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Analfabeti del terzo millennio

Ci siamo occupati più volte delle conseguenze – anche politiche – della inarrestabile “prevalenza del cretino” (dal titolo devastante di un articolo che avevamo ripreso). Torniamo sul tema grazie a questo eccellente e stimolante pezzo apparso su Wired, che dà conto della nozione di “analfabeta” ai nostri giorni.

Non si può infatti restare ancorati al complesso di “segni caratteristici” che ne delineavano il contorno oltre un secolo fa (non saper leggere né scrivere, letteralmente). Quel tipo di analfabeta, in ogni caso, era una figura complessa assai più di quanto non connotasse la definizione lessicale. L’essere umano “analfabeta” era colui che non disponeva della padronanza “tecnica” della scrittura, il che certamente ne limitava moltissimo l’interazione con quella parte del mondo (d’allora) che invece ne richiedeva il controllo. Ma questa esclusione non significava di per sé incapacità di comprendere il mondo, interagire con esso, assumere decisioni sensate anche di grande complessità.

Essere analfabeti dell’800 o del primo ‘900, insomma, non era affatto sinonimo di essere “cretino”.

La storia del proletariato e del movimento operaio è stata fatta da analfabeti che hanno imparato a leggere e scrivere dopo aver cominciato a partecipare alle lotte, a scontrarsi con la polizia o l’esercito, a organizzare i propri compagni di sventura, a fare “classe per sé”. Analfabeti che hanno deciso di non esserlo più per capire il mondo ancor meglio, per sapere quel che non stava scritto nelle regole della normale battaglia di strada, di fabbrica o di campo coltivato; ma che determinava le ragioni e anche l’esito di quelle battaglie. “Innalzarsi” di livello culturale era insomma non solo possibile, ma anche riconosciuto come un “dovere militante” e al tempo stesso un “vantaggio personale”. Crescere di livello culturale, fra l’altro, comportava la perfetta comprensione delle differenze esistenti tra i livelli culturali di chi ci stava intorno, il riconoscimento delle competenze altrui, la capacità di commisurarle alle proprie; e quindi la capacità di “metterle in comune” per liberarci tutti, anziché giocarle “in competizione reciproca” per restare tutti schiavi.

L’analfabeta del Terzo Millennio non è più semplicemente un essere umano privo di una tecnica specifica. Anzi, è il frutto di una sovraesposizione alle tecniche più complesse, che ha imparato ad utilizzare ma di cui gli sfugge quasi completamente il senso. Questo analfabetismo riguarda le “capacità funzionali”, non il mancato possesso di una particolare tecnica.

La definizione data da Vanessa Niri, a conclusione di una serie di “segni caratteristici” dell’analfabeta del terzo millennio, è quasi lapidaria:

Un analfabeta funzionale, quindi, traduce il mondo paragonandolo esclusivamente alle sue esperienze dirette (la crisi economica è soltanto la diminuzione del suo potere d’acquisto, la guerra in Ucraina è un problema solo se aumenta il prezzo del gas, il taglio delle tasse è giusto anche se corrisponde ad un taglio dei servizi pubblici…) e non è capace di costruire un’analisi che tenga conto anche delle conseguenze indirette, collettive, a lungo termine, lontane per spazio o per tempo.

Definizione che recepisce e supera quella puramente descrittiva proposta da un rapporto dell’Ocse:

una persona che sa scrivere il suo nome e che magari aggiorna il suo status su Facebook, ma che non è capace “di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”.

Quanti post su Facebook potete leggere caratterizzati appunto da questa incapacità funzionale? Quante volte vi è capitato di scrivere 20 o 30 righe per argomentare il vostro pensiero su un singolo argomento – il minimo per non restare alla battuta o all’emoticon – e sentirvi rispondere “non venire a farci la lezione”, “non farla lunga”, o “cosa ti fa credere di saperne di più”? Quante volte vi hanno “commentato” senza aver capito assolutamente nulla di quel che avevate provato a dire? E fuori da Facebook, nella vita reale?

Vanessa Niri, da insegnante, mette giustamente in relazione questo status raccapicciante della cultura “tipo” da social network con l’intenzionale progetto di distruzione della scuola pubblica come luogo di formazione di “coscienze critiche”. Ovvero di persone capaci non solo o non tanto di apprendere “nozioni”, ma di ricostruire i meccanismi di fabbricazione della nozione stessa; persone, insomma, capaci di trovare soluzioni per problemi nuovi, non di applicare procedure già note per problemi già risolti.

Perché diciamo che questo tipo di nuovo analfabetismo ha pesanti conseguenze “politiche”? Beh, provate a vedere quanti problemi nuovi esistono davanti a noi e poi datevi anche una risposta. Facciamo conto che sia un test…

Per esempio: cosa è “la politica” nell’epoca in cui le competenze dello Stato – il cuore pulsante di ogni questione politica – finiscono in un altro strumento decisione “non contendibile” per le normali vie politiche (elezioni, rivolte, insurrezioni, ecc)?

 

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I nuovi analfabeti: usano Facebook, ma non sanno interpretare la realtà

Vanessa NiriCoordinatrice pedagogica

Se chiudo gli occhi e immagino un analfabeta, penso ad una persona che firma con una X al posto del nome.
Ma sbaglio.
Un analfabeta, ci ha ricordato l’OCSE pochi giorni fa, è anche una persona che sa scrivere il suo nome e che magari aggiorna il suo status su Facebook, ma che non è capace “di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”.
Certo, sono due analfabetismi diversi: quello di secondo tipo si chiama analfabetismo funzionale e riguarda quasi 3 italiani su 10, il dato più alto in Europa.

Un analfabeta funzionale, apparentemente, non deve chiedere aiuto a nessuno, come invece succedeva una volta, quando esisteva una vera e propria professione – lo scrivano – per indicare le persone che, a pagamento, leggevano e scrivevano le lettere per i parenti lontani.
Un analfabeta funzionale, però, anche se apparentemente autonomo, non capisce i termini di una polizza assicurativa, non comprende il senso di un articolo pubblicato su un quotidiano, non è capace di riassumere e di appassionarsi ad un testo scritto, non è in grado di interpretare un grafico.
Non è capace, quindi, di leggere e comprendere la società complessa nella quale si trova a vivere.

Tre italiani su 10, ci dice l‘OCSE, si informano (o non si informano), votano (o non votano), lavorano (o non lavorano), seguendo soltanto una capacità di analisi elementare: una capacità di analisi, quindi, che non solo sfugge la complessità, ma che anche davanti ad un evento complesso (la crisi economica, le guerre, la politica nazionale o internazionale, lo spread) è capace di trarre solo una comprensione basilare.
Un analfabeta funzionale, quindi, traduce il mondo paragonandolo esclusivamente alle sue esperienze dirette (la crisi economica è soltanto la diminuzione del suo potere d’acquisto, la guerra in Ucraina è un problema solo se aumenta il prezzo del gas, il taglio delle tasse è giusto anche se corrisponde ad un taglio dei servizi pubblici…) e non è capace di costruire un’analisi che tenga conto anche delle conseguenze indirette, collettive, a lungo termine, lontane per spazio o per tempo.

Sarà che forse sono un po’ analfabeta funzionale anche io, ma leggendo i dati dell’OCSE ho subito pensato ad un dialogo di qualche anno fa, tra me e una collega.
All’epoca ero una maestra della scuola primaria. Era una bella giornata di sole: io e la mia collega di italiano avevamo portato le classi in terrazza per la ricreazione e parlavamo del più e del meno. Ad un certo punto mi è venuto in mente di consigliare alla collega di italiano la lettura di un libro che avevo appena terminato e lei mi rispose, candidamente: Grazie, ma io non leggo libri.
Mai? chiesi.
Mai – rispose la collega – l’ultimo libro l’ho letto quando ho preso la maturità, perché dovevo portarlo all’esame. Non ho mica tempo, per leggere, e poi mi annoio.

Davanti ai dati dell’OCSE l’ex Ministro Carrozza si è affrettata a sottolinearne la drammaticità chiedendo una forte inversione di tendenza.
Ma, anche se all’allarme corrispondesse un reale investimento dell’attuale Governo – e, purtroppo, la storia recente ci porta a dubitarne – quale diga fermerà il crollo verticale della cultura degli italiani, se a chi ci deve rappresentare e a chi ci deve insegnare non si impone di essere più preparato, e non meno preparato, del proprio popolo, dei propri impiegati, o della propria classe?
Non esiste cura, se i primi a rifiutare la complessità e l’approfondimento sono i nostri insegnanti, i nostri manager, i nostri politici.

La scuola italiana, da sempre fondata sul dogmatismo, ha visto annullate le proprie spinte verso un insegnamento diverso, riducendosi alla trasmissione di competenze inutili, perché si dimenticano il giorno dopo l’interrogazione, e che non insegnano a capire, ad analizzare, a criticare, a soppesare, a riassumere.
Era il 1974, quando Sergio Endrigo, ispirandosi a Gianni Rodari, incise su un disco questo prologo illuminante: Napoleone Bonaparte nacque ad Ajaccio il 15 agosto del 1769. Il 22 ottobre del 1784 lasciò la scuola militare di Briennes con il grado di cadetto. Nel settembre del 1785 fu promosso sottotenente. Nel 1793 fu promosso generale, nel 1799 promosso primo console, nel 1804 si promosse imperatore. Nel 1805 si promosse re d’Italia. E chi non ricorderà tutte queste date, sarà bocciato!

Dal 1974 le cose, se possibile, sono generalmente peggiorate.
I parametri Invalsi – lo strumento Europeo per la valutazione delle competenze – sono diventati in fretta praticamente l’unica cosa che la scuola si preoccupa di insegnare, riducendo la lungimiranza dell’insegnamento alla verifica in programma, all’esame di fine anno.
Ma cosa rimane fuori da una scuola sdraiata sui parametri Invalsi (per i quali, in ogni caso, non brilliamo, come competenza, in particolar modo nel Sud Italia)?
Rimangono fuori proprio le competenze che fanno di una persona un cittadino attivo, e non un analfabeta funzionale: la capacità di scegliere un libro interessante, e di immergersi nella lettura, la scelta di comprare un quotidiano, la capacità di valutare le proposte economiche e politiche nella loro (grandissima) complessità.

Per rispondere all’allarme dell’OCSE questo paese deve ribaltare il concetto stesso di competenza.
Una scuola dogmatica è una scuola che respinge, e che insegna senza insegnare.
Una scuola che costruisce e valorizza le competenze, invece, è una scuola capace di accogliere, e di insegnare gli strumenti di comprensione del mondo.
Un analfabeta può anche imparare a memoria che Napoleone Bonaparte nacque ad Ajaccio il 15 agosto del 1769, e che nel 1805 si promosse re d’Italia, ma non per questo avrà gli strumenti per accogliere ed analizzare la complessità della società in cui vive.
E anche lui, come i ragazzi che spesso la nostra scuola respinge – quelli che non vengono messi in grado neanche imparare le date a memoria – rischia di entrare a far parte di quel folto gruppo per i quali la guerra in Ucraina è un problema solo se aumenta la bolletta del gas.

da wired.it

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