Originario della città di Nazareth, nel 1982 Suleiman si trasferì a New York per girare alcuni cortometraggi, il più noto dei quali è Homage by Assassination (1991) sulla prima Guerra del Golfo. Divenuto docente di cinema nell’Università Birzeit di Gerusalemme, nel 1996 Suleiman diresse il primo lungometraggio, Cronaca di una sparizione, premiato come migliore Opera Prima alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Nel 2000 ha diretto il cortometraggio Cyber-Palestina, rivisitazione in chiave moderna del viaggio di Maria e Giuseppe a Betlemme attraverso una sempre più assediata Striscia di Gaza. La notorietà a livello internazionale del regista palestinese è giunta però con il film Intervento divino. Cronaca d’amore e di dolore, ambientato al checkpoint tra Nazaret e Ramallah e interpretato dallo stesso Suleiman (Gran Premio della Giuria 2002 a Cannes). L’ultimo lungometraggio, Il tempo che rimane, è stato presentato alla fine del 2010: interpretato ancora una volta dal regista, narra la storia di Fuad, membro della resistenza palestinese sin dalla creazione dello stato d’Israele nel 1948, e della sua difficile relazione con il figlio. Un’opera in buona parte autobiografica che pone ancora una volta l’accento sulle tragedie del popolo palestinese sotto l’occupazione israeliana, che ha consacrato Elia Suleiman come uno dei migliori cineasti mediorientali odierni.
Più che meritato pertanto il riconoscimento dell’importante kermesse cinematografica siciliana, peccato però che il Roma Mediterraneo Award sia un premio-invenzione di una fondazione assai poco brillante per “dialogo” o “interculturalità” ma che però si è imposta come “principale sponsor” della manifestazione accanto ad enti locali e Regione Siciliana. Costola della “Fondazione Roma” (ex Fondazione Cassa di Risparmio di Roma, azionista di riferimento del colosso bancario Unicredit), la Fondazione Roma Mediterraneo è stata istituita nel 2008 dal professore e avvocato Emmanuele Francesco Maria Emanuele, storico presidente della fondazione bancaria madre. Di origini palermitane, Emanuele ha ricoperto prestigiosi incarichi nei maggiori gruppi bancari, finanziari e industriali nazionali, collezionando contestualmente titoli e riconoscimenti cavallereschi e nobiliari (barone di Culcasi, gentiluomo di Sua Santità il Papa, cavaliere dell’Ordine del Santo Sepolcro di Gerusalemme, consigliere economico del Sacro Militare Ordine Costantiniano di San Giorgio, ecc.). Il professore-avvocato è pure “Signore della Grande Holding del Ponte”, lobby che accoglie i sostenitori della realizzazione del collegamento stabile in acciaio e cemento tra le sponde della Calabria e la Sicilia. Emmanuele Emanuele, in particolare, ha fatto parte del Consiglio di amministrazione della Società Stretto di Messina S.p.A., la concessionaria pubblica per la costruzione del Ponte. A riprova della spiccata sensibilità pontista della fondazione-sponsor del CineFestival di Taormina, va pure ricordato il doppio ruolo del cavaliere del lavoro Ercole Pietro Pellicanò, membro del Cda della società fautrice del Mostro sullo Stretto e consigliere della Roma Mediterraneo.
Ma a rendere pesante come un macigno il premio al “dialogo interculturale” attribuito al regista palestinese Suleiman, è tuttavia la presenza tra i membri del Comitato scientifico d’onore della fondazione, dell’ex ambasciatore d’Israele in Italia Avi Pazner, consigliere personale del primo ministro Yitzhak Shamir nella seconda metà degli anni ’80 e portavoce ufficiale di altri governi israeliani ultranazionalisti (l’ultimo in ordine quello di Ehud Olmert, maggio 2006 – gennaio 2009, passato alla storia per aver condotto la tragica guerra dei 34 giorni in Libano e l’operazione “Piombo Fuso” a Gaza).
Alto funzionario del ministero degli Esteri sin dal 1966, Avi Panzer esordì come diplomatico prima in Africa e poi a Washington. Nel luglio 1991, l’amico Shamir lo volle a capo dell’ambasciata israeliana a Roma, in uno dei momenti chiave della storia delle relazioni Israele-Italia. Conclusasi la prima Guerra del Golfo, Tel Aviv puntava a rafforzare il dialogo con l’allora presidente del Consiglio Andreotti, sempre più distante dall’approccio filo-palestinese che aveva contraddistinto sino ad allora la politica italiana in Medio Oriente. Panzer ricoprì l’incarico a Roma sino al 1995 contribuendo in particolare allo stabilimento di relazioni diplomatiche ufficiali tra Israele e il Vaticano. “Durante quegli anni – ha ricordato in un’intervista – l’Italia ebbe cinque diversi primi ministri: Giuliano Amato, Giulio Andreotti, Azeglio Ciampi, Lamberto Dini e Silvio Berlusconi. Il loro atteggiamento verso Israele fu assai differente. Il socialista Amato fu il meno amichevole, mentre Berlusconi era ed è il più disponibile verso Israele”. Pazner è tornato a tessere le lodi dell’Uomo di Arcore in occasione del suo viaggio ufficiale a Gerusalemme del febbraio 2010. “Questa è la visita del nostro grande amico europeo”, ha esordito l’ex ambasciatore. “Berlusconi è figura unica nel panorama dei primi ministri italiani del dopoguerra e parlerà davanti alla Knesset, un onore che è stato riservato a pochi negli ultimi anni: Bush, Sarkozy, Angela Merkel”. Missione da piazzista d’armi quella di Silvio B. in terra santa. “Il premier italiano dovrebbe fare pressione sul ministro della difesa Barak perché Israele acquisti l’M-346, aereo militare di fabbricazione italiana, al posto del coreano T-50”, segnalarono al tempo i quotidiani israeliani. “La scelta del velivolo italiano da parte dell’aeronautica israeliana potrebbe aprire le porte ad ulteriori vendite internazionali”.
Il potente diplomatico-consigliere stima però anche alcuni (ex) leader del centro-sinistra italiano, come ad esempio il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano o l’ex segretario del Pci Achille Occhetto. Tra gli “amici” c’è pure l’inossidabile manager pubblico e privato Giancarlo Elia Valori, già massone della loggia “Romagnosi” del Grande Oriente d’Italia, transitato nel 1973 nella più nota “Propaganda P2” da cui fu poi espulso dal Venerabile Licio Gelli. In occasione della recente presentazione a Tel Aviv del suo libro “Ben Gurion e la nascita dello Stato d’Israele”, Giancarlo Elia Valori ha avuto gradito ospite-relatore, tra gli altri, proprio Avi Pazner.
Abbandonata definitivamente la carriera diplomatica, nel 1998 il consigliere scientifico della Fondazione Roma Mediterraneo è stato eletto presidente mondiale del Keren Hayesod – United Israel Appeal (letteralmente “Fondo per le fondamenta”), una delle agenzie ebraiche fondate in occasione del Primo congresso mondiale Sionista (1920) per agevolare l’immigrazione degli ebrei nei territori della Palestina e che oggi raccoglie i fondi per “sostenere” lo Stato di Israele e i progetti di nuovi insediamenti di coloni. Keren Hayesod è particolarmente attiva anche in Italia con l’organizzazione di eventi culturali, dibattiti e conferenze, una delle quali (marzo 2004), ha visto la partecipazione del controverso giornalista statunitense Michael Leeden. Membro dell’ultraconservatore American Enterprise Insitute, Leeden è stato consulente del servizio segreto militare italiano SISMI, intervenendo con più di un’ombra su alcune delle vicende più inquietanti della Repubblica italiana (il sequestro di Aldo Moro, il Dc-9 esploso su Ustica, l’ascesa della P2, ecc.) e finanche nello scandalo della triangolazione di armi USA a favore dell’Iran e della Contra nicaraguese a metà anni ‘80.
Anche Avi Pazner non nasconde una certa predisposizione per i canali della diplomazia parallela. “Della notte nel gennaio 1991 in cui scoppiò la Guerra del Golfo, ricordo la tensione ed una telefonata, alle 11 di sera, di un amico francese, un alto funzionario di Parigi, che mi avvisò che l’attacco era questione di 2-3 ore al massimo”, racconta l’ex ambasciatore. “Avvisai Shamir, che mise in stato di massima allerta le forze armate. Il Pentagono si fece vivo solo venti minuti prima che la Cnn trasmettesse il bombardamento su Baghdad”. “Eravamo certi di un attacco su Israele di Saddam Hussein”, aggiunge Pazner. “Il primo missile Scud arrivò esattamente 24 ore dopo l’attacco alleato. In quelle prime ore Shamir e gran parte del governo erano determinati all’attacco di rappresaglia, avevamo diritto di replicare, avevamo la capacità di colpire duro. Bush chiamò più volte Shamir e lo persuase a non reagire…”. A che tipo di risposta si stesse pensando è lo stesso Pazner a spiegarlo con un’intervista a Il Tempo di Roma, il 27 ottobre 2001. In pieno clima “post 11 settembre”, il diplomatico fece sapere che contro gli estremisti islamici “Israele si prepara a combattere una guerra non convenzionale, batterica, chimica o nucleare che sia…”.
Due mesi dopo, nella fase più cruenta del conflitto scatenato da Israele in Cisgiordania, mentre i caccia e gli elicotteri bombardavano gli uffici di Yesser Arafat a Ramallah, Pazner, in qualità di portavoce del governo, spiegava che “l’obiettivo è la guerra al terrorismo”. “Arafat ne ha fatto un cinico uso strategico, e benché Sharon non lo abbia definito un terrorista, è chiaro che egli ha sostenuto e protetto le organizzazioni terroriste”, aggiungeva. “Arafat fa parte del problema terrorista che ha preso dimensioni gigantesche, insopportabili. E quindi gli attacchi di queste ore sono volti a segnalare che le sue organizzazioni sono parte del terrore…”.
L’ex ambasciatore ha le idee chiare su come imporre le “trattative” e la “pace” agli odierni rappresentanti del popolo palestinese. “Alcune delle richieste della Comunità internazionale sono inaccettabili”, spiega Pazner. “Si chiede il ritiro di Israele entro le frontiere del giugno 1967, ma noi non crediamo che quelle linee di armistizio, decise nel 1949 alla fine della guerra di indipendenza, siano qualcosa di sacro. Non sono confini internazionalmente riconosciuti, e ciò fa decadere le pretese suddette. Crediamo invece che potremo raggiungere una configurazione di confini per via di negoziati con i nostri vicini arabi attraverso degli scambi di territori sulla base dei cambiamenti demografici avvenuti negli ultimi 44 anni”. Inaccettabile infine qualsiasi ipotesi di ritorno in Israele dei profughi palestinesi espulsi dopo il 1947. “A queste richieste tutto il popolo israeliano dice concordemente no. Se questi arabi vorranno, potranno tornare nel futuro Stato palestinese, ma non potremo mai accettare che milioni di arabi trasformino Israele in un secondo Stato palestinese. A loro non sarà mai concesso di tornare…”.
Bellicismo, cinismo e negazione del “dialogo interculturale” raggiungono l’apoteosi con le dichiarazioni rilasciate subito dopo il sanguinoso assalto della marina israeliana contro il convoglio Freedom Flotilla che si stava dirigendo verso la Striscia di Gaza (19 morti e 26 feriti). “Noi abbiamo provato a fermarli, abbiamo provato a farli venire nel porto di Ahsdot per poi trasferire gli aiuti umanitari a Gaza”, ha dichiarato Avi Panzer, ancora una volta portavoce del governo. “Ma non hanno voluto. Non volevano entrare in acque israeliane, non erano interessati agli aiuti umanitari, erano interessati alla provocazione. Ma non potevamo immaginare che fosse una provocazione armata. Hanno ferito dieci dei nostri soldati. E i nostri soldati hanno dovuto difendersi. Noi non permetteremo che nessuna nave arrivi a Gaza senza che venga esaminata…”.
Totale dissenso nei confronti degli organizzatori del Festival del Cinema di Taormina per l’“imbarazzante partnership” con la Fondazione Roma Mediterraneo è stato espresso dalla rete No Ponte che ha contestualmente chiesto ad Elia Suleiman di rifiutare il Premio Award per il Dialogo tra le Culture. “Il 14 maggio 2011 – scrivono in una lettera aperta al regista palestinese – abbiamo sfilato per l’ennesima volta per le vie del centro di Messina per ribadire il nostro No alla costruzione del Ponte sullo Stretto, espressione di una politica di sperpero di risorse pubbliche per opere inutili e devastanti dal punto di vista ambientale. Sul camion che trasportava il nostro impianto d’amplificazione abbiamo esposto una bandiera della Palestina con la frase Restiamo umani. Era il titolo del blog di Vittorio Arrigoni, il pacifista-reporter difensore del popolo palestinese, ucciso a Gaza. Abbiamo voluto legare, in tal modo, idealmente, la nostra resistenza alla devastazione del territorio di cui è espressione il Ponte con la resistenza di chi mette in pericolo la propria vita per la difesa di una popolazione che vive sotto assedio”. Un popolo, quello palestinese, che del premio di Emanuele e Pazner preferirebbe farne a meno.
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