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“Fuoriclasse”: un elogio scientifico della praxis, e del suo carattere sociale

“Fuoriclasse” di Gladwell si presenta come un libro sugli uomini di successo, sui “vincenti”.
Dietro a questa veste di libro “gossip” c’è molto di più: una teoria di come mai certe persone hanno avuto successo che smonta molti luoghi comuni intrisi di ideologia individualista. È un libro sul “talento” che dimostra la scarsa rilevanza di un qualche (eventuale) talento innato rispetto ai risultati che una persona “di successo” ottiene in qualsiasi disciplina; è un libro sui fuoriclasse che dimostra che i fuoriclasse, per come si intendono comunemente, persone con doti innate fin dalla nascita, non esistono.

«In “Fuoriclasse” cercherò di convincervi che le spiegazioni del successo in termini prettamente individuali non reggono. Le persone non vengono dal nulla. […] La cultura a cui apparteniamo e l’eredità che ci hanno trasmesso i nostri antenati plasmano i risultati che sapremo conseguire come neppure immaginiamo.» (p. 16)

Gli assi portanti, intesi, sottintesi, o deducibili dal testo sono tre:

1) il carattere collettivo, sociale, storico di ogni risultato supposto “individuale”
2) la critica spietata all’innatismo
3) il ruolo fondamentale della pratica tanto nei processi conoscitivi tanto nei processi di perfezionamento in qualsiasi disciplina

La parte più densa del libro è il capitolo dedicato alla “teoria delle 10.000 ore”. L’autore, appoggiandosi su studi scientifici di neurologi e psicologi, fornisce una immensa mole di dati che conduce neccessariamente alla seguente conclusione: “più gli psicologi esaminano la carriera delle persone dotate, più sembra che la preparazione giochi un ruolo prevalente rispetto al talento innato” (p. 31). Secondo il neurologo Daniel Levitin:

«il quadro che emerge da questi studi è che ci vogliono diecimila ore di esercizio per raggiungere il livello di padronanza associato all’essere un esperto di caratura mondiale in qualsiasi campo» (p.33).

10.000 ore, però, costituiscono una quantità di tempo enorme: qui entra in gioco il carattere collettivo di qualsiasi risultato individuale. Se Bill Joy (programmatore che ha realizzato Unix, fondatore della Sun Microsystem, ed elaboratore java, in una parola l’ “Edison di internet”) e Bill Gates hanno potuto esercitarsi a programmare per 10 anni consecutivi, se i Beatles hanno potuto esibirsi 8 ore al giorno per 3 anni ad Amburgo creando di fatto il sound che li ha resi intramontabili, è perché qualcuno e/o qualcosa hanno permesso loro di non doversi mantenere con un lavoro di altro tipo, di poter fare pratica in tutta libertà. Il risultato del loro “successo” non è individuale, né tanto meno dovuto a doti innate, ma è un risultato sociale dovuto alla pratica. Da questa decostruzione totale del talento e dell’innatismo non poteva esser risparmiato W.A. Mozart, l’emblema dell’enfant prodige. Così lo psicologo Michael Howe nel suo “Anatomia del genio”:

«in base agli standard le prime opere [di Mozart] non sono eccezionali, e tutti i primissimi pezzi furono probabilmente scritti dal padre e in seguito forse modificati. Molte composizioni infantili di Wolfgang, come i primi sette concerti per piano e orchestra, sono in gran parte arrangiamenti di opere di altri compositori. Mozart compose il primo concerto originale (n. 9, K 271), considerato uno dei suoi capolavori, a ventun anni e a quell’epoca erano già dieci anni che si dedicava alla composizione» (p.33)

Volendo leggere un po’ tra le righe, infine, troviamo qualche traccia di un’eventuale teoria della conoscenza fondata (quasi solo) sulla pratica. Sempre il neurologo Daniel Levitin:

«Finora nessuno ha scoperto un caso in cui un’autentica competenza di alto livello sia stata ottenuta in tempi più brevi [di dieci anni]. Sembra che al cervello occorra tutto questo tempo per assimilare ciò che deve sapere per raggiungere una reale padronanza» (p. 33)

Quindi: il talento innato individuale svolge un ruolo trascurabile, per acquisire certe competenze non ci impieghiamo meno di dieci anni, ma possiamo dedicarci dieci anni solo in contesti fortuiti, solo se abbiamo attorno a noi persone e circostanze che ce lo permettono. Qualora ce ne fosse stato bisogno, questo libro mette nero su bianco una sterminata fonte di dati a favore del carattere sociale della conoscenza, fondata sulla pratica, e del raggiungimento di risultati al di sopra della media: il testo di Gladwell è un accuratissimo ritratto del cervello sociale.

da http://www.inventati.org/cortocircuito

 

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