In scena, all’Elicantropo, la pièce di Mayorga per la regia di Carlo Cerciello. un’occasione mancata
Quando, nel 2002, il Teatro Royal Court di Londra chiese ad alcuni drammaturghi, tra cui lo spagnolo Juan Mayorga -considerato uno degli autori più interessanti della scena internazionale- di scrivere un corto teatrale, della durata di dieci minuti, con riferimento alla politica del loro paese in quel preciso momento storico, la penna dello scrittore madrileno vergò la mini piéce “Il buon vicino”. L’allora capo del governo, in Spagna, era José Maria Aznar, uomo del Partito Popolare ma fortemente connotato a destra. E così, il fulcro ideologico del breve testo finì per addensarsi intorno a quella “Ley de Extranjería” –Legge sull’immigrazione clandestina, omologa della Bossi-Fini italiana– approvata, in quegli anni, proprio dall’esecutivo Aznar, con l’appoggio tacito, ad ogni buon conto, del PSOE (Partito Socialista Operaio Spagnolo). L’intento di Mayorga, come ha dichiarato egli stesso in un’intervista a “El Mundo”, era quello di denunciare le asimmetrie sociali e le storture nei rapporti interpersonali, che una simile legislazione può porre in essere. Di quella rappresentazione al Royal Court, poco sappiamo. Due anni dopo, però, in occasione dell’inaugurazione, nella capitale spagnola, della sala “La Guindalera”, l’autore madrileno ampliò quel corto originario, dando vita alla piéce che, nella forma attuale, prende il titolo di “Animali notturni”: titolo entrato, oramai, nel Pantheon della drammaturgia contemporanea, come, d’altronde, il suo autore. E “Animali notturni” è anche il titolo dello spettacolo che, dopo un primo allestimento al Napoli Teatro Festival, è approdato al Teatro Elicantropo, per la regia di Carlo Cerciello. Una tappa quasi obbligata, potremmo dire, quella della drammaturgia di Mayorga, per il regista napoletano e per il piccolo spazio di Via dei Gerolomini: spazio che dirige, esattamente da vent’anni – pur tra le mille difficoltà create da decreti ministeriali sempre più astrusi nei loro algoritmi, sbilanciati sul versante commerciale- insieme alla compagna Imma Villa. Ed è proprio Imma Villa una delle protagoniste dello spettacolo in questione, che la vede sulla scena insieme a Lello Serao, Sara Missaglia e Luca Saccoia.
Una tappa obbligata, dicevamo, quella di Mayorga, perché, se si considerano, da un lato, i temi di scottante attualità, affrontati dall’autore spagnolo nelle sue opere -tanto che mi piacerebbe definirlo “teatro della crisi ai tempi della globalizzazione”: l’immigrazione, la pedofilia, le discriminazioni socio-economiche sono alcuni dei motivi ricorrenti nei suoi lavori- e si contempla, dall’altro, la vocazione al teatro d’impegno civile e sociale, che ha sempre caratterizzato Cerciello e il suo spazio, allora non si può non concludere che, prima o poi, quell’incontro doveva esserci. D’altra parte, se Mayorga, sempre in un’intervista, rilasciata stavolta a Radio Popolare, afferma che il teatro è una forma di resistenza, un modo per riaffermare la Libertà, come alto valore umano, e per opporsi a quelle disparità economiche, sociali e politiche che, sempre più, ampliano le differenze tra le classi, emarginando i ceti sociali più deboli; il regista, dal suo canto, afferma, in quello che può definirsi, a tutti gli effetti, un manifesto politico-teatrale: «Il nostro è un teatro rivolto alla contemporaneità, all’analisi e alla denuncia delle tragedie dei nostri tempi, frutto del cinismo, della crudeltà e dell’arroganza di un potere senza storia e senza scrupoli che, proseguendo nel lucido e sistematico azzeramento dei più elementari diritti dell’uomo, mina alla base i valori della convivenza civile e della solidarietà». E allora, “Animali notturni” , proprio perché muove dal drammatico assunto dell’immigrazione clandestina, con l’intento di smascherarne gli effetti perversi, come il ricatto sociale e personale, che da tale condizione può derivare, sembrava essere il testo più idoneo ad incontrare la sensibilità registica di Cerciello e la sua visione politica. Era lecito, pertanto, attendersi dallo stesso Cerciello – conoscendone le indiscusse capacità di scrittura scenica e di adattamento dei testi, anche complessi, ad uno con l’originalità del segno, all’interno di una regia che si completa con quella che potremmo definire, grazie alle splendide invenzioni scenografiche di Roberto Crea, una vera e propria drammaturgia dello spazio- un lavoro coinvolgente, teso, forte, tanto sul piano formale quanto su quello della ricaduta nei termini di una riflessione sia politica che più strettamente individuale o esistenziale.
Ed invece, in quest’occasione, le attese sono state quasi del tutto deluse. Ci siamo trovati di fronte ad una messinscena che, per la maggior parte del tempo, è apparsa verbosa, apatica, opaca sul versante della seduzione intellettuale e appannata su quello dell’empatia con il pubblico; appiattita, in quella che dovrebbe essere la “corporea” trasposizione scenica del dettato drammaturgico, su una parola che, incapace di liberarsi dagli stretti recinti di una significazione univoca, resta vincolata al semplice statuto di enunciato, senza mai connotarsi di quel mistero, di quel non detto, insomma di quelle potenzialità sottotestuali -la musica delle nostre parole, come intendeva Stanislavskij il sottotesto– che riposano, latenti, nel ventre aperto di ogni significante scritto e che attendono di essere ridestate dalla melodia degli strumenti –i codici espressivi- che ogni attore ha a sua disposizione: l’intonazione e le sfumature cromatiche della voce, l’allusività di uno sguardo, la valenza descrittiva, straniante o addirittura schizoide di un gesto, l’attitudine posturale. Strumenti che, però, non intoneranno mai la musica giusta, non suoneranno mai la giusta nota, se non avranno ad accordarli l’elemento essenziale all’orchestrazione del corpo attoriale: l’ascolto. L’ascolto di sé, del personaggio che si porta dentro/fuori di sé –per dirla con De Berardinis- e degli altri attori/personaggi che, sulla scena, inter/agiscono. Per far ciò, tuttavia, bisogna innescare l’immaginazione, la fantasia, lo scorrere fluido dei pensieri, l’attenzione interiore, appunto, per le pieghe più nascoste, segrete del personaggio e, ri/velandole, creare un corto circuito con le proprie dimodoché, attraverso la “maschera” del personaggio si possa operare, paradossalmente, proprio il suo s/mascheramento e lo s/mascheramento dell’attore stesso.
In tal modo, in definitiva, l’attore può essere –come diceva Carmelo Bene- costantemente presente e costantemente assente, perché è lacanianamente altrove rispetto al discorso testuale che pronuncia; e non c’è, a quel punto, immedesimazione, perché non c’è né il personaggio che sovrasta, né l’attore che incombe: c’è semplicemente la vita. E, se si vuole, come nel caso del teatro di Mayorga, anche una vita depotenziata dell’azione ma condensata nell’atto. Un atto di parola, certo, ma anti retorico. La drammaturgia di Mayorga è una drammaturgia complessa e difficile da rappresentare proprio perché, tendendo all’irrappresentabilità, vira verso la scarnificazione scenica che porta a un'esaltazione della parola a scapito dell'azione: non perché l'azione non sia importante, ma perché ritenuta -per così dire – relativa, fallace, menzognera. Le parole scolpiscono, l'azione diluisce. A questo si aggiunga che “Animali notturni” è, proprio perché concepito in due momenti diversi, forse il testo più controverso scritto dall’autore madrileno, strutturato com’è intorno ad argomenti certo spinosi ma non sempre adeguatamente sviluppati e tra loro organici: l’immigrazione, la solitudine esistenziale, la quotidianità malata, l’alterazione di relazioni interpersonali anomale, quando non patologiche, a cui si somma l’allegoria ferina a precisarne il tratto, fino al rapporto di dipendenza che l’intellettuale, spesso, instaura col potere, anche se esso sia meschino. Una pièce, quindi, che può risultare macchinosa, disomogenea e dispersiva, nel suo svolgersi. L’unico elemento drammaturgico che lega, o avrebbe potuto legare tra loro, i diversi fili che si dipanano all’interno del testo di Mayorga, è quella crudeltà che imprime il suo marchio alle relazioni incrociate tra i quattro protagonisti –Uomo Alto-Donna Alta/Uomo Basso-Donna Bassa- il cui minimo comune denominatore è il rapporto vittima-carnefice. Ma si tratta di una crudeltà sottile, psicologica, mai evidente, suggerita, quasi sussurrata; fatta di allusioni, di intenzioni, di equivoci e fraintendimenti voluti, di segreti e di piccole menzogne. Una crudeltà mediocre, come mediocri sono vittime e carnefici, ma proprio per questo morbosa, viscida, ripugnante e finanche ridicola.
Il gioco perverso, sadomasochistico, che caratterizza i rapporti di forza in campo, è svelato fin dall’agnizione iniziale, quando l’Uomo Basso (Lello Serao), un piccolo borghese affascinato dalla cultura ma incapace di coglierne l’essenza, lascia capire al’Uomo Alto (Luca Saccoia), un intellettuale un po’ borioso, immigrato senza permesso di soggiorno, che se egli non gli avesse concesso la sua amicizia, lo avrebbe denunciato. Da quel momento, però, giocando a carte scoperte, proprio come in una partita di poker, in cui la posta è molto alta, ciò che conta è l’abilità dei giocatori nel far valere l’unica carta coperta: dunque, la loro capacità di tenere alta la tensione del tavolo, bluffando, rilanciando, seducendo gli altri giocatori. Nel caso di specie, cioè quello del teatro, i giocatori sono regista, attori e pubblico: ed i primi hanno proceduto timorosi, tra chip e rilanci a bassa intensità emotiva, con i secondi che sono stati al gioco, andando a vedere ma senza palpitazioni. Quello che voglio dire, uscendo fuor di metafora, è che uno spettacolo come “Animali notturni” avrebbe dovuto reggersi, per quanto abbiamo detto in precedenza, sulla soglia dell’abisso psicologico, sulla lama tagliente dell’allusione, verbale e non, sulle trame ordite non da intelligenze razionali –Mayorga non è Pirandello- ma da inconsci che, spinti al limite dell’horror vacui, da una società in cui l’unico oggetto di desiderio è la merce, anche umana, e dove, perciò, il soggetto è smarrito e la Legge interna, etica, sovvertita nel suo opposto, sono in preda a quel delirio schizofrenico che, Deleuze e Guattari, ne “L’anti-Edipo”, definirono il limite del capitalismo. Schizofrenia che produce, come conseguenza inevitabile, relazioni umane crudeli e improntate sull’equazione sadomasochistica vittima-carnefice. Per mettere in luce, però, gli “Animali notturni” che abitano gli abissi del capitalismo e della nostra psiche, regista e attori avrebbero dovuto procedere con un lavoro di scavo profondo, di incisione chirurgica sui personaggi, all’interno della loro psicologia e del loro linguaggio, analizzandone possibilità espressive e inceppi, pensieri e desideri. Lo stesso lavoro, conseguentemente, avrebbero dovuto eseguirlo anche sulla drammaturgia. Insomma, quello che doveva materializzarsi sulla scena erano proprio le intime e minime oscillazioni del sottotesto, quella che Stanislavskij chiama la “vita spirituale che scorre ininterrotta sotto le parole del testo ravvivandolo e giustificandolo per tutta la sua durata”.
Bisognava indagare tutta la gamma dei colori, tutti le sfumature tonali, tutte le connotazioni semantiche, tutti i registri possibili, presenti sul pentagramma drammaturgico e intrinseci ai personaggi. Bisognava, per parafrasare Proust, scandagliare un intero paesaggio emotivo. Ma, evidentemente, tutto ciò non è stato fatto. Cerciello, a differenza di altre volte, non ha saputo tirar fuori dagli attori il meglio; e lui stesso ha preferito una cifra registica poco incisiva. Malgrado la bellissima intuizione scenografica -il plastico di una città, allegoria di una vita ridotta in scala- affidata alla splendida mano di Roberto Crea – che si conferma uno dei migliori architetti teatrali italiani, tanto che proprio per questo spettacolo è candidato al premio Ubu- Creciello, questa volta, ha scelto di congelare l’azione -d’altronde, come abbiamo visto, è anche il teatro dell’autore spagnolo a richiedere questa linea- affidando, l’intera riuscita dello spettacolo, alle capacità degli attori. Questi, però, non sono stati all’altezza della sfida, tanto che, a tratti, i registri recitativi sembravano accavallarsi e non accordarsi tra loro.
Se Imma Villa e Lello Serao, però, si salvano grazie alla loro grande esperienza: la prima ritagliandosi il personaggio di una casalinga teledipendente, volutamente e fintamente ingenua, capace, poi, sul finale, di un’impennata di cattiveria e di opportunismo che dona vivacità ad uno spettacolo che si era, fino ad allora, trascinato un po’ stancamente; il secondo dando vita ad un piccolo borghese nevrotico, infido e viscido; pagano dazio, invece, alla loro immaturità artistica, Luca Saccoia e Sara Missaglia. Il primo è apparso quasi sedersi svogliatamente sul personaggio e sulle sue “parole”, mai capace di uno scatto di nervi, sempre trattenuto al punto di risultare inconsistente; la seconda si è attestata, comodamente direi, sul versante di un registro borghese, poco adatto, comunque, alle esigenze di uno spettacolo e di un testo che avrebbero richiesto altro spessore interpretativo. Certo, lo abbiamo detto precedentemente: per interpretare i lavori di Mayorga ci vogliono attori che sappiano mettere in gioco tutta un retroterra culturale, immaginativo e tecnico non indifferente. Dunque, forse, in questo senso, si può concludere che le responsabilità maggiori le ha proprio Carlo Cerciello, per la scelta di interpreti che non hanno saputo, o non hanno voluto, spingersi oltre la soglia della semplice denotazione semantica della parola e del personaggio che è chiamato a dirla. Ed infatti, la dicono e basta.
Parlando della “macchina attoriale”, Carmelo Bene fa riferimento a Nietzsche, il quale, riguardo al linguaggio e alla parola dice: «Ciò che nel linguaggio meglio si comprende non è la parola, bensì il tono, l’intensità, la modulazione, il ritmo con cui una serie di parole vengono pronunciate. Insomma la musica che sta dietro le parole, la passione dietro questa musica, la personalità dietro questa passione: quindi tutto quanto non può essere scritto». Ecco, è quanto, sempre riferendosi alla magia del sottotesto, avrebbero dovuto tirar fuori gli interpreti di “Animali Notturni”. Avrebbero cioè dovuto, in definitiva, svincolarsi dalle strettoie del banale enunciato per approdare sulle rive, affascinanti e aperte, dell’enunciazione che, come dice Lacan, resta nascosta in un altro luogo rispetto all’Io parlante «aprendo così la strada alle lusinghe ed alle menzogne del discorso. Pertanto, l’enunciato non dovrà mai essere preso in quanto tale ma come enigma, un rebus dentro cui il soggetto si nasconde». Quell’enigma, quel rebus da decodificare costituiscono, da sempre, il fascino del teatro. E, a maggior ragione, di una drammaturgia così stratificata e lapidaria come quella di Mayorga. Sta di fatto che questo “Animali notturni” è stato un’occasione mancata.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa