Un paio di settimane fa è incominciata negli States la terza stagione di The Newsroom, serie televisiva creata da Aaron Sorkin, autore cinematografico e televisivo piuttosto acclamato, sul notiziario di un network televisivo.
Sullo stile di Sorkin c’è solo una cosa da dire: è brillante e falso. La vera ossatura della serie sono i dialoghi, che i personaggi sputano fuori a una velocità impressionante, tutti intelligentissimi, simpatici e cinici. Tutti, dal direttore di rete all’ultimo degli stagisti. Se piace, questo sferzante incedere di battute sagaci può essere divertente, altrimenti appare noioso e borioso.
Chi ha già visto qualcosa del regista non rimarrà certo sorpreso, né nel bene né nel male, e chi vuole affilare un po’ il proprio senso dell’ironia troverà un buon arrotino che fa il suo lavoro in maniera precisa senza alcuna pretesa di originalità.
Perché dunque guardare l’ennesima «dramedy» costruita ad hoc per tenerti incollato allo schermo con un’incalzante incedere di taglienti battute?
È quando andiamo a fare l’analisi dei contenuti che il discorso si fa più interessante. I giornalisti, i produttori e l’anchorman del canale sono tutti presi dalla loro «mission» (come si direbbe in termini aziendali) di fare un telegiornale di qualità anche fregandosene (o almeno trovando un compromesso) con l’auditel, cioè tentando di fare quello che Aldo Grasso definirebbe «servizio pubblico». La dinamica di ogni puntata verte quindi intorno a questo conflitto, tra la ricerca dello scoop e la correttezza, tra deontologia professionale e importanza della notizia, tra qualità e audience, tra libertà di informazione e questioni legali, ecc.
La soluzione di questo conflitto si risolve in maniera meno banale che in altre serie come Gotham, dove tra giustizia intesa a livello personale e a livello legalista vince la seconda, o come Madame Secretary, che fra realpolitik e buoni sentimenti riesce sempre a trovare una sintesi dimostrando continuamente che basta un po’ di buona volontà a risolvere le questioni internazionali in maniera buona e giusta.
La vera forza di Sorkin è quella di riuscire ad uscire dallo schematismo «alla fine vince sempre il vero e il giusto», ma è una forza furbetta, perché ammettendo che qualche volta può vincere anche il falso e sbagliato fa comunque risaltare l’integrità morale dei personaggi che a volte si trovano a essere sconfitti da una realtà più grande e cattiva di loro. Anche se questo aspetto, cioè che gli individui possono essere sconfitti dal mondo circostante, non è affatto da sottovalutare all’interno dell’ideologia statunitense, in cui l’eroe riesce sempre a plasmare il mondo circostante secondo la sua volontà (come appunto la Madame Secretary che con il suo bagaglio di sincerità e giustizia sventa anche le guerre già dichiarate), rimane comunque l’inscalabile statura morale ed etica degli eroi sorkiniani che quotidianamente combattono per un’informazione più libera e democratica.
Ed è qua che la serie apre, a chi vuole farle, ad alcune riflessioni sulla realtà del giornalismo e su cosa questo vorrebbe essere, e quindi su come si presenta. Si dice: la libertà d’informazione è alla base della libertà democratica, ed essendo la democrazia e la libertà le cose più belle del mondo, l’informazione è essenziale e deve essere libera. Senza volere discutere in questa sede della riduttiva accezione attualmente approvata di libertà-democrazia, dovremmo incominciare una riflessione guardando più alla realtà degli oggetti piuttosto che alle loro dichiarazioni di intenti, per quanto condivisibili siano. Riguardo alla televisione, sia statunitense che italiana, il ragionamento è relativamente facile in quanto già abbastanza discusso e accettato: nelle televisioni private così come in quelle pubbliche, dove per le necessità produttive i costi sono molto alti, chi tiene i cordoni della borsa avrà sempre e comunque un inevitabile controllo redazionale. Senza arrivare ai casi limite come Minzolini, la lottizzazione della Rai o il controllo più o meno indiretto dei partiti USA attraverso le loro aziende di riferimento sulle televisioni private, l’informazione televisiva non può non essere considerata come di parte. A volte di più, a volte di meno, ma sempre di parte, cioè per la difesa di interessi di parte che rendono vago l’ideale di libertà di informazione, al di là di aspetti più tecnici quali l’audience, la volontà dei giornalisti di fare carriera attraverso degli scoop, rischi legali.
Ma una volta accettato il discorso riguardo alle televisioni non dovrebbe essere troppo difficile allargarlo alla stampa cartacea. Escludiamo subito le testate di partito coperte dai finanziamenti pubblici per concentrarci sui grandi giornali «commerciali», che dovrebbero garantire la propria indipendenza e imparzialità finanziandosi principalmente attraverso la vendita di spazi pubblicitari. Parrebbe quindi che possa valere la semplificazione di The Newsroom che circoscrive il problema dell’informazione nel conflitto tra ricerca di qualità e necessità di tiratura, partendo dal fatto che ci sia un rapporto inverso tra le due cose, cioè fondamentalmente che le persone preferiscono informazioni di bassa qualità. Ma il vero problema del giornalismo non risiede in questa alternativa qualità/quantità, ma proprio nella falsità di proporre questo dualismo come fondante di tutta l’informazione. E non si tratta tanto della colonna destra di Repubblica con le immagini di gattini e donne nude, quanto sulla colonna sinistra (anche se ormai sempre più sottile), cioè sui contenuti veri e propri. Se fosse predominante la necessità di tiratura avremmo un giornale come una merce passiva, che deve adattarsi ai gusti dei suoi consumatori. Ma la verità è che un giornale è in prima linea a determinare schemi mentali (e quindi gusti politici, culturali, di consumo…) per lo meno all’interno di un certo target di riferimento: la Repubblica la sinistra liberale, il Corriere la destra illuminata, il Fatto Quotidiano i Cinque Stelle e frange radicali, e così via.
Il vero problema risiede non in un abbassamento “neutro” della qualità dell’informazione, ma di una sua continua strumentalizzazione per i fini propagandistici del proprio settore di interesse sul proprio target di riferimento, avanzati nella maniera più subdola possibile in quanto nascosti dall’ideologia dell’informazione libera e indipendente il cui unico obiettivo sarebbe quella di dare informazioni accurate e corrette ai lettori.
Ogni volta che apriamo un giornale, cartaceo e online che sia, dobbiamo tenere bene a mente tutte le tecniche comunicative di cui sono a disposizione, anche quelle che sembrano delle stupidaggini: la grandezza del titolo di copertina, la semplificazione dei concetti nel titolo, l’uso delle immagini, l’ordine delle notizie che segna una vera e propria gerarchia, l’uso di “virgolettati”, l’uso di un termine connotato piuttosto che di uno neutro… “Leggere” effettivamente un giornale presume non solo leggere le notizie che questo riporta, quanto sforzarsi di comprendere quelle che potremmo definire “metainformazioni”, che se analizzate correttamente possono aiutarci a capire gli interessi e gli scopi di quel giornale.
Si rivela in questa costruzione il ruolo fondamentale del direttore che detta la linea politica del proprio giornale creando un modus operandi standardizzato per tutti i giornalisti.
Dove girano molti soldi, girano molti interessi, per cui credere nell’autonomia e nell’imparzialità dei canali di comunicazione rimane una brutta illusione. Forse i migliori sono veramente gli organi ufficiali di partito o comunque i media fortemente connotati dal punto di visto ideologico, in quanto si può pesare il valore degli articoli conoscendo la base politica di partenza.
Insomma, non bastano delle situazioni realistiche a rendere di The Newsroom una serie reale, senza una riflessione che si espanda dagli interessi economici a quelli politici.
Come nella rivelatrice puntata di Boris in cui, per scegliere come caratterizzare un personaggio negativo, bisogna aspettare l’esito delle elezioni.
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