Michel: mi domandavo, che cosa avremmo pensato di noi seduti così qua su una terrazza, te l’immagini trent’anni fa passare per la strada alzare la testa vedere due ultracinquantenni con l’aria placida che bevono alla finestra, che cosa avremmo pensato di loro?
Marie Claire: Che erano dei piccolo borghesi”
Michel: siamo dei borghesi, andiamo al mare tutte le domeniche, possediamo una casa, guardiamo la televisione
Marie Claire: siamo borghesi, ma non troppo. Credo che ci saremmo detti, hanno l’aria felice, non devono aver fatto mai soffrire nessuno, non devono essere mai stati indifferenti verso gli altri.
La borghesia è semplicemente quella parte di popolo che è contenta, scriveva Victor Hugo ne I Miserabili, ed è da La povera gente di Hugo che Guédiguian parte per raccontare una lotta di classe che è diventata la lotta nella stessa classe, la guerra tra poveri, il moderno homo homini lupus.
Il regista Robert Guédiguian, figlio di immigrati (di padre armeno e madre tedesca) è un cantore del proletariato, degli operai di Marsiglia e il suo cinema parla una lingua di sacrifici, di lotte, di traguardi ma anche di contraddizioni. Da qui parte questo film, semplice solo apparentemente.
Tutto inizia nel porto di Marsiglia, dove il sindacalista Michel Marteron sta estraendo a sorte i nomi degli operai che andranno in cassa integrazione: il compromesso scelto dalla Cgt per tentare di salvaguardare l’occupazione attraverso la casualità della scelta, il sorteggio che è fatale nel senso più etimologico del termine. Michel rinuncia al privilegio di escludere il suo nome dalla lista e perde il posto con altri 19 compagni, giovani e meno giovani, poveri e più poveri ancora.
Ha una casa Michel, una moglie compagna di vita e di intensa attività politica, due figli e tre nipoti. Michel ha il volto nostalgico di Jean-Pierre Darroussin che perfettamente incarna la contraddizione di chi ha lottato per sé ma si rende conto, improvvisamente e non senza dolore, che non riesce a lottare per un mondo trasformato.
La litania dei giorni di prepensionamento di Michel, ormai privo del suo ruolo sociale e l’umile benessere di tutta la famiglia Marteron vengono turbati da una rapina: due giovani incappucciati rubano i loro risparmi dopo averli picchiati brutalmente.
E’ qui che inizia il racconto della nuova classe operaia e della nuova, conseguente e inedita lotta di classe.
Il derubato è il sindacalista convinto, cresciuto nel mito di Jean Jaurés (martire e padre della socialdemocrazia francese) che coltiva grandi ideali e passioni romantiche (come il fumetto de L’uomo ragno, memento di cosa sia la giustizia, anche da bambini e di come i bambini diventino, in questo film, la sola possibile riparazione) e il ladro è uno dei giovani precari estratti a sorte, Christophe, figlio di madre irresponsabile e assente, che deve crescere due fratelli, senza un lavoro, senza ammortizzatori sociali, senza l’intellettuale collettivo.
Questo dice Guédiguian: nella tragicità di una classe operaia che non si riconosce più come una classe, nel paradosso di un vecchio operaio che vive la contraddizione di essere diventato “piccolo borghese” tra la gita domenicale e il barbecue nella casa di proprietà, entra dirompente la crisi di un’epoca che ha reso gli ultimi, i poveri, una classe che non rivendica perché non può combattere e non può combattere perché non è difesa né rappresentata.
Di lì il dubbio.
Ciò che ha condotto i Marteron a rendere la sicurezza raggiunta coerente con i propri ideali sociali termina laddove il colpevole apre una questione morale: punire o meno il compagno-che-ha-sbagliato o interpretare il suo gesto come un gesto di rivolta disperata – forse l’unico possibile – di chi, povero tra i poveri, è reso invisibile dallo spirito del tempo? (lo dice il volto instancabile di Marie Claire a Raul, compagno di lotta e di cantiere di Michel, che si scopre moralista, reazionario e vendicativo: Voglio capire, Raoul, voglio capire perché è successo)
Le nevi del Kilimangiaro racconta le utopie smarrite e lo fa con il coraggio di usare parole che oggi fanno paura: macchina, operaio, privilegio ma soprattutto Padrone (la fabbrica che licenzia ma pure la figlia dell’anziana e sola signora cui Marie Claire fa da badante) con la precisa e attenta formazione culturale tipica di un paese, la Francia, che dimostra di non avere timore di osservarsi e guardarsi indietro.
Guédiguian non giudica alcuno dei suoi personaggi, la sua regia scompare dietro al dipanarsi di una storia che si muove per dialoghi, spinosi e mai abbandonati a un marxismo nostalgico e di maniera.
La riflessione moderna si sposta piuttosto sul dramma esistenziale di chi non si riconosce più nelle parole d’ordine che hanno caratterizzato un’intera vita e si rende conto che i costi sociali di un’apparente agiatezza economica sono stati costruiti sulle spalle dei miseri tra i miseri, che non possono essere salvati neppure da una comunità solidale che non esiste più.
Guédiguian, dicevamo, scompare dietro la sua macchina da presa che non è affatto banale o didascalica, scruta gli angoli del conflitto sociale, seminando il testo filmico di simboli e richiami: primo fra tutti la macchina, il porto imponente e onnipresente. La macchina che dà lavoro, ruolo sociale e dignità. Che scandisce lo scorrere del tempo in città operaie come Marsiglia. Che al contempo rende poveri, e taglia in due una classe che non sa più di essere tale.
La macchina di cui parla Michel mentre si allontana dal cantiere dopo il suo ultimo giorno di lavoro, “la macchina al servizio comune dei lavoratori liberati” ripete tra sé e sé, come a futura memoria di un passato che non ha più strumenti per tradurre in diritti le ingiustizie del presente interinale – “abbiamo combattuto anche per loro e ci odiano perché abbiamo una casa?” si chiede Raoul con rabbia ingenua e inconsapevole.
Un film coraggioso che dice molto anche del nostro cinema, incapace di guardare la pancia del paese che rappresenta.
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maria timpano
Guediguian è un autore che seguo da molto tempo e che con i suoi film ha suscitato riflessioni su temi veramente interessanti. Insieme a Ken Loach rappresenta l’ultimo cantore della classe operaia. Non ho ancora visto Le nevi del Kilimangiaro. Provvederò quanto prima.