L’ultimo lavoro di Carlo Formenti (La variante populista, Derive e approdi, Roma, 2016) è talmente denso di riferimenti e attraversato da così tante tensioni concettuali – effetto del passaggio dell’autore da un paradigma teorico ad un altro – da costringere chi voglia abbozzarne una recensione ad una drastica semplificazione che punti direttamente all’essenza del testo. E l’essenza si può riassumere in tre tesi. 1) La cultura egemone nella sinistra (e nella stessa sinistra radicale) è ormai parte organica dell’ ideologia delle classi dominanti ed ha la funzione di legittimare la globalizzazione, l’Unione europea ed il nuovo capitalismo esaltandone le presunte potenzialità democratiche e libertarie, e salutando l’indebolimento degli stati come un rafforzamento dell’autorganizzazione sociale. Punta di lancia di questa mutazione della sinistra è la cultura postoperaista che si presenta ormai come autoglorificazione di uno strato superiore del lavoro sociale (il lavoro ad alta qualificazione intellettuale) che ha rotto ormai ogni legame con gli strati inferiori. 2) Il soggetto della trasformazione sociale non deve essere cercato nei punti alti dell’organizzazione capitalistica del lavoro, come suggerisce di fare il postoperaismo, ma piuttosto nei punti più bassi o comunque nei luoghi tendenzialmente esterni alla logica della modernizzazione capitalistica: in ogni caso il soggetto non deve essere dedotto da categorie sociologiche, ma deve essere reperito nel corso di un’analisi concreta di ogni fase storicamente determinata della lotta di classe in una fase determinata; 3) Una tale analisi ci dice oggi che, a causa del crescente impoverimento degli strati medio-inferiori del proletariato, della chiusura dei precedenti spazi democratici, dell’integrale adesione della sinistra alla globalizzazione, le esperienze più acute e potenzialmente efficaci di lotta di classe non possono fare a meno di assumere una forma populista. Forma che non può essere esorcizzata, ma deve essere accettata, attraversata e spostata in senso classista ed anticapitalista.
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La sinistra capitalista.
Concludendo un lungo processo di distacco dall’ideologia della sinistra radicale ed in particolare dalla sua variante postoperaista, Formenti (uno dei pochi intellettuali italiani capaci di congedarsi da un’ influente scuola di pensiero senza per questo rinnegare la scelta di campo che motivava la sua primitiva adesione) ci offre una rassegna sintetica e spietata del rapporto strettissimo tra l’ideologia delle frazioni attualmente dominanti del capitalismo e tutte quelle idee indiscusse della sinistra che un tempo promettevano un’emancipazione ancor più radicale di quella social-comunista ed oggi si mostrano pienamente coerenti con gli attuali meccanismi di comando. Soprattutto l’ ”orizzontalismo” (ossia la somma delle idee che esaltano come panacea le relazioni di rete e di base contro ogni forma di “verticalismo” e di stato), il femminismo (con la sua tendenza alla ridiscussione continua dell’identità) e la teoria/prassi dell’ampliamento ad infinitum dei diritti individuali (perseguiti peraltro senza nessuna attenzione al generale contesto di classe nel quale si muovono gli individui stessi), si mostrano completamente funzionali al dominio della merce. Il presunto funzionamento spontaneo dei meccanismi orizzontali non è che il calco del presunto funzionamento del mercato ottimale, e l’antistatalismo di sinistra è concettualmente assai vicino a quello mercatista; la ridiscussione incessante dell’identità è funzionale all’assunzione di stili di vita plurali e mutevoli e quindi al consumo di tipi assai differenziati di prodotti; la rivendicazione di sempre nuovi diritti consente di costruire mercati di sbocco per tecnologie sempre nuove, in cerca del proprio consumatore. E via di questo passo. Una critica spietata, dicevo, che non potrà che irritare gli ambienti della sinistra odierna, ma che certamente aiuterà coloro che da quegli ambienti si stanno allontanando, accelerando il processo e rendendolo più consapevole.
In particolare però, come è ovvio data la provenienza dell’autore, la polemica più argomentata e puntuta è quella riservata al postoperaismo e allo stesso operaismo. Qui Formenti elenca accuse già formulate in altri volumi: la commistione tra il “negrismo” e le utopie tecno-scientifiche (non estranee a certe forme di semi-misticismo à la Teilhard de Chardin), l’inconsistenza teorica delle tesi sul carattere immateriale del lavoro, l’illusione dell’autonomia del lavoro cognitivo rispetto al capitale. In particolare quest’ultima tesi mostra come il postoperaismo sia l’ideologia delle frazioni maggiormente specializzate (ed individualizzate) del lavoro che, in quanto la loro subordinazione al capitale si realizza nella forma dell’apparente libertà e creatività (quando invece il capitale organizza e preforma le stesse modalità di erogazione del lavoro intellettuale e costruisce una pseudo-cooperazione tra lavoratori sulla base di una spietata competizione) illudono sé stessi dichiarando che è in realtà il capitale a dipendere dal “cognitariato”. E, peggio ancora, dichiarano che il cognitariato stesso è la forma generale di ogni lavoro, che tutto il lavoro è essenzialmente uguale ed egualmente indipendente dal capitale, e che quindi non c’è bisogno né di costruire un’alleanza politica tra le varie frazioni del lavoro né di proporsi la riappropriazione per via politica dei mezzi di produzione perché questi ultimi ormai si identificano con la mente stessa dei lavoratori.
Come se non bastasse Formenti rileva, e non posso che essere d’accordo, una profonda consonanza fra queste teorie e gli aspetti progressisti ed economicisti del marxismo che hanno nutrito sia la prassi socialdemocratica che quella stalinista. Tali aspetti si condensano nell’idea che lo sviluppo delle forze produttive sia di per sé ed automaticamente un fattore di emancipazione sociale, e che basterebbe intervenire sulle forme della proprietà e dello stato (blandamente nel caso della socialdemocrazia, drasticamente nel caso dello stalinismo) per liberare tutte le potenzialità dello sviluppo stesso. Il socialismo, oppure la democratizzazione del capitalismo, si costruiscono insomma con gli stessi materiali offerti dal capitalismo, con le stesse forze produttive capitalistiche che non sono, in questa visione, una materia prima da trasformare, ma un meccanismo già dato della nuova società: un contenuto genericamente umano che attende soltanto di essere liberato dalla sua esteriore e caduca veste giuridico-proprietaria. Questo economicismo ha sempre e volutamente rimosso l’intima natura capitalistica, gerarchica ed asimmetrica delle forze produttive, delle macchine e della stessa crescente interconnessione dei processi produttivi (interconnessione è qui un eufemismo per centralizzazione capitalistica). Analogamente, il postoperaismo prende per buona la retorica della “connessione universale” propria delle imprese digitali, scambia la comunicazione col comunismo e rimuove le forme di controllo e di gerarchia proprie del capitalismo digitale e la profonda divisione trai lavoratori che esse inducono, in particolare nel campo “cognitario”. Rilevare una tale analogia serve a Formenti non soltanto come argomento polemico, ma come passaggio teorico per congedarsi da qualcosa che è proprio non solo del postoperaismo, ma dello stesso operaismo delle origini, ossia dall’idea che il soggetto rivoluzionario debba essere cercato nel punto più alto, ossia tecnologicamente più sviluppato, del capitalismo, e debba essere definito come l’elemento che più di altri è interno ai processi d’innovazione organizzativa e che proprio per questo è in grado, dialetticamente, di rovesciare il dominio del capitale. Anche se empiricamente un tale soggetto può, in alcune fasi, apparire poco numeroso o poco consapevole, è importante per l’operaismo individuare una tendenza che, a partire dall’analisi dei punti più dinamici del capitale, ne deduce per l’immediato futuro l’ampliamento quantitativo e la crescita della soggettività politica di una determinata figura di lavoratore, che si candida a riassumere in sé le caratteristiche di tutte le altre figure e ad essere l’unico e già costituito perno del processo rivoluzionario. Secondo Formenti non soltanto le più recenti iperboli negriane, ma anche l’originario metodo della “tendenza”, che pure – mi permetto di aggiungere – si è accompagnato a suo tempo ad analisi assai sobrie e realistiche della condizione dei lavoratori, deve essere abbandonato, perché porta ad assolutizzare alcune figure del lavoro che in realtà sono soltanto contingenti (così come fu contingente l’ “operaio massa” analizzato dai Quaderni Rossi) e perché, soprattutto, in momenti di particolare latenza della lotta di classe, istiga ad inventarsi fantasiosi soggetti e a vedere antagonismi che non esistono, magari eludendo forme più spurie ma più effettuali dello scontro.
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Il soggetto congiunturale.
E’ a questo punto che Formenti ci offre, a mio parere, una delle mosse teoriche più importanti tra quelle che si possono reperire nel libro, una mossa che ci consente non solo di meglio attrezzarci, come avviene con le argomentazioni appena riassunte, alla polemica contro i prossimi Tsipras (non scordiamo che quasi tutti i postoperaisti sono, in quanto progressisti, assolutamente europeisti, succubi delle invisibili sovranità imperialistiche nascoste sotto la prassi tecnocratica unionista e feroci avversari di ogni visibile sovranità democratica, massime di quella nazionale…), ma anche di approssimarci ad una più razionale concezione del soggetto rivoluzionario. Tale soggetto, a parere di Formenti, non può essere dedotto da categorie sociologiche, non può essere desunto dalle dinamiche generali del capitale, ma può essere individuato solo in seguito ad una “analisi concreta della situazione concreta”, condotta in ciascuna specifica congiuntura della lotta di classe. Non si può quindi prevedere quale sia il soggetto (o, meglio, la convergenza di diversi soggetti) che di volta in volta diviene protagonista dei conflitti: la rivolta e le sue forme sono, aggiungo, per definizione imprevedibili proprio perché fuoriescono dalla routine della riproduzione del capitalismo. Questo semplice gesto teorico materialista fa piazza pulita di decenni di elucubrazioni andate a vuoto e ci induce a guardare alla realtà dello scontro politico, ai suoi protagonisti molto spesso “brutti, sporchi e cattivi” piuttosto che alle bellissime figure iperrivoluzionarie (l’operaio massa, poi l’operaio sociale, poi il volontariato, poi la moltitudine, poi le associazioni, poi il cognitariato) che poco hanno a che vedere con la verità, ma ben si conciliano con le preferenze degli intellettuali, soprattutto quando questi possono affermare che sono gli intellettuali stessi, ossia il lavoro intellettuale, il vero protagonista della cooperazione sociale e della futura società. E ci aiuta, il gesto di Formenti, a progredire verso una concezione formale e quindi non sostanziale del soggetto rivoluzionario: il soggetto è un che cosa prima che un chi, bisogna prima di tutto definire che cosa dovrebbe fare, in ogni determinata situazione, un soggetto sociale per iniziare a scardinare l’ordine esistente, e poi analizzare senza pregiudizi la situazione per verificare chi stia di fatto assolvendo per il momento e magari in modo inadeguato a questo compito.
Formenti però dice qualcosa di più. Dice che il soggetto non va cercato nei punti alti, bensì nei punti bassi, non nel vertice della modernizzazione, ma nelle resistenze alla modernizzazione stessa, non nel centro ma nella periferia, non nella scelta etico-estetica degli insider, ma nella ribellione disperata degli outsider. Si può concordare con questa definizione se ed in quanto si presenta come analisi congiunturale, meno se essa diviene una generale indicazione di metodo. Ed in effetti qui Formenti sembra rispolverare in qualche modo il metodo della tendenza, ossia sembra stabilire una sorta di rapporto univoco tra lo sviluppo del capitalismo e quello del suo antagonista, solo che si tratta, in questo caso, di un rapporto inverso rispetto a quello stabilito dal postoperaismo: invece di cercare sempre in alto, Formenti ci invita a cercare sempre in basso. Più che di alto o di basso io preferirei parlare di asincronia del soggetto: non c’è nessun rapporto tra le dinamiche di medio-lungo periodo del capitale e la natura particolare del soggetto che in un determinato momento innalza la bandiera dell’emancipazione. Tale soggetto non è il frutto né della modernizzazione né della sua negazione, è semplicemente effetto di una congiuntura non prevedibile, in cui possono giocare un ruolo “sovversivo” sia le promesse della modernità sia le resistenze ad essa. Un soggetto asincrono, ossia fuori tempo, che può essere tale sia per il richiamo al passato comunitario sia per la speranza nelle promesse del futuro. E qui si apre un’ulteriore questione. Cosa vuol dire essere “fuori” dal capitalismo? Cosa vuol dire essere fuori oggi, ossia nell’epoca della produzione di massa dell’individualità e della produzione industriale delle forme di socialità? Sono convincenti le osservazioni di Formenti sul ruolo delle tradizioni comunitarie russe nella formazione dei soviet, della cultura campesindia nell’esperienza latinoamericana, della comune appartenenza meridionale come collante dell’azione degli operai degli anni ‘70. Ma come ritrovare oggi analoghi supporti comunitari (e dunque extra-capitalistici), e come fare in modo che tali supporti non giochino, piuttosto un ruolo reazionario (come accade col leghismo ma anche con alcune forme di autoisolamento ed autodifesa delle comunità di immigrati)?. Forse si tratta di sviluppare, al riguardo, una vecchia osservazione di Etienne Balibar, secondo il quale più che di proletariato si deve parlare di processo di proletarizzazione: la “classe” è il frutto del continuo passaggio da una condizione non proletaria ad una proletaria, oppure da una condizione proletaria ad una maggiormente proletarizzata perché maggiormente sfruttata. Anche dentro il capitalismo c’è dunque sempre un passato da rivendicare, magari da mitizzare, un tempo di ieri su cui appoggiarsi per poter credere possibile il tempo di domani. La “periferia” del capitalismo, il passato che è condizione del futuro, non sempre o non necessariamente è appannaggio dei rapporti sociali precapitalistici: può anche essere il prodotto del movimento incessante della modernizzazione che sempre distrugge o rende periferiche le forme di vita precedenti (anche quelle già capitalistiche ma non più confacenti alle aumentate esigenze dell’accumulazione). Un movimento che, in quanto è eterodiretto, è subìto dai soggetti: cosa che alimenta continuamente, per reazione, il ricordo di un mondo diverso e migliore.
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Il campo populista.
Qualunque sia il “fuori” da cui parte la rivolta e qualunque sia il particolare soggetto sociale che in ogni diversa situazione ne è il principale attore, si deve convenire con Formenti quando dice che le più efficaci rivolte attuali non possono che essere populiste. Del resto, se la compattezza sociologica della classe è stata programmaticamente dissolta, se l’efficacia politica della sua lotta è stata consapevolmente ostacolata, se i grandi partiti di massa sono stati visti come la ragione di ogni male e se gli spazi di espressione democratica si sono drasticamente chiusi a svantaggio dei lavoratori, è assolutamente inevitabile che la stessa lotta di classe si presenti come populista. A rafforzare le considerazioni di Formenti ne aggiungerei un’altra: rileggendo in chiave non economicista o evoluzionista la dialettica tra forma sociale della produzione e forma privata dell’appropriazione (che è uno dei nomi della contraddizione tra forze produttive e rapporti di produzioni di cui giustamente Formenti critica le precedenti formulazioni), si nota come nelle previsioni di Marx, largamente inveratesi nel capitalismo occidentale degli anni ’70, la dinamica dell’accumulazione conduce ad una dispersione della proprietà (società per azioni) e ad una concentrazione dei lavoratori (grande industria), facilitando così la lotta sindacale e la sua trasformazione in lotta socialista. Al contrario, nella realtà attuale (e per il momento), assistiamo alla concentrazione della proprietà azionaria, o comunque parcellare, all’interno delle grandi istituzioni d’investimento, e ad una parallela dispersione del lavoro che fa sì che la lotta di classe, se e quando riesce ad esprimersi, non lo fa come lotta sindacale e poi politica, ma come generica lotta di cittadinanza che sovente è immediatamente politica, assumendo così forme sociologicamente spurie ma certamente più efficaci della abituale lotta “tradeunionista” nel contrastare la politica dello stato capitalistico. E’ per questo che la lotta di cittadinanza, veste spesso assunta dalla lotta populista, non deve essere considerata sempre come un’elusione della lotta di classe, ma può essere intesa, in determinate condizioni, come effetto di un produttivo spostamento della lotta di classe stessa.
Il populismo, e qui torniamo direttamente a Formenti, non è quindi un nemico da esorcizzare ma è piuttosto la forma storicamente determinata della lotta di classe, è un campo nel quale bisogna situarsi senza timore, per meglio condurre una battaglia per l’egemonia finalizzata a trasformare il populismo stesso in una direzione coerentemente anticapitalista e socialista, sconfiggendone le inevitabili e ben radicate tendenze di destra. Situarsi nel campo del populismo: ecco un’altra cosa che non mancherà di scandalizzare la sinistra benpensante, perché è cosa ben diversa dal tentare, come si dice, di “riconquistare il nostro popolo” spostandolo su un terreno (quello dell’ordinata competizione elettorale, degli oliati meccanismi di governance, della tranquillizzante dialettica tra società civile e stato) sul quale esso non può esprimere la propria incompatibilità sostanziale con le dinamiche dell’ordine attuale. Si tratta invece per Formenti di accettare in toto l’ambivalenza populista (ma è forse meno ambivalente la lotta di classe, che produce sia i consigli operai che i sindacati reazionari?) per tentare di torcerla in una direzione di emancipazione, e non di sostegno a qualcuna delle divere frazioni delle classi dominanti.
L’analisi concreta di numerose esperienze di mobilitazione tendenzialmente o compiutamente populiste in America latina, negli Stati Uniti ed in Europa, analisi che è una delle parti più vivaci del libro, mostra quante forme il populismo possa assumere e quali difficoltà e potenzialità incontri il progetto di un’egemonia di classe e socialista. Questa lotta per l’egemonia sarebbe forse avvantaggiata, credo, da una distinzione concettuale che consenta di tracciare un pur mobile confine tra populismo e socialismo. Riservandomi di tornare in altra sede su questo tema assai intricato, osservo che quasi tutte le caratteristiche del populismo indicate da Formenti (anche sulla scorta degli ottimi lavori di Loris Caruso) descrivono una forma di mobilitazione che può effettivamente essere considerata spesse volte comune sia a movimenti classisti che a movimenti interclassisti. Ma tale forma di mobilitazione deve essere distinta dal populismo come forma di stato che, a mio parere, è invece incompatibile col socialismo. Mi spiego meglio. Aspetti fondamentali delle attuali esperienze populiste sono la netta distinzione tra “noi” e “loro”(e tra “alto” e “basso”), il carattere spesso aclassista della definizione del “noi”, il depotenziamento della distinzione tra destra e sinistra, la difesa dei luoghi contro i flussi, il rifiuto di tutte le forme di mediazione, l’identificazione con un leader carismatico. Orbene, andando alla rinfusa, nel corso di una mobilitazione l’aclassismo del “noi” può essere effetto della positiva compresenza di numerose e distinte frazioni delle classi subalterne, il superamento della distinzione tra destra e sinistra può essere una salutare presa d’atto della subalternità di entrambe le opzioni, la difesa del luogo contro il capitalismo finanziario può indurre a cercare alleanze con altri luoghi, l’opposizione radicale tra noi e loro ed il rifiuto della mediazione possono segnare l’acutizzarsi della mobilitazione, ed il leaderismo carismatico può svolgere una parte delle funzioni del gramsciano “cesarismo progressivo”. Ma quando queste forme di mobilitazione si fissano in un programma politico o, peggio, in un progetto di stato, esse si coagulano in una forma inequivocabilmente autoritaria e di destra, perché stabilmente interclassista, nemica del conflitto sociale, fondata sull’identificazione organica tra popolo, leader e stato, contraria ad ogni corpo intermedio e soprattutto alla fondamentale mediazione del diritto e della costituzione. Non è un caso se, tra le esperienze analizzate da Formenti, quella che maggiormente si avvicina ad un’emancipazione di tipo socialista è proprio quella che meno somiglia ad uno stato populista, ossia l’esperienza boliviana, che si realizza nel rapporto tra una serie di robusti corpi sociali intermedi, un partito che non è una semplice macchina al servizio del leader e uno stato costituzionale estremamente inclusivo. Ed anche nella presenza di un leader altamente carismatico che però non è affatto il perno centrale della legittimazione politica.
La distinzione qui proposta tra populismo come forma di mobilitazione, aperta a diversi esiti, e populismo come forma di stato, organicamente autoritaria e reazionaria, può, io credo, dialogare utilmente con le tesi di Formenti anche perché una delle caratteristiche dell’autore, caratteristica che segna un suo ulteriore allontanamento dal paradigma originario, è il riconoscere l’assoluta esigenza, per i movimenti sociali e di classe, di non cullarsi nell’illusione di un autosufficiente orizzontalismo e di accettare la necessità di farsi stato se si vogliono realmente raggiungere gli obiettivi declamati: e dunque, aggiungo, di pensare ad una forma di stato non organicista né autoritaria. Pur dichiarando a più riprese la propria preferenza per le forme di democrazia diretta e consiliare Formenti dunque non elude il nodo dello stato (e addirittura della sovranità nazionale, laddove troppi si fermano pudicamente alla rivendicazione della sovranità popolare), semplicemente perché sa che soltanto coloro che riescono a vivacchiare nella situazione presente possono evitare il problema, mentre coloro che devono ribaltare la situazione presente non possono fare a meno di pensare ad uno stato nuovo, in cui la sovranità popolare non venga né dissolta nei flussi del mercato, né irrigidita nella comunità organica, ma si realizzi nella legittimazione della differenza e del conflitto tra stato democratico-socialista e associazioni autonome dei lavoratori e dei cittadini. Qui si apre, finalmente, il vasto e da molto tempo inesplorato spazio della dialettica tra stato e non stato (una dialettica frettolosamente rimossa dalle speculari fissazioni dello statalismo e dell’antistatalismo), che tanto più costituirà un oggetto di indagine quanto più il nesso tra la crisi e la crescita del movimento reale porrà nuovamente il problema della trasformazione sociale come problema concreto.
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Il ritorno del rimosso.
Fin qui ho elencato diversi meriti del lavoro di Formenti. Ma ce n’è un altro, forse meno visibile ma, in prospettiva, non meno importante. La critica costante del modello postoperaista ed il confronto costante con gli effetti della crisi economica, sociale e geopolitica attuale hanno infatti condotto Formenti a frequentare alcuni temi teorici notevolmente astratti (e quindi notevolmente vicini all’essenza dei problemi) di cui non si parla più quantomeno dagli anni ’80 dello scorso secolo, ossia da quando si è interrotta la pensabilità della trasformazione sociale, ma che tornano ad essere posti proprio da quella riapertura della storia che si riassume nella fine del mondo unipolare. La questione del superamento dell’economicismo e quindi dell’abbandono dell’idea di neutralità delle forze produttive, fu oggetto di grande discussione a partire da materiali eterogenei ma pregnanti quali l’esperienza della Rivoluzione culturale cinese, la riflessione di Charles Bettelheim, le stesse tesi di Panzieri sull’uso capitalistico delle macchine. La questione dell’impossibilità di pensare la transizione al comunismo come analoga alla transizione tra feudalesimo e capitalismo, a cui Formenti dedica un breve ma interessante cenno, fu uno degli oggetti di un importante dibattito sui modi di produzione precapitalistici in cui non pochi sostennero che le passate forme di società andavano considerate come forme autonome e non come imperfette approssimazioni alla razionalità capitalista. Il che autorizzava a dire che, specularmente, il comunismo non poteva essere pensato come prosecuzione e perfezionamento di tale razionalità, e cioè come sviluppo illimitato delle forze produttive, ma come gestione ragionevole delle forze produttive in funzione della riproduzione di rapporti sociali egualitari consapevolmente scelti. Infine le questioni della natura congiunturale e “causale” del soggetto, dello spostamento della contraddizione di classe, della fallacia del progressismo furono diversamente discusse a partire sia dai lavori di Lukács, a cui Formenti fa esplicitamente cenno, che da quelli di Althusser e di Benjamin. Il tutto nel contesto di una riflessione epistemologica che vantava i nomi di un Kuhn, di un Lakatos, di un Feyerabend, prima che un uso ideologico della teoria della complessità semplificasse ogni cosa dichiarando che il mondo era forse conoscibile, ma certo intrasformabile.
Dico tutto ciò, riducendo ad un breve cenno ciò che dovrebbe essere oggetto di una attenta riflessione collettiva, non perché nelle discussioni di allora vi fossero le verità necessarie all’oggi, ma perché è importante capire che non si parte da zero, e che se si è indotti a ritornare ai punti alti della teoria ciò è sintomo del fatto che le cose si fanno davvero serie. E il libro di Formenti ci aiuta certamente a comprendere la serietà delle cose, ossia la loro radicalità, e la necessità di un lavoro teorico ad ampio raggio che di questa radicalità sia espressione e condizione.
Foto di Patrizia Cortellessa
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