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Avi Mograbi: “In Israele discriminazione per legge tra ebrei e arabi”

Quando ci siamo incontrati a Roma, l’Onu non aveva ancora riconosciuto la Palestina come stato osservatore, eppure nel suo nuovo film, Once I Entered a Garden è come se Avi Mograbi avesse anticipato questa storica decisione. Andando ancora più lontano nell’immaginare un «altro Medio Oriente possibile», ispirato a un passato remoto, quando tutti si muovevano liberamente, potevano attraversare i confini, coltivare la propria terra, dividere una memoria e una cultura comuni. Ma Mograbi, israeliano, pensiero critico tra i più netti sulla società, la politica, i miti che fondano Israele, di cui nei film mette in luce paradossi e contraddizioni, non è tipo da fantasie fiabesche. È ironico, pieno di spirito, non sognatore. L’ottimismo, mi dice davanti a una tazza di caffé doppio, forse è nel film, ma non nella mia visione delle cose. E guardando le sue immagini, come quelle degli altri suoi film (da Per uno solo dei miei occhi a Z32) di ottimismo non ce ne è molto. Basterebbe il momento in cui la piccola Yasmin, la figlia del protagonista, mentre passeggiano davanti alla casa che era del padre da bambino, fugge via all’improvviso in lacrime. Non c’è una ragione apparente alla sua angoscia se non il sentimento doloroso che il padre trattiene davanti alla macchina da presa e davanti a lei. Così violento da diventare suo malgrado evidente fino a farla piangere.

Once I entered the Garden (presente al festival Filmmaker, a Milano, www.filmmakerfest.com) è la storia di un’amicizia, tra Mograbi e Ali, il suo insegnante di arabo, e la lingua diviene uno dei primi territori di confronto e di scambio. Il regista sfogliando dei vecchi archivi ha trovato tracce della sua famiglia a Beirut, in Siria, tutti luoghi nei quali adesso non può più andare col suo passaporto israeliano.

Anche la famiglia di Ali viene da Damasco e anche per lui tornare nei luoghi delle sue origini è impossibile. Ali è uno degli 11 milioni di palestinesi sparsi nel mondo, ha deciso di restare in Palestina, ora Israele, vicino ai luoghi da cui lui e la sua famiglia sono stati cacciati per sempre. E ha sposato una donna ebrea, una scelta molto complicata per entrambi. La sua forma di resistenza è vivere lì, e provare a essere un cittadino come gli altri, che di per sé è una lotta durissima, e lo diventa ancora di più di fronte alle case che ti sono state portate via, agli spazi chiusi, su cui campeggiano le scritte in ebraico «vietato l’accesso agli estranei». La sua città è ora un insediamento, lui è un estraneo.

Yasmin però sorride alla macchina da presa mentre racconta: «A scuola quando gli altri bambini hanno saputo che ero in parte araba, hanno avuto reazioni strane. Le cose ora vanno abbastanza bene ma c’è sempre qualcuno che mi prende in giro o mi attacca su questa cosa». Lo dice così, sorridendo, senza lacrime stavolta. Yasmin non conosce il sentimento della perdita, il suo è un desiderio di affermare la propria esistenza, di stare lì coi suoi diritti uguali a quelli degli altri. «Yasmin è invece il futuro, persone così mi fanno credere che è ancora possibile cambiare», dice Mograbi. Lui, che è sempre anche protagonista dei suoi film, aggiunge elementi biografici attuali, ci parla della sua storia d’amore con una donna libanese, non si possono vedere perché nessuno dei due è ammesso nei reciproci paesi. «Incontratevi a Malta», suggerisce Alì. «Il presente ha bisogno di consapevolezza, la nostalgia non serve a nulla», dice ancora Mograbi.

«Once I entered a Garden» è costruito su una relazione di amicizia, ma anche, o forse soprattutto, sul sentimento di vivere in bilico che sembra essere una caratteristica della società israeliana.

Chiariamo subito una cosa: Alì è palestinese, è un arabo israeliano, la sua posizione è molto diversa da quella di un israeliano ebreo come sono io. Che ho alle spalle una famiglia importante, sono cresciuto nella classe agiata di Tel Aviv, mentre Alì è un rifugiato cacciato via dalla sua casa, cresciuto ai margini. Il mio vivere «a metà» è più che altro metaforico, è legato al fatto che non accetto le regole della società israeliana. Ti faccio un esempio: due giorni fa Alì e sua moglie hanno preso il volo per Roma. Sono sposati, sono entrambi cittadini israeliani ma ai controlli hanno fermato solo Alì chiedendogli di mostrare un altro documento. Lui si è rifiutato esigendo una spiegazione, che nessuno gli darà mai, perché nessuno dirà mai che Alì in quanto arabo è un cittadino di categoria inferiore. Situazioni del genere sono continue. Alì continua a vivere nella società ebraica, e rifiuta con le sue scelte le separazioni che Israele costruisce ogni giorno. Ma è molto dura, lo è stato con le famiglie, adesso c’è Yasmin che rappresenta una connessione tra di loro, lei ha un legame molto forte coi nonni…

A quanto racconta nel film Yasmin, il razzismo è radicato profondamente nella società israeliana.

Sì ma il problema nei confronti dei cittadini arabi è un altro: la discriminazione è ufficializzata. I palestinesi sono cittadini di secondo grado perché Israele è uno stato ebraico. Si può lottare contro un sistema sociale, contro un’educazione, un punto di vista. Ma quando la discriminazione, come accadeva nel Sudafrica dell’apartheid, fonda lo stato allora tutto diventa inutile.

Nelle vostre conversazioni con Alì parlate spesso di come il Medio Oriente sia stato diviso, quasi a provocare volontariamente il conflitto.

L’idea della separazione è molto antica, c’è sempre stata, e quando il Medio Oriente era più aperto, il potere coloniale ha fatto di tutto per dividerlo fino alla decisione di tagliarlo a pezzi. Del resto è sulla divisione che il colonialismo ha basato la sua durata.

Nell’intreccio di storie del passato che racconti, che sono anche tanti aspetti del Medio Oriente oggi dimenticati, si possono trovare indicazione da seguire ancora attuali? Alì, in un momento del film, guarda alla televisione le rivoluzioni arabe…

Mi piaceva l’idea di ripercorrere diverse immagini del Medio Oriente per fantasticare sul futuro… Che è incarnato da Yasmin, è piccola ma molto razionale, non pensa più a cosa ha perduto ma comincia da dove è adesso, e questo le permette di sognare un futuro diverso. Le rivoluzioni arabe sono entrate nel film perché Alì passava in quesi giorni molto tempo davanti alla tv, ma anche perché credo rappresentino un punto di rottura nella nostra Storia unico. La gente si è ribellata ai dittatori, non sappiamo cosa accadrà e come finirà, tutto è ancora in costruzione, ma ecco che già ci affanniamo a dire che forse non stanno andando verso la «meravigliosa» democrazia occidentale. Il cambiamento è un processo lungo, e anche conflittuale, la religione è sicuramente una scelta molto pericolosa, e per questo dovremmo supportare ancora di più le persone che vogliono cambiare le cose, conquistare una libertà di espressione che forse è anche il prodotto di questo scontro tra laici e religiosi.

Israele si definisce uno stato democratico.

L’unico stato democratico in Medio Oriente, con una discriminazione tra cittadini ebrei e arabi sancita per ordinamento, e tre milioni di palestinesi sotto occupazione. Inoltre negli ultimi anni, la politica israeliana è sempre più neoliberista, ci sono tagli continui a sanità e spesa pubblica. Si può vivere bene in Israele solo se si è ebrei, ricchi, sani, alti e belli.

Nel film uno dei riferimenti è Beirut, un luogo che è fortissimo nell’immaginario del Medio Oriente

Beirut fa parte della mia storia familiare, un cugino di mio padre abitava lì, se ne è andato quando è stato fondato lo stato di Israele, poi è tornato a Beirut negli anni 60, e poi ancora a Tel Aviv dove lo hanno arrestato pensando che fosse una spia. La prima idea era di fare un film sulla mia famiglia. Mentre la raccontavo, Alì narrava quella della sua, che era più interessante di quella del cugino paterno, tanto che è diventato Alì il protagonista. Ma Beirut è rimasta, immaginando la mia storia d’amore con una donna libanese oggi. Un altro segmento nell’impossibile. Ho avuto solo un’occasione di andare a Beirut, invitato dal signor Sharon (in guerra, ndr) ho rifiutato. Sono finito in prigione, ma questa è un’altra storia.

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