E’ stata Guerra ed è stata Grande, così l’hanno definita per i numeri: fra i sedici e i venti milioni di morti. Ammazzati e crepati. Nove di qua, sette di là e tre milioni che non si sa di chi fossero.
Alla fine della conta non importava più, tanto di nomi con cui infarcire lapidi ce n’era un’infinità. E degli sconosciuti uno valeva per tutti, consacrato in un mausoleo nazionale. Ogni Patria ebbe il suo Milite Ignoto. Fra i cadaveri anche sette milioni sette di civili, che per uno scontro da campi di battaglia e senza le enormi stragi dal cielo è un bel record. Record, come nello sport, che però fermava la neonata passerella olimpica piegandosi alla guerra, diversamente da quanto accadeva nell’antico mondo. Ventidue nazioni partecipanti sui due fronti. Partecipanti, come fosse una gara. La corsa alla morte certa, che i teorici di classismo, autoritarismo e dominio definivano purificatrice. Loro, più folli dei tiranni Cecco Beppe e Zar Nicola. Loro, intellettuali cinici, cullati nel ventre delle democrazie borghesi nutrite dalla linfa coloniale. Bramavano un aiuto “igienico” più potente di quanto la natura già dispensava di suo con la febbre spagnola.
Numeri e carni da macello, lacerati com’erano i soldati-contadini di ogni landa spediti dietro a un vessillo a scannarsi per prendere una valle, un monte, allargare il confine su un crinale. Su un angolo d’una cima (venti, quaranta metri orizzontali?) c’è il manipolo di eroi dipinto da Ermanno Olmi che su carni straziate e capitani di ventura già s’era cimentato col semi biografico ed estetizzante “Il mestiere delle armi”. Ma non c’è arma più potente del ricordo con cui il regista ricompone i racconti del padre ex soldato, scampato per sua fortuna al possibile castigo della guerra. Riempita poi di festeggiamenti e orgoglio. Di Patria risorta, Risorgimento compiuto, riscatto morale, ma anche rancori per chi, fuori d’ogni realismo, voleva tutto e cercava altre imprese e sciagurate battaglie, vaneggiando di “vittoria mutilata”. La Storia dell’ultima pellicola olmiana, è semplice e vera come la radice buona che la terra nutre e fa fruttare. E’ piena dell’essenza rurale ch’egli conosce e rimpiange. Narra dell’eroismo naturale del contadino e montanaro in divisa, capaci di stare per mesi sotto quattro metri di neve. Sottoterra.
Febbricitante e malnutrito, pronto a morire (Patria o no) a ogni battere di ciglia, di scemenza tattica dei propri comandi, di mortaio nemico, di assalto alla baionetta inferto o subìto. L’ungarettiana “Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie” aveva poetizzato la straziante condizione, l’attesa, rassegnata o meno, non fa differenza. Esserci e condividere odore del sangue e ordinarie paure, pustole e pulci, missive e sogni, desiderio di vita e canzonette, ben lontani dalle aberrazioni guerrafondaie di grandi penne della narrazione, invasate dalle categorie delle proprie ossessioni combattentistiche trasformate in missione e lavacro (“Coraggio significa farsi inchiodare, da soli, alla croce della propria missione, significa professare fede in quel che si pensa, per ciò in cui si è combattuto e caduto, anche esalando l’ultimo respiro con ultimo guizzo nervoso…”. Da Ernst Jünger, “La battaglia come esperienza interiore”, Piano B, traduzione di Simone Buttazzi). L’animo afflitto del montanaro-soldato, che non vedrà più il verde dei prati, né il familiare abito d’oro del larice, attende il suo turno di vita o di morte fuori dalla retorica e dal fanatismo, con la saggezza d’un istintivo rapporto esistenziale. Il suo coraggio è molto più grande di qualsiasi missione, patriottica o vitalistica. E’ il coraggio di essere uomini che affrontano il destino.
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