Cari ragazzi,
sento il bisogno di scrivervi perché vi ho sempre considerati soggetti di diritto e mai semplicemente studenti. Mi rivolgo a voi perché questo, dopo tanti anni d’insegnamento, è il mio modo naturale di situarmi nel mondo, perché è a voi che ho cercato di trasmettere, nel tempo, quel senso permanente di scomodità che consiste nel non sentirsi mai a proprio agio, nell’avvertirsi sempre un poco fuori posto o, come sosteneva Adorno, nell’interpretare la forma più alta di moralità non sentendosi mai a casa, nemmeno a casa propria.
Non ho mai avuto quel pudore che induce buona parte degli insegnanti a rimanere dietro un’impenetrabile coltre, in nome di una presunta neutra “professionalità”. Sono sempre stata – oggi direbbe qualcuno – “politicamente scorretta”. D’altronde vi ho sempre insegnato che non esistono narrazioni fattuali oggettive, ma che dietro ogni narrazione c’è una soggettività che rimanda a un preciso orizzonte valoriale. La memoria è oblio. Dietro i “non-detti” ci sono i nostri “detti”. Provate a scrivere la vostra biografia in dieci righe e scoprirete che dietro la vostra narrazione si nascondono tagli e amnesie più o meno consapevoli perché nessuna narrazione potrà mai espungere la soggettività, nemmeno nella scuola delle “competenze”. E se è vero che ogni nostro atto è implicitamente espressione dell’intera personalità di chi lo compie, comunque, con voi, mi sono sempre dichiarata apertamente: ”ragazzi, la vostra insegnante, prima di essere insegnante, è antifascista”. In questa dichiarazione, declinata in una specie di patto d’aula, era ed è compresa la mia assunzione di responsabilità e di tensione morale nei vostri confronti. Era ed è un modo per ri-orientare l’azione didattica verso uno sforzo comune di giustizia, un impegno collettivo volto a realizzar-ci attraverso e non contro l’altrui dignità, fuggendo così dal rischio delle ovvietà e delle sclerotizzazioni. La politica è una cosa troppo importante: non può essere lasciata nei gangli dei dispositivi di potere.
Nel continuo fare riferimento ai valori della Resistenza, volutamente sono stata con voi anti-celebrativa, poco sacerdotale, poco agiografica, fedele alla lezione di Calvino. Piuttosto ho inteso la Resistenza come “educazione in atto”. Non mi sono mai piaciute le celebrazioni, come i “tre minuti di silenzio” dopo il suono della campanella: sono troppo museali, servono, ma solo apparentemente, a emendare coscienze. La moralità nasce dal conflitto, non dalla paralisi, né dalle pacificazioni o dalle indistinzioni. Non possiamo sottrarci a una storia comune, ma possiamo, dobbiamo discernere. Eppure, è inutile nasconderci – lo avverto incrociando lo sguardo di qualcuno di voi – quell’azione didattica, declinata sul “paradigma antifascista”, sembra oggi un pezzo di antiquariato. Certo, quel paradigma, da troppo tempo è in crisi. E a questa crisi hanno magistralmente contribuito la pretesa di una pacificazione fondata sull’indistinzione, le memorie condivise e, infine, la smobilitazione delle coscienze critiche in nome di nuovi populismi. E mentre tutto ciò accadeva, al subconscio dei meno attenti, passava, senza particolari azioni di contrasto, l’idea di essere parte di un progetto globale declinato su nuovi leaderismi. Nel frattempo, mentre si consumava il processo di sdoganamento del fascismo, le parole cambiavano di senso e gli antifascisti diventavano gli “antagonisti”: una mutazione genetica che si ricapitola all’interno di ciò che Calvino avrebbe efficacemente definito “antilingua”.
“Caratteristica principale dell’antilingua è quello che definirei “terrore semantico”, cioè la fuga di fronte ad ogni vocabolo che abbia di per se stesso un significato ……Nell’antilingua i significati sono costantemente allontanati, relegati in fondo a una prospettiva di vocaboli che di per se stessi non vogliono dire niente o vogliono dire qualcosa di vago e sfuggente….” (Calvino, L’ANTILINGUA, 1965)
L’antilingua è ciò che ci allontana dal senso, dalla familiarità, dai fondamenti. Così stiamo perdendo lo status di antifascisti e stiamo diventando gli antagonisti, i perturbatori, i destabilizzatori, almeno per le vestali del dettato di J. P. Morgan e dei liquidatori a buon mercato delle Costituzioni antifasciste. Non è stato poi così difficile partorire questa mostruosità: l’antifascismo, in questo paese non si è mai costituito quale reale elemento fondativo della nostra memoria collettiva. Tanti, troppi, sono stati i percorsi ad ostacoli, in primis la mancanza di una “Norimberga italiana”. Il risultato è che, a colpi di revisionismo, abbiamo superato anche le omologazioni tra vittime e carnefici: i nuovi fascisti che fanno marcette su Roma diventano i “bravi ragazzi” e gli antifascisti diventano gli “antagonisti”, con tutta la carica semantica di negatività che il termine comporta per i media mainstream.
Da troppo tempo, purtroppo, anche gli storici hanno perso il primato nell’interpretazione eventi e delle loro specificità e questa perdita di monopolio ha favorito il libero sfogo delle delegittimazioni.
Chiudo questa lettera, cercando di neutralizzare l’amarezza con una bellissima metafora di Bloch: “il bravo storico è come l’orco della fiaba. Egli sa che là dove fiuta carne umana, là è la sua preda”.
Io continuerò, per quanto mi sarà possibile, a fare l’orco. Continuerò a interpretare il mestiere d’insegnante sollecitandovi a non agire mai in nome di un presunto “Befehl ist Befehl” e, a settembre, quando incontrerò nuovi studenti, per prima cosa dirò loro: “ragazzi, la vostra insegnante, prima di essere insegnante, è antifascista”.
Patrizia Buffa, insegnante
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