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True Detective, ovvero: i dispiaceri del vero poliziotto

Nel mare in tempesta dei fan che già prima dell’inizio di questa seconda stagione ritenevano sostanzialmente impossibile riuscire a superare le vette della prima, True Detective è approdato alla sua conclusione dopo otto puntate in cui si è andati a scavare nel cuore più oscuro degli Stati Uniti, tra corruzione, segreti e un passato che torna, o meglio, che non riesce ad andare via.

Siamo a Vinci, nient’affatto ridente cittadina immaginaria della California, dove la qualità dell’aria è a livelli terrificanti e dove, come in ogni provincia del mondo, ognuno ha qualcosa di più o meno grande da nascondere. I nostri eroi sono tre sbirri e un malavitoso: abbiamo Ray Velcoro (Colin Farrell), baffuto e violento, in pesante crisi familiare, Ani Bezzeridis (Rachel McAdams), detective un po’ ninfomane, un po’ depressa e con un’infanzia devastante passata tra gli hippy, e poi Paul Woodrugh (Taylor Kitsch), agente in motocicletta, reduce di guerra, omosessuale che non riesce ad ammettere con nessuno di esserlo e infine abbiamo Frank Semyon, criminale alla ricerca del salto di qualità, ‘dritto’, cattivo ma, come da tradizione, con un codice morale tutto suo e non del tutto disprezzabile.

La trama è complicatissima: tutto ruota intorno all’omicidio del city manager Ben Caspere e alla costruzione di un’enorme autostrada che fa gola ai poteri fortissimi della città di Vinci e tanti altri. Le cose, puntata dopo puntata, ovviamente vanno complicandosi ulteriormente, mentre la vita dei protagonisti scende sempre più verso gli inferi. Intorno le cose sembrano sempre uguali, ma in realtà le forze oscure si agitano in continuazione sullo sfondo, e alla fine c’è la resa dei conti, non epica come nei western, ma desolante com’è spesso la realtà.

L’acclamato showrunner Nic Pizzolatto dopo aver esplorato le profondità metafisiche nella prima serie di True Detective, questa volta si fa politico, molto politico: il dramma (perché di questo si tratta, nel senso più classico del termine) si consuma un centimetro alla volta, si parla di corruzione, di una società corrotta, di persone corrotte, di speculazioni mostruose, poliziotti corrottissimi, politici che barano, degrado coperto dai lustrini luccicanti dell’american dream, di un fine ultimo che viene riassunto dalla frase: abbiamo il mondo che ci meritiamo.

Ma sarà vero? Qui il riferimento è la scuola di Francoforte, e la dialettica negativa di Marcuse: se Hegel diceva che tutto ciò che é reale è razionale, perché, per esempio, nel mondo i poveri sono sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi? Vi appare razionale questa realtà? No, però è quella che ci meritiamo, dice Pizzolatto per ore e ore di serie, quando rallenta all’inverosimile o quando accelera come un dannato. Tra citazioni di David Lynch (una presenza costante per tutta questa seconda stagione), rimandi a Casablanca e Viale del Tramonto (la memorabile puntata finale), sparatorie e un senso di desolazione che trova uno sbocco nelle tante scene della cantautrice triste che si esibisce nel locale con la sua chitarra (appare nel finale di quasi tutte le puntate), le conclusioni che alcune hanno bollato come “telefonate” in realtà sono “inevitabili”, come Raymond Chandler aveva prescritto quando parlava della ricetta per il noir perfetto.

E così, i veri detective si trovano a combattere una guerra che sanno di non poter vincere, sempre più incastrati, sempre più compromessi, messi sempre peggio nell’abisso di una cittadina che potrebbe essere un punto qualsiasi sulle cartine geografiche e che in realtà è la riduzione in scala di una società tardocapitalista che non può fare altro che riflettere sulla sua inevitabile fine, senza schiamazzi, senza fuochi d’artificio, in un lento e inesorabile affondare nella palude.

Alla fine della prima stagione, i due detective protagonisti (gli incredibili Matthew McConaughey e Woody Harrelson) concludono che, benché la notte sia oscura, le stelle stanno in cielo a significare che la luce sta vincendo. Alla fine della seconda, il buio inghiotte tutti, ma forse una speranza ancora c’è, l’inganno si può ancora svelare in qualche modo, anche se la battaglia è irrimediabilmente perduta e i generali sono tutti morti. La splendida intro di Leonard Cohen, in fondo, lo dice sin dall’inizio: “Nevermind”: non fa niente.

La storia, anche quando si mette male, non finisce mai, e chi muore è sconfitto, ma mai definitivamente arreso: sono (solo) i dispiaceri del vero poliziotto.

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