“Se il racconto serve a non ripeterlo più.
Se il racconto. Serve. A non ripeterlo più.
Se non continuiamo a contare le pezze
e a fare a pezzi persone, diritti,
giustizia, città e storie”
(Simona Baldanzi)
L’Italia è al primo posto in Europa per numero di caduti sul lavoro: 1172 persone sono morte per cause riconducibili ad esso, di cui 878 direttamente sul luogo di lavoro. Sono dati del 2015, in aumento rispetto all’anno precedente. La nocività del lavoro e di conseguenza morti e infortuni aumentano con l’aumentare della precarietà. In Italia si muore di lavoro per non morire di fame. O si muore di tumore in cambio del salario, come nel caso di Taranto.
Il libro “Mai senza rete” (Marotta & Cafiero editori) promosso dalla Rete Iside, in collaborazione con il sindacato Usb, si inserisce in un percorso informativo e formativo e promuove la creazione di reti di sensibilizzazione e protezione contro lo sfruttamento e la nocività del lavoro.
Dodici scrittori e un’illustratrice provenienti da realtà geografiche e culturali differenti, si sono messi in gioco, prestando la propria penna e la propria arte per aprire una discussione vera su un tema spesso ignorato, o affrontato marginalmente dai media.
Oltre i dati statistici, il libro racconta storie che ci riguardano, perché interessano direttamente la nostra vita di cittadini e lavoratori. Il lettore è risucchiato dentro la narrazione; non vi è distacco possibile tra la vita reale e la letteratura, perché siamo noi, o qualche familiare, o amico, ad aver vissuto le situazioni e le parabole di possibilità narrate nel libro. Siamo noi a vivere il disagio di situazioni lavorative che precarizzano l’esistenza e bloccano le prospettive di futuro.
Perché non solo di morti, infortuni e ipersfruttamento si parla, ma soprattutto di qualità complessiva della vita di ciascuno di noi: lavorare dignitosamente e in sicurezza è un nodo centrale dei diritti di cittadinanza, di cui lobbies imprenditoriali e politiche si riempiono la bocca ma che, in pratica, svuotano di sostanza.
Le storie costringono a guardare la faccia sporca dell’Italia; ci fanno entrare nei capannoni di Prato, dove trovarono la morte sette operai costretti a mangiare e dormire in fabbrica; il racconto è fatto di frasi spezzate, scomposte, come le esistenze dei tanti lavoratori migranti che vivono in condizioni molto vicine alla schiavitù: chi non muore, è “incatenato” alla macchina da lavoro o chinato per dodici ore su un campo per raccogliere gli ortaggi che finiscono sulla nostra tavola.
Nessuno vuole rischiare la propria vita, ma tutti hanno una famiglia da mantenere o un’esistenza da progettare. Il libro attraversa l’Italia e le mille forme di precarietà che connotano il lavoro. Le parole rimandano le istantanee degli operai che cadono dai ponteggi, spesso privi delle protezioni a norma di legge; di coloro che ogni giorno devono fare i conti con le logiche affaristiche dei poteri mafiosi; dei tanti precari che lavorano nel settore sociale, costretti a cavarsela nonostante i tagli ai bilanci che rendono impossibile lavorare senza subire pesanti ripercussioni fisiche e psicologiche.
Il cerchio si chiude idealmente a Taranto, simbolo della nocività del lavoro. Recentemente anche la Corte di Strasburgo ha aperto una procedura contro l’Italia per non aver protetto la vita e la salute dei tarantini.
Tutto sembra normale, anche il ricatto occupazionale contro il diritto ad una vita degna e in salute. A Taranto si muore di malattia a causa dell’Ilva, mentre il governo continua a sfornare decreti ad hoc che non portano a nulla. Nella fabbrica post-Riva, l’unica novità rilevante sono le mascherine contro le polveri, mentre lo Stato cerca il privato di turno a cui svendere l’azienda. A Taranto si muore su una gru obsoleta, senza collaudi né dispositivi di sicurezza: è successo a Francesco Zaccaria, 29 anni, seppellito dal mare, ammazzato dalla rapacità del peggior capitalismo nostrano.
In Italia, grazie al Jobs Act renziano, i lavoratori assumono contorni sempre più incerti a metà tra volontari, precari, apprendisti, soggetti licenziabili per il profitto materiali del padrone di turno. Così si è spesso costretti ad accettare tutto, a passare sopra i propri diritti di cittadino prima ancora che di lavoratore. E se va bene siamo precari, se va male una bara al cimitero.
Eppure morire di lavoro non è inevitabile e non è normale, questo è il messaggio della campagna lavoroinsicurezza.org di Rete Iside. Pretendere l’applicazione delle leggi in materia di sicurezza è il primo passo per cambiare l’esistente: non solo è possibile ma imprescindibile.
Pina Zechini
(Il progetto editoriale non ha fini di lucro. I proventi della vendita del libro saranno devoluti al progetto lavoroinsicurezza.org-mai senza rete. Maggiori informazioni sul sito www.reteiside.org e www.lavoroinsicurezza.org)
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