Sul palcoscenico la giovane attrice israeliana Sivane Kretchner porta la keffiyeh palestinese intorno al collo. Come faceva Rachel Corrie. Sorride, alza la voce, mormora, è triste, talvolta si chiude in un silenzio di dolore. Racconta Rafah, la vita di povera gente, la tragedia di un popolo lasciato solo. Case su case ridotte in macerie da bulldozer, giganteschi e accecati come il Polifemo di Ulisse. Sono passati più di dieci anni fa dal giorno dell’uccisione della giovane pacifista americana schiacciata da una ruspa mentre provava a impedire la demolizione di una casa. Eppure sembra ieri. Il testo che recita Kretchner sono le parole che Rachel scriveva al computer, nel diario di un viaggio in Palestina dal quale la giovane americana non sarebbe mai tornata. Una cronaca bagnata del sangue di innocenti, anche il suo, di lacrime che hanno scolpito la memoria ma sulle quali non si posa la polvere del tempo. Nessuno dimentica quella parole. Sono vive, attuali. Ora tradotte anche in lingua ebraica.
La compagnia di Kretchner, diretta da Ari Remez, ha deciso di mettere in scena in Israele “Il mio nome è Rachel Corrie”, spettacolo visto in molte città del mondo, boicottato in altre, sulla vita prima e durante la permanenza a Gaza dell’attivista americana dell’International Solidarity Movement (Ism). Una scelta coraggiosa, condivisa a Gerusalemme dal Teatro Khan, specie se si tiene conto delle proteste e polemiche che ha suscitato in ambienti istituzionali, arrivati a minacciare il taglio di fondi e contributi. «Israele è il luogo più naturale, più appropriato dove rappresentare “Il mio nome è Rachel Corrie” – spiega Ari Remez – Qui il pubblico ha l’opportunità di porsi delle domande sulle sue scelte di vita e su come sono prese le decisioni nella società in cui vive». Per Remez la decisione di debuttare a Gerusalemme Ovest non è casuale; gli israeliani che vi abitano, infatti, sono in maggioranza orientati a destra e conservatori rispetto ad altre città. E per questo spera anche che le discussioni suscitate dalla prima rappresentazione, qualche giorno fa, aiutino a riempire altri teatri.
Sivane Kretchner è più bella di Rachel, ragazza dall’espressione austera, con un perenne velo di tristezza poggiato sul volto. O almeno così appariva a chi ha avuto modo di conoscerla. L’attrice israeliana è brava perché riesce a tirare fuori la bellezza interiore della pacifista americana, a rappresentare i suoi ideali, i suoi sogni. Perché ha capito ciò che tanti, ai vertici dell’establishment politico-militare del suo Paese, non vogliono riconoscere. «Per me Rachel Corrie non era una persona controversa – dice Kretchner – la sua anima era bellissima».
No, non è l’attrice che si innamora del suo personaggio. È piuttosto una giovane che ha compreso le motivazioni che hanno spinto una ragazza di 23 anni a lasciare la sua tranquilla e comoda vita in un piccola città americana per andare a Gaza a proteggere civili innocenti. Rachel, racconta Sivane Kretchner, non era una «terrorista affiliata all’Ism», come i nazionalisti israeliani più accesi dicono e scrivono. ‘Rachel Corrie odiava Israele e noi non dobbiamo glorificarla con una rappresentazione in un teatro che gode di finanziamenti pubblici’ ha protestato alcuni giorni fa il vice sindaco di Gerusameme David Hadari, in riferimento ai fondi messi a disposizione del teatro Khan dal comune. Il sindaco Nir Barkat ha però escluso qualsiasi forma di censura. Ma davvero Rachel Corrie odiava Israele? Piuttosto amava i diritti di un popolo che subisce una dura occupazione da quarantasei anni. Rachel è arrivata a Gaza nel pieno della seconda Intifada. Un anno prima Israele aveva rioccupato le principali città palestinesi con l’offensiva ‘Muraglia di Difesa’».
A Rafah le ruspe dell’esercito israeliano continuavano ad abbattere le case palestinesi lungo il confine con l’Egitto – 1.600 fra il 2000 e il 2005 – per costruire un alto muro. Il 10% degli abitanti della terza città di Gaza sono rimasti senza abitazione. Nel gennaio 2003, quando Rachel Corrie giunse a Rafah, gli israeliani distruggevano in media 12 case la settimana. I volontari dell’Ism erano gli unici che con la loro presenza, cercavano di impedire le demolizioni. Il 16 marzo di quell’anno Rachel venne travolta e schiacciata dai cingoli di un bulldozer militare mentre con il suo corpo si opponeva all’ennesima distruzione.
Per Israele l’uccisione dell’attivista americana è stata un «incidente», come recita la sentenza emessa lo scorso agosto, al termine di un lungo processo civile nel tribunale di Haifa, voluto dai genitori della giovane americana. Vi si legge che Rachel «si è messa da sola e volontariamente in pericolo. É stato un incidente da lei stessa provocato». I giudici hanno dato pieno credito alla versione dell’accaduto fornita dall’autista della ruspa militare, il soldato Y.P. (la sua identità non è mai stata rivelata). Nella testimonianza, resa alla fine del 2010, Y.P., confermò che erano presenti civili mentre «operava» la ruspa il 16 marzo 2003. Ma che non smise di «lavorare» perché aveva ricevuto l’ordine di continuare: «Io sono solo un soldato, non davo io gli ordini».
Rachel Corrie, con addosso una giacca arancione fosforescente, Y.P. ha detto di non averla vista, e di non aver udito i suoi compagni urlare quando la giovane è finita sotto i cingoli. I genitori di Rachel hanno accolto con dolore e frustrazione la decisione della corte. Ma non con rassegnazione: «Tanti ci chiedono che cosa ci aspettavamo dal processo, noi non ci aspettavamo giustizia, noi la pretendiamo. E penso che ognuno debba pretenderla, altrimenti la giustizia non ci sarà e semplicemente morirà», ha dichiarato Craig Corrie, padre della giovane.
“Il mio nome è Rachel Corrie” è stato rappresentato per la prima volta a Londra nel 2005. Da allora ha girato ovunque ma non al New York off-Broadway Theater dove nel 2006 le pressioni di gruppi locali pro-Israele sono riuscite a imporre l’annullamento della data. Lo stesso è successo a Toronto e in Florida, tanto che nel marzo 2006 Vanessa Redgrave ha scritto: «Questa è una censura del peggior tipo…É una lista di prescrizione di una ragazza morta e dei suoi diari. Una ragazza molto coraggiosa ed eccezionale che tutti i cittadini, qualunque sia il loro credo e la loro nazionalità dovrebbero essere fieri che sia esistita. Questa pièce non è di parte, è sulla necessità di proteggere gli esseri umani. Rachel Corrie ha dato la sua vita per proteggere una famiglia, non ha usato né una pistola, né una bomba».
Qualche mese dopo Mario Vargas Llosa ha aggiunto: «Le lettere che Rachel scriveva da Rafah rivelano una progressiva presa di coscienza di una giovane che scopre, condividendole, la miseria, l’abbandono, la fame e la sete di una umanità senza speranza, emarginata in case precarie, minacciata da sparatorie, retate, espulsioni, dove la morte imminente è l’unica certezza per bambini e anziani. Ciò che più l’affligge è l’indifferenza, l’incoscienza di tanti milioni di essere umani, nel mondo intero, che non fanno niente né vogliono sapere della sorte ignominiosa di questo popolo in cui adesso lei è immersa».
Per capire chi era Rachel Corrie basterebbe ascoltare “Rachel and the Storm”, un brano a lei dedicato dalla band aretina «La casa del vento», impreziosito dalla voce di Elisa: «È arrivato il momento, io non posso aspettare, è un momento perfetto per decidere di andare. Vorrei farvi vedere l’arida terra su cui cammino. Tutti segni del fuoco, dove crescono i loro bambini. Come il cielo e la terra noi ci incontreremo. Dopo il sogno e la veglia noi ci incammineremo».
A fine di luglio Sivane Kretchner e Ari Remez saranno di nuovo al Khan Theatre di Gerusalemme.
* Nena News
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