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Un sogno chiamato rivoluzione

(Nova Delphi editore, 2012; € 16,00; pp. 268)

I resti di una famiglia ebrea russa massacrata dagli sgherri dello Zar, incontra e si intreccia, sulla via dell’emigrazione verso gli Stati Uniti, con una famiglia cattolica irlandese. È questo il meccanismo che dà, al romanzo storico di Filippo Manganaro, il connotato più efficace ed al lettore il messaggio inequivocabile che la via della pace è perseguibile solo attraverso la comprensione delle diversità, spesso inesistenti e costruite a tavolino. Tuttavia il racconto è arricchito da tanti di quegli eventi che hanno caratterizzato il “secolo breve”, quel Novecento che, nel bene e nel male ci siamo messi alle spalle dal punto di vista temporale ma che ancora mantiene i suoi tentacoli sul XXI secolo.

Manganaro ci racconta  la lotta per l’emancipazione delle donne, la rivoluzione ed i suoi attori, quelli che la Storia con la “S” maiuscola non si perita di ricordare, il razzismo nelle sue molte sfumature, non solo per questione di pelle ma anche, e soprattutto, per discriminazione culturale e, in ultimo le divisioni nella sinistra radicale che, pur nel rispetto dei feticci della bandiera e dell’Internazionale (cantata nelle tante lingue diverse degli emigranti d’oltreoceano), non smette di perseguire pratiche di divisione ancora oggi caratteristiche dei partiti comunisti della “vecchia” Europa.

C’è anche lo spazio per ricordare l’incendio alla Triangle di New York, oltre 100 donne morte e lo sciopero del “Pane e le Rose” del 1912, l’occupazione della Bassa California da parte dell’armata anarchica in appoggio alla Rivoluzione zapatista e l’ingresso delle Brigate Internazionali a Madrid, nel 1936.

Un chiaro messaggio alla sinistra di oggi per la ricerca di percorsi di condivisione di idee e lotte per il riscatto sociale.


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