Il caso Rapotez e il contesto triestino degli anni cinquanta.
A poco più di un anno dalla sua morte, la storia di Luciano Rapotez, partigiano comunista e in seguito dirigente dell’ANPI viene rievocata da un nuovo libro, curato da Diego Lavaroni ed edito da Mimesis (Luciano Rapotez Colpevole perché partigiano, Milano-Udine Mimesis edizioni, 2016, pag.233, €18, con in’introduzione di Moni Ovadia). Questo libro, a differenza di altri usciti sul “Caso Rapotez” è una biografia, scritta però come una simulazione autobiografica.1 In pratica, Diego Lavaroni ha dato forma di narrazione autobiografica alla stesura di una quantità di registrazioni e di appunti raccolti in numerosi colloqui con Luciano Rapotez avvenuti negli ultimi anni della vita del partigiano triestino. Ne esce un quadro completo della vita di Rapotez, articolato in due parti: la prima narra dell’infanzia e della gioventù del protagonista, militante comunista a 16 anni, attivo nelle lotte degli antifascisti triestini durante la dittatura fascista, quindi partigiano, infine alla ricerca di una stabilità familiare ed economica nel periodo della ricostruzione nel complesso scenario del territorio di Trieste. La seconda parte del libro è invece dedicata alla vicenda poliziesca e giudiziara che travolse dal 1955 in poi la vita di Rapotez, proprio nel momento – ci racconta – in cui alcune fortunate vicende professionali gli consentivano di immaginare un futuro sereno.
Fu proprio in una sera dell’inverno 1955 che Luciano Rapotez fu arrestato con modalità aggressive e provocatorie (un poliziotto gli puntava la pistola urlandogli di scappare, gesto che evidentemente avrebbe provocato la sua immediata uccisione) con l’accusa di aver efferatamente assassinato, ben nove anni prima, un noto orefice triestino, Giusto Trevisan, e le di lui fidanzata e governante.
Quell’omicidio, i cui responsabili e movente non erano stati individuati (e sostanzialmente non lo sono ancora oggi) fu imputato a un gruppo di cinque ex-partigiani impegnati a diversi livelli nel PCI. Per l’azione fu anche inventata una motivazione politica: Trevisan sarebbe stato un fascista e quindi il suo omicidio avrebbe avuto origine in un vendetta politica. Tuttavia Trevisan, poco interessato alla politica, non era mai stato fascista, e in seppur poche occasioni –riferisce Rapotez- era stato notato intrattenersi presso la Casa del Popolo di Chiampore, gestita da Bruno Braini, un altro degli imputati.
Dopo l’arresto, iniziò per Luciano Rapotez e per i suoi compagni un vero calvario di torture paragonabili solo a quelle praticate dalla famigerata banda Collotti, specializzata nelle sevizie ai partigiani durante il periodo dell’Adriatisches Kűnstenland, come i tedeschi avevano denominato la zona d’operazioni intorno a Trieste, direttamente sottoposta al loro comando. Le torture, protrattesi ininterrottamente per giorni e notti, fino a ridurli in fin di vita, riuscirono nel loro intento di estorcere ai cinque comunisti delle confessioni fittizie, rilasciate solo per sottrarsi a ulteriori sofferenze e forse alla morte. Iniziò così per i partigiani un lungo periodo di detenzione preventiva in cui nessuno sembrò dare loro udienza rispetto a quanto avevano subito2, sino al processo svoltosi nel 1957.
Il processo, estremamente combattuto, diede la possibilità agli imputati di denunciare le torture che avevano provocato le loro false confessioni e di smontare il castello di accuse inventate contro di loro dalla questura triestina. Importanti furono anche le testimonianze dei familiari della vittima, ma soprattutto quelle delle persone che la sera del delitto avevano visto Rapotez nientemeno che su un palco, che suonava la fisarmonica in un’affollata festa da ballo. Al contrario, i testimoni prefabbricati dall’accusa caddero in contraddizioni e furono smentiti. Alla fine, Luciano Rapotez e Bruno Braini furono assolti per insufficienza di prove, mentre i loro tre compagni furono condannati a 10 anni di prigione con la singolare motivazione di avere progettato l’omicidio anche senza averlo mai attuato. Nel processo d’appello Rapotez e Braini furono assolti per non avere commesso il fatto, mentre la condanna fu confermata ai loro compagni. Inoltre, nel processo d’appello fu imputato un altro personaggio, figura marginale della lotta di Resistenza, che nel processo di prima istanza era stato il grande accusatore degli imputati, che fu alla fine condannato a 14 anni per avere commesso l’omicidio, senza tuttavia chiarire le ragioni di tale atto né chi ne fosse stato complice. Costui morì in carcere pochi anni dopo, a soli 43 anni, portando con sé molte verità probabilmente scomode.
La vicenda giudiziaria a cui fu sottoposto Rapotez, pur se si concluse con l’assoluzione nei tre gradi di giudizio (anche la Cassazione la confermò) ne distrusse comunque la vita familiare e professionale. All’uscita dal carcere, infatti, scoprì che la moglie, oppressa dalla durissima vita che conduceva, aveva deciso di costituire un nuovo nucleo familiare con un altro uomo. I tentativi di Rapotez di poter avere l’affidamento dei due figli furono frustrati dalla motivazione della sentenza di primo grado, quella “insufficienza di prove” che diede la possibilità al giudice incaricato dell’affido di insinuare ancora un dubbio di colpevolezza. Rapotez emigrò in Germania, dove rimase per oltre venti anni ma non dimenticò mai le ingiustizie a cui era stato sottoposto: oltre alle torture, la distruzione della sua famiglia e il linciaggio mediatico orchestrato dalla stampa e in particolare dal Piccolo di Trieste. Avanzò decine di istanze e di richieste a tutte le istituzioni affinché gli fosse riconosciuto almeno un risarcimento simbolico per la detenzione ingiusta, ma non ottenne mai nulla. Tutte le sue istanze furono rigettate, con motivazioni a volte davvero bizzarre, come il fatto che le torture a lui inflitte non facevano parte del modo d’agire di uno stato democratico, ma soltanto dell’accanimento personale di alcuni funzionari. Come se tali funzionari non fossero agenti di quello stato democratico (in cui peraltro nemmeno oggi esiste il reato di tortura).
Ricordare con una nuova pubblicazione il caso Rapotez mi appare un’operazione storica utile, non solo per rendere il dovuto omaggio al suo malcapitato protagonista, ma forse soprattutto per conoscere quale fosse la realtà della Trieste degli anni cinquanta e in particolare del primo periodo del ritorno della città alla amministrazione italiana. In coincidenza con la ripresa di controllo sulla città, il governo italiano allora presieduto da Mario Scelba, inviò a Trieste uno stuolo di dirigenti di polizia dal provato passato e dalla certa fede fascista, che si ingegnarono di realizzare una serie di montature a danno dei partigiani e in particolare dei comunisti. Il progetto, che poté avvalersi, come denuncia Rapotez, della sostanziale continuità istituzionale tra la dittatura fascista e il nuovo regime democristiano aveva come fine quello di montare un clima nazionalista e sciovinista antislavo e anticomunista e anche di vendicarsi dei partigiani comunisti che peraltro in diverse occasioni avevano collaborato con quelli sloveni. La scelta quindi cadde, non a caso, su Luciano Rapotez, militante comunista di vecchia data, partigiano (anche se piuttosto vicino alle posizioni più “italiane” nel Partito, come leggiamo nel libro) e con un cognome slaveggiante, che solo per il discernimento di un ufficiale antifascista non era stato costretto, al suo arruolamento nell’esercito, a mutare in Rapoticchi.3 Lo spirito di vendetta che animava i poliziotti torturatori è peraltro ben testimoniato dalle frasi che costoro rivolgevano a Rapotez e ai suoi compagni, volte a insultare e umiliare il loro passato partigiano.
Il caso Rapotez deve essere inquadrato dunque in un contesto ampio, poiché non fu affatto esito dell’iniziativa personale di qualche poliziotto fascista, ma rispondeva a un progetto politico nazionalista e revanchista che aveva nel governo Scelba il suo orchestratore e nel Questore e nel capo della Mobile di Trieste i suoi esecutori.
Si tratta così di un caso che nella sua apparenza specifica consente invece di guardare in modo più disincantato anche su altre vicende della regione di Trieste che sono state variamente strumentalizzate e ingigantite dalla destra dalla fine della seconda guerra mondiale e purtroppo negli ultimi decenni anche da esponenti politici che si professano di sinistra o di centro sinistra. Mi riferisco per esempio alla questione della strage della malga di Porzûs, mai veramente chiarita ma oggetto del più importante processo antipartigiano della storia4 o alle speculazioni nazionaliste sulle foibe che sono state rilanciate negli ultimi anni in un contesto di pericolosa revisione storica5.
Eventi su cui è ancora oggi necessario un impegno per affermare un verità storica a cui anche questo libro mi sembra contribuire.
1 Sull’agghiacciante storia poliziesco-giudiziaria vissuta da Rapotez sono usciti in passato il libro di Giorgio Medail e Alberto Bertuzzi Il caso Rapotez, Milano, Mondadori, 1981, Luciano Rapotez : un caso giudiziario, a cura di Gloria Nemec, I quaderni di Qualestoria n.27, ed. IRSMLFVG, 2012. Sempre sul caso Rapotez esiste un film di Sabrina Benussi realizzato nel 2010 per Fuoritesto; la questione del mancato riconoscimento di un risarcimento dello Stato italiano a Rapotez fu sollevata anche da Gian Antonio Stella in un articolo sul Corriere della Sera il 4 giugno 2011.
2 Rapotez cita di alcuni gesti di carità verso la sua famiglia compiuti dal vescovo di Trieste, Monsignor Santin e di un apparente interessamento al suo caso, durante una visita al carcere, dell’allora ministro della giustizia Aldo Moro, rimasto tuttavia senza seguito.
3 Ancora oggi molti italiani di origine slovena e croata portano cognomi che tradiscono la pratica fascista delle “italianizzazioni”.
4 Per una dettagliata ricostruzione di quei fatti e del processo che ne seguì si può utilmente consultare il libro di Alessandra Kersevan: Porzûs, dialoghi sopra un processo da rifare, Udine, Kappavu, 1995. Per correttezza dell’informazione è bene dire che dal libro di Rapotez esce un’immagine piuttosto discutibile di Mario Toffanin “Giacca”, tuttavia in relazione a eventi che non riguardano i fatti di Porzûs, per cui fu imputato e condannato all’ergastolo. Toffanin, decorato al valore partigiano in Jugoslavia, fu in seguito graziato dal presidente Pertini nel 1978.
5 Per avere una documentazione ampia e ben contestualizzata della questione delle foibe si consiglia il testo di Claudia Cernigoi: Operazione foibe tra storia e mito, Udine, Kappavu, 2005.
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