Qualche giorno fa, sul Financial Times, è uscito un articolo a firma di Adam Tooze, storico dell’economia inglese e docente presso la Columbia University di New York. Non uno sprovveduto, insomma, quando si parla di valutare l’andamento dei processi storici.
Già nelle prime frasi del suo pezzo, Tooze si chiede cosa succederebbe se non si desse più spazio alla guerra commerciale portata avanti dall’Occidente contro l’industria verde cinese, preoccupato dal fatto che tale rivoluzione sembri meno solida di quanto si pensi. La sua disamina riguarda tanto la Cina, quanto le due sponde del polo euroatlantico.
A suo avviso, le ultime elezioni europee, insieme a uno spostamento a destra del quadro politico del continente, hanno segnato anche una minore attenzione alle politiche green. Trump ha direttamente promesso di eliminare i sussidi per la transizione energetica.
Ma Tooze ribadisce che anche il quadro delineato dall’Inflation Reduction Act di Biden può trasformarsi facilmente in greenwashing. Ad esempio, esso potrebbe essere usato per sovvenzionare ‘l’idrogeno sporco’, ovvero quello prodotto dalla scomposizione di combustibili fossili.
Il vero ruolo di guida nella lotta alla crisi ambientale è ormai assunto dalla Cina. Essa produce più emissioni di USA e UE messi assieme, ma anche i suoi investimenti in energia verde sono maggiori a quelli di Washington e Bruxelles sommati.
Essi “sono i primi a raggiungere la scala in cui iniziano a trasformare il panorama economico nel suo complesso. Nel 2023, secondo i calcoli del think tank CREA, gli investimenti in energia verde sono stati il principale motore della crescita economica cinese”.
Nella primavera del 2025 Pechino dovrà formulare i suoi impegni per la decarbonizzazione, all’interno dello schema previsto dagli accordi di Parigi sul clima. L’Agenzia Nazionale per l’Energia della Cina prevede però un ritmo della riconversione ecologica assai più lento rispetto agli scorsi anni.
Uno dei motivi è proprio il poco coordinamento sugli investimenti stessi e la battaglia dei prezzi, portata avanti anche a forza di dazi e sanzioni. Tooze sottolinea che così si crea un concreto impedimento alle opportunità che abbiamo di evitare il disastro globale.
Lo storico si spinge oltre, e afferma come ragionare in termini di equilibrio, in questo caso, “equivale a una forma soft di negazionismo climatico”. In poche parole, se la politica e la produzione cinesi stanno facendo di più e meglio dell’Occidente per combattere la crisi ambientale, pensare ai bilanci delle aziende europee e statunitensi è negare l’urgenza di tale crisi.
Di nuovo, a dimostrazione dell’insanabile contraddizione tra capitale e natura, tra il profitto e la tutela del pianeta. Non un affare che si possa risolvere nel giro dei prossimi 12 mesi, ma certamente qualcosa di cui prendere atto se non si vuole essere sicuri che questo sistema sociale e produttivo ci porti all’estinzione.
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