Gli orripilanti racconti di Ambrose Bierce sono storie di fantasmi narrate inizialmente per un pubblico ottocentesco. All’epoca c’era molta più religiosità di adesso e, in generale, si era molto più creduloni. Ma c’era anche più capacità di suggestionarsi e, a voler essere catastrofisti, c’era anche più spirito di immaginazione di quanto ce ne sia oggigiorno. Questo per dire che le storie di fantasmi erano, nell’ottocento, molto più spaventose perché attecchivano bene sul tessuto culturale dell’epoca. Un’epoca da questo punto di vista memorabile, l’epoca di Edgar Allan Poe, dei primi racconti di Howard Phillips Lovecraft e dell’Età Vittoriana (quella delle foto post mortem)… in altre parole, l’età dell’oro della letteratura dell’orrore. Per apprezzare le storie presentate in questa raccolta bisogna dunque abbandonare il ferreo razionalismo del ventesimo secolo e pensare con la testa di un credulone dell’ottocento, o perlomeno acquisire la sua stessa sensibilità immaginativa. Oppure, cosa ancora più ardua, bisogna dimenticare la gran parte del cinema horror, che non ha niente a che vedere con la letteratura dell’orrore perché non di rado è caratterizzato da splatter fine a se stessi ed è spesso privo della giusta atmosfera e della adeguata serietà. A queste considerazioni va aggiunto che gli aspiranti scrittori horror dovrebbero leggere i vecchi classici, non tanto per emularli quanto per catturarne l’essenza.
E’ chiaro che si può cadere facilmente nel pregiudizio, bollando i racconti di Bierce come stereotipate storie di fantasmi. Niente di più falso. Nonostante i racconti possano sembrare complessivamente uguali a un lettore distratto, con un po’ di attenzione si possono apprezzare tutte quelle sfumature che rendono ogni storia nettamente diversa dall’altra. Insomma, per un amante del brivido la suggestione è assicurata. D’altro canto Bierce manifesta una spiccata originalità rispetto agli altri maestri ottocenteschi, permeando di frequente le trame con un senso dell’umorismo sottile, al punto che al termine di qualche storia non si sa se ridere, rabbrividire o fare tutte e due le cose.
Ma davvero, viene da chiedersi, chi si impauriva (o si impaurisce) leggendo racconti di fantasmi lo faceva perché temeva che una volta chiuso il libro qualche spettro gli si sarebbe infilato sotto il letto? O magari i fantasmi erano (o sono) una delle tante proiezioni dei nostri terrori più reconditi? O forse aveva ragione H. P. Lovecraft (1890-1937), altro maestro dell’orrore fra i tanti, che una volta scrisse: “Il sentimento più forte e più antico dell’animo umano è la paura, e la paura più grande è quella dell’ignoto”. Basterebbe quindi non inibire questo sentimento primordiale, e riscoprirne anzi il piacere adrenalinico che talvolta può suscitare.
L’epilogo nella vita di Bierce è degno dei suoi racconti. Nato nel 1842 in Ohio, nel 1913 sparisce misteriosamente in Messico dove si era recato come reporter. Di lui non si ebbe più traccia. Si può immaginare dove sia andato a cacciarsi. Se la spasserà transitando da un mondo all’altro, varcando le oscure soglie tracciate coi suoi racconti. Autore di opere satiriche oltre che dell’orrore, Bierce è noto soprattutto per l’irriverente e cinico “Dizionario del Diavolo”, in cui si prende gioco della società statunitense della fine del XIX secolo.
Il tema degli spettri è storicamente e antropologicamente rilevante. Strettamente legato alla paura della morte, nel corso della storia vi ci sono cimentate migliaia di persone che hanno formulato discutibili teorie le quali, bisogna ammetterlo, hanno il pregio di essere molto fantasiose. Lo stesso Jung nella sua biografia “Ricordi, sogni, riflessioni” tira fuori dal cilindro un’ipotesi non verificabile capace di far saltare dalla sedia l’intera comunità scientifica mondiale.
Attualmente l’antologia è reperibile solo in e-book per pochi centesimi, ma anche se è quasi sparita dalla circolazione rientra senza dubbio tra le opere letterarie da riscoprire.
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