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Kiev: guerra al Donbass e regali alla Turchia

Colpi di mortaio e artiglierie ucraine si sono di nuovo abbattuti la notte scorsa sulla periferia di Donetsk, in particolare nell’area di Dokučaevsk, a sud del capoluogo della DNR. La sera precedente, a essere colpito dai tiri ucraini era stato il villaggio di Spartak, a nord di Donetsk. E’ ormai oltre un mese che le forze di Kiev martellano giorno e notte i centri abitati posti lungo la linea di demarcazione con le milizie popolari, in quell’area cuscinetto che, secondo gli accordi del “Minsk-2” del febbraio 2015, dovrebbe essere sgombra da armi pesanti, allontanate a oltre 30 km dal fronte e invece provocatoriamente riportate in linea dalle forze ucraine.

Non ha difficoltà il leader della Repubblica popolare di Donetsk, Aleksandr Zakharčenko, a dichiarare che la soluzione pacifica del conflitto nel Donbass è stata congelata, prima ancora di prendere il via. “Non viene rispettato nemmeno il primo punto degli accordi, quello sul cessate il fuoco”, ha dichiarato Zakharčenko; “gli altri punti, o non vengono osservati, oppure Kiev finge di applicarli. La ragione è semplice: Kiev spera che, prima o poi, riuscirà a risolvere il conflitto con la forza”. Nonostante tutto, ha detto ancora Zakharčenko, la DNR considera tuttora il lavoro del Gruppo di contatto (la cui ultima riunione si è svolta a Minsk lo scorso 6 aprile) “utile e fruttuoso”. Gli accordi del “Minsk-2” (il primo vertice di Minsk si era tenuto nel settembre 2014) sottoscritti dal cosiddetto “quartetto normanno” – Merkel, Hollande, Putin e Porošenko – avrebbe dovuto costituire non solo la road map del processo di pace nel Donbass, bensì un documento giuridico internazionale, nell’ambito del quale si sarebbero dovuti compiere tutti i successivi passi per il superamento della crisi ucraina, secondo un grafico di interventi per tutto il 2015. E invece, la maggior parte di quegli interventi è rimasta sulla carta; oppure, come nel caso delle armi pesanti (carri armati, artiglierie e mortai di calibro superiore ai 100 mm; sistemi lanciarazzi, ecc.), l’iniziale ritiro a debita distanza è stato seguito dal loro ridislocamento, da parte ucraina, in prossimità del fronte.

In più di un’occasione, gli osservatori Osce – il cui numero, da circa 500, dovrebbe essere ora portato a 800 – controllando i depositi di carri e artiglierie ucraini negli alloggiamenti ufficialmente comunicati, lontani dal fronte, non ve li hanno rinvenuti. Anche il punto degli accordi di Minsk sullo scambio di tutti prigionieri, è rimasto sostanzialmente inattuato. Problematica anche l’attuazione dell’accordo sulla ricostruzione di acquedotti, linee elettriche e ferroviarie, strutture economiche del Donbass, danneggiate o distrutte dalla guerra, il primo passo della quale dovrebbe essere lo sminamento delle zone interessate, che sembra procedere con moltissima difficoltà. Ma, alla base del “congelamento” del processo di pace, è sempre il rifiuto di Kiev di aprire un dialogo diretto con le Repubbliche popolari e l’evidente simulazione di addivenire a un accordo sulle elezioni locali nel Donbass e sul suo futuro status politico-istituzionale.

Quanto poco la junta di Kiev sia interessata a qualsiasi soluzione pacifica e miri solo a guadagnar tempo nella questione del Donbass, lo testimonia l’ultimo dei progetti messi a punto per il versante sudorientale dell’Ucraina e che prevede la creazione di un centro autonomo dei tatari di Crimea nella regione di Kherson. Secondo il progetto, quest’ultima si chiamerà d’ora in poi Autonomia nazionale crimeano-tatara e la città stessa di Kherson verrà designata col nome turcofono di Khan-Geray, in onore al sultano che avrebbe liberato la Crimea dall’Orda d’Oro. Secondo Pravda.ru, nella nuova entità si insedieranno circa 200mila turchi-meskhetini; considerando che oggi in Ucraina non vivono più di 10 mila turchi-meskhetini, nota Pravda.ru, “si può parlare di una volontaria svendita di territorio ucraino che verrà così occupato”. Da chi? Ricordando le richieste avanzate da tempo in proposito dal cosiddetto Medžlis dei tatari di Crimea e, più di recente, le richieste di aiuto economico rivolte da Porošenko a Erdoğan, pare che il territorio di Kherson debba andare a garanzia di tali prestiti finanziari e un passo non insignificante sull’espansione turca nella regione. In tale contesto, conclude Pravda.ru e se “il progetto andrà davvero in porto, appare quantomeno ipocrita il duraturo rifiuto di Kiev di concedere l’autonomia al Donbass”, mentre si sta direttamente svendendo a potenze straniere un’altra porzione di territorio ucraino.

A coronare lo stile “democratico europeista” dei golpisti ucraini, un ulteriore episodio sulla strada della “eurointegrazione sui valori della libertà occidentale” perennemente osannati da Kiev: dopo l’assassinio dell’avvocato Jurij Grabovskij, difensore di uno dei due cittadini russi, Aleksand Aleksandrov e Evgenij Erofeev, detenuti in Ucraina dal maggio 2015 con l’accusa di essere esploratori del GRU, l’intelligence militare russa, la notte scorsa è andato a fuoco, a Kiev, lo studio del giudice che presiede il caso, Nikolaj Didyk. Casualmente (?), la nuova seduta del dibattimento avrebbe dovuto tenersi oggi; così che ora la loro detenzione potrà ulteriormente protrarsi. Ma questo non tocca certo le preoccupazioni di Petro Porošenko, oggi più che mai impegnato a districarsi tra le nuove ditte offshore (Agroprodimrex Corp., con base nell’area offshore del Delaware, Agroprodimrex Cyprus Limited, Willenhall Traiding Limited, Fairdrook Enterprises Limited, nell’isola di Man e la panamense Ukrprovinvest Holding Limited.) appartenenti a “Ukrprominvest”, che fa capo al povero Petro e che i media ucraini avrebbero scovato, in aggiunta a quelli recentemente pubblicati dal Dipartim… ops!, dal Consorzio internazionale di giornalismo investigativo. I materiali sarebbero stati recuperati da una causa intentata nel 2003 contro Porošenko, quando questi era all’opposizione dell’allora presidente Leonid Kučma. Un altro macigno che incombe sulla testa del Tantalo ucraino.

Fabrizio Poggi

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