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Controcultura: L’invisibile ovunque, di Wu Ming

Nel dicembre del 1915, a qualche mese dall’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale, sul fronte italo-austriaco terminava, con un nulla di fatto (e migliaia di morti da parte italiana quanto austriaca), la quarta battaglia dell’Isonzo. Nei due anni di guerra seguenti, su quel fronte, altri otto lunghi scontri avrebbero atteso i soldati delle due nazioni; a centinaia di migliaia dei quali fu riservata una morte atroce, mutilazioni, nonché profondi traumi psichici per chi magari aveva “fortuna” di scampare alle bombe e ai proiettili. Sugli altri teatri di guerra la situazione era la stessa. Yvan Goll, poeta franco-tedesco vicino al surrealismo, scrisse che in quegli anni la guerra correva “come un muro grigio intorno all’Europa”, e tanto era penetrata nella vita di tutti che era “l’invisibile ovunque”. Proprio quest’ultimo verso dà il titolo al più recente lavoro del collettivo Wu Ming.

Come il gruppo di scrittori ci ha abituato in questi anni, gli elementi di fiction nel romanzo sono molto ben mescolati a inserti documentali, frutto di scrupolose ricerche storiche. Anche se l’oggetto letterario in questione non si può propriamente inserire nel genere del romanzo storico codificato. Si tratta di quattro racconti, cui corrispondono quattro diverse angolazioni per puntare lo sguardo su uno degli eventi capitali del XX secolo. Il tema che unisce queste diverse narrazioni è quello della fuga dagli orrori della trincea. Una fuga che prende forme diverse: quella della simulazione della “follia di guerra” per ottenere l’esonero dalla leva militare; quella della “follia” dell’arte e del paradosso, la sola in grado di svelare la vera dissennatezza del furore guerrafondaio; e anche quella, dai risvolti più oscuri, dell’arditismo.

Per quanto queste storie siano separate, esiste una sottile rete di rimandi, di ricorrenze e di simboli che le lega – ad esempio il continuo riferimento a nugoli d’insetti di vario tipo, immagine che si associa ai battaglioni di soldati al massacro. Un congengo narrativo che ha l’intento di farla finita, una volta per tutte, con il mito del “sacrificio per la Patria”, con la religione della morte gloriosa, gravida di fascismo. Dunque si punta tutto sul racconto dell’“ingloriosa” diserzione, del rifiuto di farsi scannare dalle sventagliate delle mitragliatrici o dalla pioggia delle bombe da mortaio. Così si prende per mano il lato migliore dell’avanguardia storica, quella del surrealismo di André Breton e di Jacques Vaché (figure paradossali del terzo racconto), si valorizza il gesto artistico in grado di “trasforma[re] l’arte in vita salvata”, contrapposto al gesto estetizzante dannunziano, all’elogio futurista della “guerra sola igiene del mondo”. Il linguaggio dell’arte rivoluzionaria è tanto (volutamente) in contrasto con lo spirito del tempo da rendersi incomprensibile a chi è ubriaco di bellicismo. Quindi dall’invisibilità diffusa della guerra, dimensione che pervade tutte le forme di vita sociale, il racconto finale ci pone di fronte a un tipo diverso d’invisibilità, di chi tenta di salvarsi la pelle, magari in attesa che i nodi vengano al pettine e che la talpa della storia faccia il suo lavoro.

A noi che ancora oggi abbiamo di fronte un’Europa cinta ai suoi confini da un “muro grigio”, un anello infuocato d’indicibili massacri – senza dimenticare quelli che (grazie agli apprendisti stregoni esportatori di “missioni di pace”), ritroviamo al suo interno –, un così salutare elogio della diserzione e del rifiuto della guerra dovrebbe far balenare uno spiraglio di luce.

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