justice Is Global, che ha moderato questa recente conversazione sul futuro della Rivoluzione Verde cinese, è alla ricerca di approcci alternativi alle relazioni tra Stati Uniti e Cina “che vadano oltre la competizione tra grandi potenze, che credo sia pericolosa sotto molti aspetti“.
La cooperazione è un modo promettente per definire una relazione più sana tra Stati Uniti e Cina, ad esempio nel settore dell’energia pulita e della condivisione della tecnologia nel Sud, che potrebbe essere un modo efficace per affrontare l’interazione tra disuguaglianza e cambiamento climatico.
Nell’arco di una sola generazione, la Cina si è trasformata in un gigante economico globale. Ora si trova ad affrontare un compito di dimensioni e urgenza paragonabili.
Entro una generazione, la Cina deve guidare il mondo nel rendere più ecologica la sua enorme economia. Il tempo necessario a Pechino per raggiungere questo obiettivo sarà determinante per la capacità del mondo di evitare che le temperature globali aumentino di oltre 1,5 gradi rispetto ai livelli preindustriali, l’obiettivo fissato dalla comunità internazionale per il 2050 nell’ambito dell’accordo sul clima di Parigi.
Il miracolo della de-carbonizzazione in Cina
Nonostante il suo impegno a sviluppare l’infrastruttura per le energie rinnovabili, la Cina rimane il maggior consumatore di combustibili fossili al mondo, con un consumo doppio rispetto agli Stati Uniti. Inoltre, più della metà dell’energia consumata in Cina proviene dal carbone, che emette il doppio del carbonio nell’atmosfera rispetto al petrolio o al gas naturale.
Eppure, il governo cinese si è impegnato a raggiungere il picco delle emissioni di carbonio entro il 2030 e a diventare neutrale rispetto al carbonio entro il 2060. “Se la Cina raggiunge questi obiettivi“, osserva Liu Hongqiao, “sarà in grado di evitare 0,2 o 0,3 gradi in più di riscaldamento globale. La Cina sta dando il suo contributo, che sia considerato o meno una quota equa“, date le emissioni di carbonio attuali e storiche del Paese.
Il tempo sta per scadere per la Cina. “Rispetto all’UE o agli Stati Uniti, deve raggiungere il picco delle emissioni nei prossimi anni e poi scendere da quel picco fino alla neutralità del carbonio in 30 anni, cosa che gli Stati Uniti e altri Paesi stanno raggiungendo in 70 anni“, aggiunge.
“In realtà, le emissioni della Cina potrebbero raggiungere il picco prima e ad un livello inferiore, evitando così ancora più emissioni nel percorso da quel picco alla neutralità del carbonio“.
Secondo Tabita Chow, la domanda chiave è ancora “se il Paese può passare dal miracolo cinese che ha creato negli ultimi 30 anni a un miracolo di decarbonizzazione nei prossimi 30“.
Per seguire la traiettoria della Cina, Liu ha studiato in dettaglio il consumo energetico cinese. “Stiamo assistendo a un cambiamento fondamentale nella composizione dell’elettricità in Cina“, afferma.
“Per esempio, sappiamo tutti che la Cina si basa molto sul carbone. Ma questo sta cambiando. Il Paese ha ridotto la quota del carbone nel consumo di energia primaria e di elettricità rispettivamente del 15% e del 22% dal 2009. Attualmente, il carbone rappresenta ancora circa il 56% del consumo di energia primaria. Entro il 2025, tuttavia, si prevede che questa quota scenderà a meno del 50%“.
La Cina si è impegnata ad aumentare la quota dei combustibili non fossili – eolico, solare, idroelettrico, biomassa e nucleare – fino all’80% del consumo totale di energia entro il 2060, ma Liu nota che la quota dell’eolico e del solare potrebbe raggiungere il 96% in alcuni scenari sviluppati dai pianificatori dell’Energy Research Institute. L’esito finale potrebbe dipendere tanto dalle province quanto dal governo centrale.
“Le province e le città sono i garanti della decarbonizzazione della Cina“, sottolinea, citando un recente rapporto di Greenpeace. “In alcune delle principali città e province, come Shanghai, Guangdong e Pechino, c’è un forte disaccoppiamento tra PIL ed emissioni. Altri leader, come la provincia di Sichuan, si sono impegnati a vietare la costruzione di nuove centrali elettriche a carbone.
La città di Zhangjiakou, che ha ospitato i Giochi Olimpici Invernali nel 2022, ha una capacità eolica e solare seconda solo ad altre nove città al mondo. Al contrario, il disaccoppiamento del PIL dalle emissioni è relativamente basso nelle province di Tianjin, Hubei, Jiangsu e Anhui“.
La strategia climatica della Cina non riguarda solo la decarbonizzazione. “I progetti del governo cinese in materia di cambiamento climatico sono una leva per cambiare l’intera struttura sociale ed economica del Paese, non solo l’energia“, conclude Liu. “Vuole avviare la Cina su un percorso di decarbonizzazione, ma ancor più su un percorso di sviluppo economico di alta qualità“.
La pressione è arrivata anche dall’opinione pubblica cinese, ad esempio in relazione al controllo dell’inquinamento atmosferico. “Già nel 2007, ci sono state molte proteste di strada e lamentele sui social network per l’inquinamento atmosferico nelle città“, osserva Jennifer Turner.
“Nel 2013, il nord del Paese è stato colpito da diversi episodi atmosferici apocalittici. In quell’anno, la Cina ha dichiarato una guerra all’inquinamento, che ha portato a un miglioramento fenomenale della qualità dell’aria. Affrontare l’inquinamento da carbone e auto ha evidenti benefici sul cambiamento climatico, di cui il Governo è ben consapevole. Quindi le sue misure riguardano l’economia e la crescita economica, ma sono anche nell’interesse della stabilità sociale“.
Il futuro della cooperazione climatica tra Stati Uniti e Cina
Dopo il viaggio della Presidente della Camera Nancy Pelosi a Taiwan nell’agosto 2022, la Cina ha interrotto i colloqui sulla cooperazione climatica. Jennifer Turner rimane speranzosa che questi negoziati bilaterali riprendano: “Le cose stanno ancora accadendo, ma a un ritmo più lento“.
“Sono stata in una buona posizione per 23 anni per vedere come i due Paesi lavorano insieme“, ricorda. “Durante l’amministrazione Obama, sono stati raggiunti sette accordi sull’energia pulita. Il Centro di Ricerca sull’Energia Pulita USA-Cina (CERC) riunisce i rappresentanti dei laboratori nazionali, delle ONG, delle aziende tecnologiche, delle imprese e del governo per lavorare su questioni complesse relative ai veicoli elettrici e alle celle fotovoltaiche, nonché sulle politiche di introduzione delle nuove tecnologie“.
Oltre al livello nazionale, la cooperazione sino-americana esiste anche a livello sub-nazionale. Per anni gli esperti cinesi hanno studiato il programma di veicoli a emissioni zero della California come modello per il proprio programma cinese.
Per quanto riguarda le ONG, la legge cinese che richiede la registrazione delle ONG internazionali ha portato a una riduzione del numero di tali organizzazioni che lavorano nello spazio ambientale. Ma alcune organizzazioni più grandi continuano a operare, con personale prevalentemente cinese.
Allo stesso tempo, le ONG cinesi stanno portando avanti un lavoro importante, tra cui la mappatura dell’inquinamento delle acque dei fiumi. Nel 2017, il governo ha lanciato un appello sui social media per identificare i fiumi inquinati, ma è stata Ma Jun dell’Istituto per gli Affari Pubblici e Ambientali a trasformare le informazioni raccolte in una mappa.
L’organizzazione Green Hunan ha mobilitato e motivato i cittadini a monitorare il fiume Yangtze. L’ONG funge da “orecchie e occhi dell’ufficio locale per la protezione dell’ambiente, che non è in grado di effettuare questo tipo di monitoraggio“, osserva Turner.
Le politiche ambientali statunitensi e cinesi sono talvolta collegate in modo inaspettato. Ad esempio, nel 2018 la Cina ha annunciato che non importerà più rifiuti riciclati da altri Paesi.
“La Cina stava assorbendo metà del mercato globale dei rifiuti riciclati, che utilizzava come materia prima industriale“, spiega Turner. “Il Paese stava soffocando con i propri rifiuti domestici“. In risposta al divieto, “molti Stati e città statunitensi hanno cancellato i loro programmi di riciclaggio“, aggiunge.
“Ma all’inizio di quest’anno la comunità internazionale ha raggiunto un accordo per porre fine all’inquinamento da plastica entro il 2024. Ora gli Stati Uniti e la Cina collaboreranno in uno sforzo internazionale per ridurre uno dei componenti principali della catena di riciclaggio.”
Sono essenziali partnership più esplicite tra i due Paesi, afferma Turner. Sottolinea la necessità di introdurre standard per il litio e le terre rare, che sono componenti chiave per la tecnologia dell’energia pulita, compresi i veicoli elettrici e le turbine eoliche.
Il fabbisogno di litio, soprattutto per le batterie, aumenterà drasticamente nel prossimo decennio, con la sostituzione delle auto a combustione interna tradizionali con veicoli elettrici. La Cina detiene tra il 70 e l’80% della catena di approvvigionamento dei veicoli elettrici e delle batterie agli ioni di litio, mentre rappresenta il 60% della produzione di terre rare.
“Oltre alla normale cooperazione sull’energia e sul cambiamento climatico, c’è anche la questione dell’alimentazione e dell’agricoltura“, afferma Turner. “Cina e Stati Uniti sono due superpotenze globali nella produzione alimentare. E un terzo delle emissioni di gas serra proviene dall’agricoltura e dalla produzione alimentare. Entrambi i Paesi, oltre all’Europa, sono responsabili delle importazioni agricole che portano a emissioni, perdite di biodiversità e minacce socio-culturali“.
Un’altra opzione sarebbe quella di collaborare nell’ambito del principale progetto di sviluppo globale della Cina, l’Iniziativa Belt and Road. Il Presidente cinese Xi Jinping “è impegnato a rendere più verde la Via della Seta“, ha continuato Turner. “Di conseguenza, la Cina ha annunciato la fine degli investimenti all’estero nelle centrali elettriche a carbone“.
Gli Stati Uniti potrebbero competere con la Cina in una “corsa al vertice” nella definizione degli standard globali per lo sviluppo delle infrastrutture.
Oppure, aggiunge Tobita Chow, gli Stati Uniti potrebbero impegnarsi in una partnership diretta con la Cina. Cita la raccomandazione di Rebecca Ray del Global Development Policy Center, secondo cui gli Stati Uniti dovrebbero accettare la proposta cinese di collaborare su progetti di sviluppo specifici.
“Questo permetterebbe agli Stati Uniti di avere voce in capitolo sugli standard che regolano qualsiasi progetto su cui si lavora con la Cina“, osserva.
Definizione degli standard
Sia gli Stati Uniti che la Cina hanno dedicato notevoli energie alla definizione di standard che possano migliorare la qualità dei progetti di sviluppo. Gli Stati Uniti sono stati determinanti nella creazione della Rete Punto Blu, che promuove “investimenti infrastrutturali di qualità che siano aperti e inclusivi, trasparenti, economicamente validi, allineati con l’Accordo di Parigi, finanziariamente, ambientalmente e socialmente sostenibili, nonché conformi agli standard, alle leggi e ai regolamenti internazionali“.
La Cina, nel frattempo, ha sviluppato un “sistema di segnalazione” per garantire che i progetti della Via della Seta riducano i rischi ambientali e contribuiscano allo sforzo di ecologizzazione, con il verde che indica un contributo positivo, il giallo per un intervento neutro e il rosso per un intervento negativo.
“C’è un’urgente necessità di aumentare gli standard ambientali e sociali nell’estrazione delle terre rare e di altri minerali di importanza fondamentale per la transizione verde“, sottolinea Liu. “Ma se si guarda a questo problema nel contesto di una giusta transizione, va ben oltre gli standard ambientali.
In Cina sono state sollevate preoccupazioni sul fatto che le popolazioni locali stiano sacrificando i loro mezzi di sussistenza, l’ambiente e l’acqua potabile per rifornire il resto del mondo e soddisfare la domanda interna di terre rare utilizzate nei prodotti high-tech. Ma questo argomento non è stato preso in considerazione nella controversia dell’OMC quando la Cina ha ridotto la sua quota di esportazione di terre rare.
I tentativi di incorporare tali costi esterni e di aumentare il prezzo delle materie prime sul mercato mondiale sono iniziati solo quando gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno cercato di assicurarsi l’approvvigionamento dai propri territori”.
L’amministrazione Obama ha accusato la Cina presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio di limitare ingiustamente le sue esportazioni di terre rare. Gli Stati Uniti hanno sostenuto che la Cina stava utilizzando le sue quote di esportazione per dare un vantaggio di mercato ai suoi produttori nazionali, che hanno accesso a materie prime più economiche. L’OMC si pronunciò a favore degli Stati Uniti e la Cina ridusse le sue quote di conseguenza.
“Dal 2016, la Cina ha adottato nuovi standard industriali e ambientali per le terre rare e altri minerali e ha rafforzato l’attuazione di questi standard“, ha proseguito Liu. “Tuttavia, il mercato non è sufficiente a soddisfare la domanda interna della Cina, per non parlare della domanda globale”.
Molto preoccupante è la prospettiva che la Birmania e altri Paesi in via di sviluppo assumano il controllo della catena di approvvigionamento delle terre rare. Non si può fare affidamento sul regime militare birmano per far rispettare gli standard ambientali, soprattutto quando l’estrazione mineraria avviene in modo illegale, contro la Costituzione e le leggi locali.
La Cina e gli Stati Uniti hanno quindi un interesse comune nel definire gli standard globali, sia che l’asticella venga alzata dalla loro cooperazione su progetti congiunti, sia che si tratti della competizione per essere il Paese che può promuovere i progetti più puliti.
“La Cina ha guidato la rivoluzione tecnica nello sfruttamento delle terre rare, del cobalto e del litio“, ha aggiunto Liu. “Poiché la Cina è diventata il fulcro della produzione, della lavorazione, della raffinazione e della fabbricazione per trasformare questi minerali in componenti chiave delle tecnologie pulite, detiene la maggior parte dei brevetti in questo settore tecnologico di nicchia molto ricco.
Se la concorrenza con gli Stati Uniti è fatta in modo corretto, può avere l’effetto di ridurre i costi, a vantaggio non solo degli Stati Uniti e della Cina, ma anche del resto del mondo. In assenza di una gestione globale delle risorse, trovare fonti alternative di approvvigionamento in Paesi come la Birmania, dove la gestione è ancora più lassista che in Cina, non risolve i problemi, ma ne crea solo altri“.
La critica comune all’adozione di standard lavorativi e ambientali è che scoraggerà gli investitori stranieri, compresa la Cina. Ma Jennifer Turner osserva che un recente studio sui Paesi della regione andina ha dimostrato che le normative più severe non hanno influito sugli investimenti cinesi.
“La Cina dice che rispetterà le regole dei Paesi ospitanti“, afferma. “Spesso un Paese o una subregione che invita la Cina le dà carta bianca. Ma questa ricerca fornisce argomenti ai governi locali e alla società civile, affinché spingano per un’applicazione più rigorosa nei loro Paesi“.
Allo stesso tempo, le ONG esterne forniscono strumenti alla società civile proprio a questo scopo. Asia Society, ad esempio, ha sviluppato un kit di strumenti per la Via della Seta per aiutare gli attori locali nei loro sforzi di pressione per ottenere standard ambientali e sociali più elevati.
“Non si tratta solo di valutazioni di impatto ambientale“, osserva Turner. “Ci sono diversi meccanismi nell’ambito di un progetto per promuovere la trasparenza e raggiungere altri obiettivi“. Tuttavia, riconosce che l’innalzamento degli standard sulla Via della Seta rappresenta una sfida, perché gran parte del lavoro viene svolto da subappaltatori, come le imprese statali cinesi, che non sono in grado di rendere facilmente ‘verde’ ogni fase della catena di approvvigionamento.
“Nell’ultimo anno o due ci sono state alcune scoperte in questo settore“, aggiunge Liu. “In primo luogo, la Cina si è impegnata a smettere di costruire centrali elettriche a carbone all’estero, anche se questo impegno è stato messo in discussione in alcuni luoghi in cui una centrale a carbone viene pubblicizzata come un ‘progetto di energia pulita’.
Nel frattempo, a marzo, i pianificatori governativi hanno emesso il loro primo consiglio di alto livello per rendere più verde la Via della Seta, evidenziando una dozzina di aree di cooperazione nei trasporti, nell’industria e nelle infrastrutture“.
L’energia idroelettrica rimane una questione controversa. La Cina ha finanziato molte centrali idroelettriche nel Delta del Mekong e in Africa, ma sono state costruite molto prima del lancio della Nuova Via della Seta nel 2010. Oggi, nel contesto della Via della Seta, l’energia idroelettrica è ancora vista come parte della cooperazione energetica verde.
“Sono stato coinvolto nella valutazione dell’impatto ambientale e sociale del progetto idroelettrico di un’azienda cinese nell’Azad Kashmir“, continua Liu. “Le aziende cinesi stanno conducendo tali valutazioni, non solo sul sito stesso, ma sempre più spesso nel bacino fluviale. Gli standard di protezione ambientale e sociale possono essere ulteriormente migliorati? Senza dubbio. E va notato che la marea sta cambiando.
I progetti di infrastrutture energetiche su larga scala, come le tradizionali centrali elettriche a carbone – e persino le centrali elettriche a gas e le dighe giganti – non sono più al centro degli investimenti cinesi all’estero. Le energie pulite come l’eolico e il solare stanno diventando le prossime grandi priorità della Via della Seta Verde“.
Il ruolo dell’Europa
Sebbene la Cina abbia sospeso i colloqui sul clima con gli Stati Uniti, tali colloqui proseguono con l’Europa. “Non ho sentito dire che sono state chiuse ufficialmente le porte agli europei, a differenza di quanto è accaduto, spero temporaneamente, con gli Stati Uniti”, afferma Turner.
A febbraio, la Francia è stata il primo Paese a firmare un accordo intergovernativo di infrastrutture di terzi con la Cina, che prevede la costruzione di sette progetti per un valore di 1,9 miliardi di dollari in Africa, Sud-est asiatico ed Europa orientale. La Cina ha accordi di investimento separati con diversi Paesi dell’Europa orientale.
“Rispetto agli Stati Uniti, l’Europa è percepita come relativamente meno ostile alla cooperazione climatica, non solo dai politici cinesi, ma anche dalla società civile e dal pubblico in generale“, sottolinea Liu.
“Per la maggior parte del tempo, l’Europa non è vista come se stesse spingendo in modo aggressivo la Cina a fare questo o quello, mentre gli Stati Uniti sono visti come se stessero ‘facendo pressione’ sulla Cina per agire su molte questioni. In effetti, l’Europa è vista come un mediatore nel conflitto bipolare. Sta portando avanti le questioni climatiche senza creare una posizione triangolare nella diplomazia climatica. C’è meno concorrenza nel campo delle tecnologie pulite. Ci sono meno guerre commerciali iniziate dall’UE che dagli Stati Uniti“.
Ma questo sta cambiando, aggiunge. “Una proposta per vietare il lavoro forzato sarà discussa a breve. L’anno scorso gli Stati Uniti e l’Europa hanno imposto sanzioni sullo Xinjiang, che hanno avuto un impatto sulla cooperazione climatica“. Sono emerse altre tensioni.
A settembre, l’inviato cinese per il clima, Xie Zhenhua, ha criticato l’Europa per aver fatto marcia indietro rispetto agli impegni assunti a Parigi, aumentando l’uso del carbone per compensare la riduzione delle importazioni di petrolio e gas russo.
La guerra in Ucraina ha effettivamente introdotto una nuova dinamica nelle relazioni della Cina con la Russia, l’Europa e gli Stati Uniti. La Cina importa una grande quantità di energia dalla Russia: circa il 15% del petrolio e del carbone, oltre a gran parte del gas naturale. Questi acquisti hanno raggiunto un picco durante l’estate, quando le vendite russe in Europa sono diminuite e il Cremlino ha tagliato i prezzi.
Pechino ha anche finanziato diversi progetti energetici in Russia come parte della Via della Seta – compresa una partecipazione importante nel progetto di gas naturale liquefatto Yamal, l’impianto di gas più settentrionale del mondo.
Ma il fabbisogno energetico complessivo della Cina è diminuito anche a causa del rallentamento della crescita economica nell’ultimo anno. “Le importazioni di combustibili fossili in Cina sono diminuite in modo significativo tra gennaio e agosto di quest’anno“, osserva Liu.
“Allo stesso tempo, la Cina sta aumentando la produzione interna di carbone, petrolio e gas per compensare le importazioni. Per la Cina, la sicurezza energetica consiste nel diventare il più indipendente possibile in questo settore: tenere la ciotola di riso dell’approvvigionamento energetico nelle proprie mani, come ha detto Xi Jinping lo scorso anno.
La dipendenza della Cina dalla Russia per l’energia è molto bassa rispetto a quella dei Paesi europei. Ad esempio, il 70% del gas naturale della Germania proviene dalla Russia, mentre la Cina ha diversificato le sue importazioni di combustibili fossili, che provengono da decine di Paesi”.
Circondare la Cina
È di moda affermare che la Cina è il grande sprecone dell’ambiente, che è il più grande emettitore di carbonio al mondo, che continua a dipendere pesantemente dalla fonte energetica più inquinante, il carbone, e che costruisce e finanzia enormi progetti ad alta intensità energetica in tutto il mondo.
Ma la Cina viene spesso incolpata di cose di cui l’Occidente è colpevole. “Gli Stati Uniti hanno costruito grandi dighe in passato“, afferma Jennifer Turner. “Anche la Banca Mondiale lo ha fatto. Non lo facciamo più, ma la Cina ha utilizzato il modello statunitense per la costruzione di impianti idroelettrici. Gli esperti del governo statunitense hanno aiutato a scegliere il sito della Diga delle Tre Gole, prima di decidere di non essere coinvolti.
Liu Hongqiao solleva la questione della “trappola del debito”, un’affermazione secondo la quale la Cina presta denaro ad altri Paesi con l’intenzione di rilevare i progetti finanziati, come i porti, quando il governo beneficiario non è in grado di rimborsare i prestiti.
“Molti studi hanno confermato che questa ‘trappola del debito’ è un mito“, osserva. “Inoltre, il finanziamento dello sviluppo cinese è guidato dalla domanda. Se le banche di sviluppo cinesi non prestassero denaro, lo farebbero altre banche e istituzioni finanziarie.
La differenza è che le istituzioni finanziarie statali cinesi concedono prestiti a tassi di interesse più bassi rispetto alle banche commerciali occidentali e alla Banca Mondiale. Inoltre, operano in aree ad alto rischio, dove altre istituzioni finanziarie si rifiutano di correre il rischio. Quando si tratta di finanziare il carbone all’estero, le istituzioni finanziarie statali cinesi svolgono un ruolo limitato, anche se la Cina è il maggior creditore bilaterale”.
Come riferisce Tobita Chow, alle organizzazioni che lavorano alla riduzione del debito “viene regolarmente detto che il problema è la Cina“. “Questo è diventato persino una scusa per gli attori occidentali per bloccare i progressi sulla questione. In molti casi, i Paesi che si presume siano intrappolati dalla Cina sono molto più indebitati con le banche occidentali e altri creditori privati“.
I Paesi africani devono ai creditori occidentali il triplo di quanto devono alla Cina, con interessi doppi, secondo un rapporto di quest’anno di Debt Justice.
La politicizzazione di queste storie ha l’effetto di distogliere l’attenzione da molte questioni critiche, continua Liu. “Sentiamo dire che la Cina controlla, domina e strumentalizza la catena di approvvigionamento delle materie prime critiche“, osserva.
“Ma non si sente molto parlare di come migliorare e aumentare la catena di valore delle terre rare o di altre materie prime, in modo che i Paesi in cui si trovano queste risorse – come la Cina nel caso delle terre rare o la Repubblica Democratica del Congo nel caso del cobalto – possano beneficiare della nascente industria dell’energia pulita, aumentando la catena di valore“.
“Come rispondiamo alla narrativa prevalente secondo cui la Cina non è un partner affidabile sul clima?“, chiede Chow.
“Si tratta di un argomento superato“, risponde Turner. “Sì, la Cina potrebbe probabilmente muoversi più velocemente sulle energie rinnovabili. Sì, c’è un leggero slittamento dovuto al fatto che la Cina ha costruito più centrali elettriche a carbone a causa dei recenti blackout. Ma con almeno la metà delle centrali elettriche a carbone esistenti non utilizzate o utilizzate molto poco, si è trattato soprattutto di una mossa politica“.
“Alcuni impianti a carbone già in pista e per i quali erano stati completati gli studi preliminari sono stati approvati di recente, ma l’attuale flotta di impianti a carbone sta operando al 50 percento della sua capacità di utilizzo pianificata“, ammette Liu.
“I progettisti della transizione energetica cinese ritengono che la giovane flotta di centrali elettriche a carbone del Paese, che ha un’età media di 15-16 anni, rimarrà in funzione per molto tempo. Quindi, perché non utilizzarli per garantire una maggiore stabilità della rete e migliorare l’efficienza energetica, riducendo i livelli di emissioni e diminuendo le ore di funzionamento?
La ragione alla base della controversa strategia cinese del ‘carbone pulito’ per la sua transizione energetica non è ben compresa, mentre il mondo si sforza di eliminare gradualmente l’uso del carbone. Il trend, tuttavia, dà motivo di ottimismo sul fatto che l’uso del carbone raggiungerà il picco nel prossimo futuro, se non l’ha già fatto. La Cina è sulla buona strada per raggiungere questo obiettivo ben prima della scadenza del 2030“.
“Prendiamo l’esempio dei pannelli solari“, aggiunge Turner. “La Cina ha inondato il mondo di pannelli solari a basso costo. Alcuni si sono lamentati del fatto che il loro prezzo basso fosse inteso come una sotto-quotazione dei produttori statunitensi. Ma questi pannelli economici hanno contribuito alla transizione globale verso l’energia pulita. Inoltre, gli studi hanno dimostrato che il 75% dei posti di lavoro viene impiegato quando l’energia pulita è già presente, quindi non importa chi lo fa“.
Ma ciò che finalmente mette in dubbio la leggenda dell’inaffidabilità della Cina sono gli interessi concreti che stanno dietro agli impegni climatici dei suoi leader.
“Uno dei fattori citati da Jennifer è l’aumento delle proteste contro l’inquinamento in Cina“, osserva Tobita Chow. “Come una delle priorità del governo è quella di mantenere la stabilità sociale; un modo per farlo è quello di allontanarsi dalle industrie inquinanti. Hongqiao ha detto che il passaggio alle energie rinnovabili è una strategia per aumentare la sicurezza energetica della Cina.”
Un terzo fattore motivante è che la Cina vede l’opportunità di costruire un “soft power” posizionandosi in prima linea nella lotta al clima. Durante la presidenza di Trump, la Cina ha fatto un passo avanti significativo quando è diventato chiaro che gli Stati Uniti non erano più un leader affidabile. Questa è stata un’opportunità per la Cina di prendere il sopravvento, soprattutto nel Sud globale.
* direttore di Foreign Policy In Focus
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Andrea Bo
A parte la generale intonazione all’auspicio della collaborazione fra Cina e USA (lascia un po’… perplessi leggere di un loro “futuro della cooperazione climatica “), di “dati di fatto” nell’articolo tradotto non si trovano quelli giusti (tanto meno “con dovizia”…): mancano produzioni e fabbisogni elettrici in particolare ed energetici in generale, che siano attuali, in previsione o in programmazione: ma, come ormai d’abitudine in queste narrazioni, i numeri assoluti riportati riguardano solo dati di potenza installata, dimenticando che una centrale fotovoltaica di mille miliardi di terawatt di POTENZA, quando è al buio non produce mezzo wattora di ENERGIA.
Prendiamo ad esempio la Germania che, fra fotovoltaico ed eolico, ha una potenza installata nettamente superiore al picco di potenza della domanda elettrica nazionale, ma va al tracollo senza il gas naturale (e il carbone), come risultato del “capolavoro” della ventennale Energiewende della Merkel e dei Verdi, e che si trova ora spinta nell’abbraccio mortale del gas di shale americano, come l’Italia. E forse non per caso.
D’altronde, il fatto che anche la Cina, il cui sviluppo è anche più recente di quello “atlantico”, nonostante il suo “impegno a sviluppare l’infrastruttura per le energie rinnovabili”, rimane “il maggior consumatore di combustibili fossili al mondo” significa che non si può sperare di poter riconvertire in vent’anni un’impostazione infrastrutturale generalizzata che comincia a contarsi sull’ordine di grandezza dei secoli: giusto Von der Leyen e soci possono credere a una favola del genere.
E’ molto… “atlantico” continuare poi a parlare di energie “pulite” e “rinnovabili”, che sono tali solo per chi, in campagna elettorale o sugli spot televisivi, si fa riprendere sullo sfondo di sfavillanti impianti fotovoltaici e candide turbine eoliche, e per chi abbocca. Di pulito c’è solo il risultato, come possono essere pulite una Jaguar o una Tesla appena uscite dall’autolavaggio, ma l’infrastruttura è molto poco “rinnovabile”, e a costi energetici e ambientali che non è bello nascondere sotto il tappeto, così come le conseguenze degli approvvigionamenti delle materie prime, anche solo destinate al problema dello stoccaggio dell’energia elettrica, appena accennate dall’articolo tradotto. Articolo che, diciamolo, o è stato tradotto in modo un po’ approssimativo, o è proprio dozzinale di suo: scrivere (e leggere) che “in termini di emissioni pro capite, la Cina si colloca al secondo posto con un valore che è quasi la metà di quello degli Stati Uniti o della Russia” fa a cazzotti con l’aritmetica: un valore che è “quasi la metà” di altri due deve essere inferiore a entrambi. E non può quindi essere “al secondo posto”.