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Squadrismo vincente, di chi la colpa?

Si tratta del terzo e ultimo volume di “Storia delle origini del fascismo. L’Italia dalla Grande Guerra alla Marcia su Roma”, Il Mulino, Bologna (pp. 554 E 36) di Roberto Vivarelli che è professore emerito di Storia Contemporanea, già autore di “Fine di una stagione” (Il Mulino) incentrato sui personali ricordi di “ragazzo di Salò”. Vivarelli, nato nel 1929, seguì appena quattordicenne un fratello maggiore nella Rsi per onorare la memoria del padre partito volontario nella campagna dei Balcani e ucciso dai partigiani titini. Una premessa: non abbiamo ancora avuto il piacere di leggere questo lavoro che Galli della Loggia paragona all’opera di De Felice su Mussolini, ma fidandoci delle indicazioni che l’editorialista offre sulle pagine culturali del Corriere della sera del 9 ottobre 2012 ne seguiamo d’appresso l’ampia recensione, permettendoci qualche riflessione. Vivarelli accusa Emilio Gentile (studioso del fascismo nonché ex allievo dello stesso De Felice) e la scuola anglosassone di discettare sul fenomeno fascista “senza confrontarsi affatto con le vicende effettive del movimento di Mussolini e con la storia del Paese in cui quelle vicende si svolsero”. Il fascismo, a detta di Vivarelli, non è nato né si è affermato come movimento reazionario di classe sollecitato da agrari e industriali bensì da quella che fu una guerra civile latente fra la bandiera rossa e il tricolore.

Arditismo e squadrismo, quasi un binomio

Seguiamo questa tesi perché s’appoggia su una realtà del primo dopoguerra peraltro molto approfondita da studiosi di area liberale e marxista attorno ai temi della sedicente “vittoria mutilata” e l’antipatriottismo del fronte socialista. Due questioni su cui la demagogia nazionalista, il cerchiobottismo del riformismo socialista, il velleitarismo socialista rivoluzionario s’incontrarono, scontrarono e mescolarono. Ne uscì favorita la componente nuova guidata, non a caso, da un socialista in disarmo, rivoluzionario a chiacchiere (come molti della sua corrente) che conosceva i limiti dei propri compagni di partito sui versanti teorico e organizzativo. Avrete compreso che si tratta di Benito Mussolini. Il futuro Duce seppe darsi un programma pratico e ideale raccogliendo desideri, bisogni e umori viscerali di una massa giovanile già vestita col grigioverde del Regio Esercito che stentava a tornare a una vita normale o non lo voleva affatto. E non erano soltanto “uffizialetti parvenues” ormai abituati a impartire ordini. S’è molto scritto, ed è bene proseguire, sugli ardori originari e rilanciati di talune plebi esaltate dagli assalti alla baionetta che continuavano a sentirsi “ardite”. Quando, rientrati ai paesini d’origine, al duro lavoro della terra o peggio alla ricerca di un’occupazione qualsiasi, questi uomini sarebbero tornati a sentirsi nullità. Nazionalismo e nascente squadrismo furono abili e scaltri a riorganizzare tali giovani affamati di desideri, incentivarono anziché educarla la loro voglia di menar le mani e l’indirizzarono verso un avversario ideologico: l’egualitarismo socialista che da troppo tempo predicava un riscatto elemosinando solo parziali conquiste economiche.

Più reazione che rivoluzione

Le fila dei sansepolcristi, accarezzate dall’ambiguo e manipolatorio proclama “Noi ci permettiamo di essere aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari, legalisti e illegalisti, a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di ambiente“ e accompagnate dalla retorica dannunziana che ridava fiato al falso storico-politico dello scippo della vittoria, s’ingrandirono velocemente. Di fatto gli si proponeva non di rischiare la vita per il colpo d’un cecchino asburgico ma d’assaltare le Camere del Lavoro, bruciando vivi i soci lì riuniti per il tresette serale. Non è solo l’immagine del “Novecento” bertolucciano o la letteratura pratoliniana delle “Cronache di poveri amanti”, è la realtà che figli (se ancora vivi) e nipoti narrano in tante località della Bassa e delle colline umbre e toscane. Le iniziali culle dello squadrismo praticato, che s’allargò a macchia d’olio passando dalle venti sezioni del 1919 con 17.000 miliziani (non pochi come avvìo) alle oltre duemila con più 300.000 armati nei due anni successivi. Il senese professor Vivarelli, di cui Galli della Loggia loda la vastissima documentazione locale che nutre il testo, l’avrà certamente ricordato. Perché questo è un nodo cruciale, generazionale e sociopolitico della storia italiana. Il Vivarelli che leggiamo dalla recensione di della Loggia evidenzia la violentissima predicazione antipatriottica che certamente avrà avuto echi anche oltre il 1918, ma essa s’era concentrata nei lunghi mesi successivi all’attentato di Sarajevo che scatenò il conflitto mondiale in un’Italia divisa fra l’entrare o meno in guerra. Nel biennio rosso (1919-20) il conflitto fra le bandiere come simbolo ci fu, però fu sociale oltre che ideologico. E quando lo storico definisce scioperi e agitazioni “provocazioni” la sua scelta di campo è chiarissima ma con un ruolo propagandistico più che storiografico. Non che l’altro versante sia esente dal vizio, comunque trattandosi di revisionismo la cosa non ci stupisce e abbiamo visto di peggio.

Al servizio del capitale

Egualmente l’assunto che gli agrari padani e il capitalismo del nord fossero esenti da finanziamenti per il nascente movimento mussoliniano è di per sé, come dire, astorico. Il noto Il Popolo d’Italia su cui il Mussolini post-socialista aizzava gli iniziali seguaci fu finanziato dai denari del patròn de Il Resto del Carlino, tal Naldi, proventi che lo “convertirono” all’interventismo assieme ai cospicui fondi neri degli industriali italiani e francesi. Su tutti Ansaldo, Ilva, Breda, Eridiana Zuccheri, e le banche Commerciale e Italiana di Sconto, interessati al business bellico più che ai patrii ideali e già da allora ben serviti dal tutt’altro che rivoluzionario politico romagnolo. Dopo il marzo del 1919, quando le “squadre” battezzate nel circolo dell’Alleanza degli industriali lombardi cominciavano a raddrizzare la schiena a suon di manganello e rivoltelle ai nemici di classe, chi gli noleggiava auto e camion? chi pagava viveri e “diarie” per le spedizioni punitive? Gli spiccioli diventarono cifre consistenti fra il 1920-21 e i morti (circa tremila) in quella guerra civile furono quasi tutti a senso unico perché massimalisti e riformisti del Psi non sapevano come contrastare. Gli squadristi assassinati furono 300, un decimo delle vittime rosse. La stessa componente leninista, ordinovista e bordighista, del neo formato Pcd’I attorno alla questione d’una milizia armata per combattere lo squadrismo non elaborava un piano articolato, utilizzando le sue “Guardie rosse” solo in funzione difensiva durante l’occupazione delle fabbriche del 1920. Le strutture popolari antifasciste denominate “Arditi del Popolo” furono boicottate da tutta la sinistra, compresa la componente bordighista, maggioritaria nel Pcd’I, contro il parere degli ordinovisti che rifuggivano il settarismo e puntavano alla sostanza. Anche meditando su quei gravissimi errori i comunisti e i socialisti costruirono la successiva esperienza resistenziale.

Rivoluzione o reazione

L’arditismo popolare dimostrò coi fatti la propria validità, rintuzzando a Parma, Sarzana, nel quartiere romano di San Lorenzo gli assedi squadristi. Naturalmente nei complicatissimi tre anni e mezzo che condussero Mussolini al potere ci fu il lassismo dello Stato liberale, addirittura quella che venne definita una vera latitanza, sebbene sul lasciar spegnere i fuochi d’un rivoluzionarismo solo parolaio lo Stato giolittiano avesse costruito le sue fortune nei momenti topici dello scontro sociale d’inizio secolo che avevano pagato più delle cannonate di Bava Beccaris. Certamente con importanti concessioni nei confronti dei lavoratori, in molti casi economiche e talvolta normative. Comunque ben lontane dal contropotere che Gramsci teorizzava elaborando il pensiero d’un altro Antonio, Labriola, che tanto lo ispirò nell’elaborazione del concetto di autonomia operaia e delle casematte proletarie. Che il movimento fascista abbia lanciato i suoi strali contro il “labbrone”, come D’Annunzio bollava lo statista di Dronero padre dell’odiato liberalismo, è indubbio. Ma al di là dell’esaurimento del disegno giolittiano il lassismo statale fu favorevole soprattutto allo stesso squadrismo mai contrastato in oltre mille giorni di scorribande assassine, prima che le stesse si rivolgessero a figure notissime (Gobetti, don Minzoni, Matteotti, Amendola, Carlo e Nello Rosselli). Così l’autore, e citiamo sempre Galli della Loggia che ne ha già letto il testo, deve riconoscere che Forze dell’Ordine e Forze Armate dei governi Orlando, Nitti, Giolitti, Bonomi, Facta (1918-22) mai previdero l’uso delle armi per respingere o semplicemente intimorire l’azione violenta dei fascisti. E quando, come accadde a Sarzana nel 1921, i carabinieri risposero al fuoco degli uomini di Dumini uccidendone quattro, fu un’iniziativa difensiva e spontanea non conseguente a un ordine.

Il regalo della monarchia

Fino all’epilogo della Marcia su Roma, partecipata (tranne che da Mussolini giunto a cose fatte) da circa 30.000 squadristi non certo irresistibili perché privi di artiglieria e armi pesanti di cui erano dotati altrettanti militari che “difendevano” la capitale. Nel suo lavoro biografico sulla vita del capo del fascismo Renzo De Felice, che forse meglio di Vivarelli mette in pratica gli insegnamenti del comune maestro Federico Chabod, riesce a essere più distaccato definendola “un bluff sul piano militare, un successo sul piano politico, poiché persino di fronte a essa larga parte della classe dirigente e in primo luogo il sovrano (che, dopo l’esperienza fiumana, doveva temere più di ogni altra cosa di mettere a repentaglio l’unità dell’esercito) continuò a non capire la vera natura del fascismo e a illudersi che una volta arrivato al potere – sia pure in prima persona – esso si sarebbe alla fine costituzionalizzato”. A spianare la strada a quella che diventerà una dittatura furono in tanti, non sempre seduti dalla stessa parte, ma l’azione della Destra liberale e della Corona furono sinergiche a quanto serviva al capitalismo nazionale ed europeo. Sebbene ci sia chi oggi vuole raccontare un’altra storia.  

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Ps: Un umile consiglio che rivolgiamo ai lettori, e allo stesso professore Vivarelli, è la rilettura o lettura di qualche lavoro storiografico ai cui temi si richiama il presente articolo.

Valerio Castronovo, L’industria italiana dall’Ottocento a oggi, Mondadori, Milano 1980

Renzo De Felice, Intervista sul fascismo, Laterza, Bari-Roma, 1975

Mimmo Franzinelli, Squadristi, Mondadori, Milano, 2003

Wolfang J. Mommsen, L’età dell’imperialismo, Feltrinelli, Mlano, 1970

Giovanni Sabbatucci, La crisi italiana del primo dopoguerra, Laterza, Bari, 1976

Paolo Spriano, Storia del Partito Comunista Italiano, Einaudi, Torino, 1975 vol. I

Nicola Tranfaglia, La prima guerra mondiale e il fascismo, Utet, Torino, 1995

Richard A. Webster, L’imperialismo industriale italiano, Einaudi, Torino, 1974

 

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1 Commento


  • Filippo Bellandi

    Avendo letto il libro di Vivarelli, trovo l’articolo in questione scritto con evidente pregiudizio ideologico, tanto che già all’inizio si definisce il libro un’opera revisionista. Termine tipico di chi non accetta per definizione che si “riveda” ciò che è stato scritto fino ad ora. Ovviamente in questo caso dalla storiografia di sinistra. Lo storico invece proprio per definizione è un revisionista in quanto deve sempre “riscrivere” la storia dal suo punto di vista, ossia in base alla dcumentazione che ha trovato. Mi sembra che lo storico Vivarelli documenti abbondantemente le responsabilità del massimalismo socialista nell’avvento del fascismo, oltre che dei governi liberali che vollero contraddittoriamente mantenersi neutrali tra illegalità di socialisti e fascisti, favorendo in tal modo i più organizzati e i più armati, cioè i fascisti, di fronte ai socialisti che predicavano la rivoluzione solo a chiacchiere.
    Vivarelli inoltre documenta bene anche la insofferenza e la paura diffusa nel Paese contro l’estremismo verbale (e nei fatti: vedi ciò che succedeva nei comuni guidati da socialisti) delle sinistre che inneggiava alla Russia sovietica e voleva l’abbattimento delle istituzioni “borghesi”, compresi i comuni che amministravano. Dove peraltro non si impegnarono con interventi e riforme a vantaggio dei ceti popolari come avrebbero dovuto e potuto fare. Del resto anche in Parlamento, pur essendo il gruppo politico più numeroso, non avanzarono neppure una proposta di legge a favore delle classi popolari.
    Ritengo infine un pò temerario e azzardato voler giudicare “revisionista” un libro di storia di oltre 500 dense pagine prima ancora di averlo letto, solo sulla base di una favorevole recensione su una sola pagina di giornale.

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