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Hobsbawn: XX secolo, non solo macerie

Se esiste un canone, un paradigma, in base al quale si può comprendere il motivo che ha reso grandi alcuni personaggi, leggere gli scritti di Hobsbawm ci  aiuta a possederlo.
Davanti ai cumuli di parole confusamente (e ideologicamente  per chi pensa alla realtà come a un eterno presente immodificabile) usate  contro il progresso – o meglio- contro l’oggettività di un processo in cui
alcune tappe della storia dell’umanità hanno rappresentato delle vette  (piacerebbe chiamarle punti di non ritorno), Hobsbawm appare, invece, il  compagno fedele e serio, rigoroso e mai dogmatico della ricerca di punti nuovi
e d’avanzamento. 
In quest’inizio d’autunno, Hobsbawm ha smesso di cercare nuovi punti tra le pieghe della realtà. Non troveremo più suoi scritti sul passato (ma anche sul futuro; chi l’ha letto sa quanto fosse interessato alla comprensione profonda dei processi in essere e, quindi, all’intelligibilità di ciò che può o deve avvenire) ma ha lasciato in eredità un metodo e una passione che non potranno che sopravvivergli.
Di questo metodo e di questa passione continuerà a discutere la comunità scientifica degli storici; come anche della sua chiarezza dovrà farsi carico chi, a vario titolo, è impegnato nell’insegnamento.
E per i comunisti, per i marxisti? Di cosa farsi carico?
Se possibile, il peso è ancora più grande: metodo e passione e chiarezza. La congiunzione e mai la disgiunzione, come sempre dovrebbe essere quando si predica di queste cose, s’impone come regola-madre. Seguiamola, finché ci riesce, anche noi.
Dunque, seppur entro certi limiti e dopo aver indagato a fondo il passato nelle sue tendenze e nei suoi problemi, dobbiamo sfidare l’imprevedibilità del futuro: questo ci raccomanda Hobsbawm. Per questa ragione, partendo dai fatti esemplari della guerra nel Golfo, scrutava il nuovo rapporto che si stava definendo tra le guerre degli Stati e le guerre private gestite dai privati.
Nuovo rapporto che Hobsbawm, non cedendo mai alla tentazione modaiola di una globalizzazione senza aggettivi, non ha letto alla luce di una presunta estinzione degli stati-nazione. E ancora: di famiglia ebraica, nega a Israele –
e al sionismo – ogni fondazione storica, ricordando sempre il contrasto di quest’ultimo con l’ortodossia religiosa ebraica.
Rileggere quelle pagine oggi, tenendo gli occhi ben aperti su quanto avviene in Medio Oriente, fa capire
quanto ciò che rende grande un personaggio sia il parlare o il fare capace di compiere un passo avanti per l’intero genere. Questo ci piacerebbe fosse un punto di non ritorno.
Anche la famosa categoria storiografica del secolo breve, per ammissione dello stesso Hobsbawm, fu parte di questa sfida sul futuro. Alla radice c’era il convincimento che la grande guerra e la rivoluzione bolscevica fossero le due forme attorno alle quali si era strutturato, in un intervallo di tempo ben preciso e in uno spazio geografico determinato, il conflitto capitale-lavoro, come contraddizione fondante del modo di produzione capitalista ma, per l’appunto, all’interno di un processo che, come ogni cosa della storia, non è mai eterno: non si è, cioè, costretti a morire sotto il capitalismo.
Di più: neanche questo, in realtà, esiste come un’unità indifferenziata, soggetto com’è anch’esso a continue trasformazioni. D’altra parte, confidando nelle onde lunghe dell’economista Kondrat’ev, valutò che la nuova fase dell’economia mondiale, iniziata nel 1973, fosse destinata a far finire ciò che era iniziato in maniera evidentemente nuova nel 1914. Il collasso dell’Unione Sovietica gli sembrò la conferma empirica. Un collasso che rendeva, agli occhi acuti di Hobsbawm, più difficile anche la ripresa stessa del modo di produzione capitalista dalla sua crisi mostrando, così, una sostanza delle cose ben diversa da quella cantata in salmi e preghiere dagli apologeti del libero mercato. Al secolo breve segue, infatti, una lunga (e forse non ancora ultimata) emersione. Nutriva sicuramente simpatia per la scuola francese delle “Annales” ma credeva in una storia in cambiamento: strutture sì, ma non permanenti. La passione per la storia, infatti, gli derivava dalla lettura e dalla comprensione di Marx. Essere comunista e marxista, per lui nato ad Alessandria d’Egitto e vissuto e formatosi nella Mitteleuropa degli anni Venti, non fu mai una moda intellettuale o una scelta opportunista.
I paradossi della storia, della vita, non si possono mai fuggire del tutto: per quanto Hobsbawm abbia voluto essere uno storico dell’Ottocento, ciò che l’ha reso più famoso (per quella strana congiuntura descritta dagli antropologi – come ricordava nella sua autobiografia – di essere stato rispetto al secolo un “osservatore partecipe”) è stato lo studio sul Novecento. Essere partecipe, nel Novecento, significava letteralmente prendere parte: e prese quella giusta senza mai tornare indietro.
Dicevamo che da oggi non potrà più cercare punti nuovi e d’avanzamento; ma chi vorrà potrà utilizzare quella bussola che coraggiosamente ha custodito e instillato qua e là nei suoi libri.
Il novecento, il secolo del suffragio universale e della decolonizzazione, della rivoluzione bolscevica e della sconfitta del nazifascismo non può essere ridotto all’orrore. Non sono state solo macerie; anzi. Perché altrimenti della
stessa morte morirebbero anche l’Ottantanove o il Novantuno rappresentando la ratifica di un fallimento; mentre la lunga emersione dal secolo breve ci sta  parlando di ben altri fallimenti. Ripartiamo da una sconfitta ma anche da un grande secolo, non da macerie. E grazie ai suoi libri lo possiamo capire meglio.

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1 Commento


  • almanzor

    Sacrosanto. Tuttavia sarebbe utile riflettere sul seminale ruolo di Hobsbawm nella mutazione genetica dall'”old” al “new” Labour tra gli anni ’70 e ’80 (Neil Kinnock).
    cfr. http://www.lltjournal.ca/index.php/llt/article/view/5384/6253
    Il contrasto a posizioni settarie e dogmatiche, in nome del realismo marxista e leninista, ha condotto, nei fatti, a Tony Blair e a G. Brown, già ‘firma’ su Marxism Today. Se, in un’intervista al Guardian del 2002, Hobsbawm definiva correttamente Blair come una ‘Thatcher con i pantaloni’ (esprimendo il suo disgusto per la guerra in Iraq, ormai prossima), bisogna dire che quell’appassionata battaglia culturale (mica era Colletti !) portò frutti piuttosto avvelenati.

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