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Una via di fuga da noi stessi

Il filosofo italiano Giorgio Agamben ha pubblicato nel 2016, per le edizioni Nottetempo, un profondo e importante libro dedicato al Pulcinella di Giandomenico Tiepolo. Il titolo del volume (Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi) richiama espressamente la formula con cui il pittore, figlio del più noto Giambattista Tiepolo, volle definire le sue 104 tavole di disegni dedicati alla nota maschera partenopea. Già nel periodo 1793-1797 (anno della caduta della Repubblica di Venezia), l’artista, ormai anziano, aveva impiegato le proprie energie per affrescare con un Pulcinella innamorato e una Partenza di Pulcinella la propria villa di Zianigo, riservando quelle immagini alla decorazione di una piccola camera, forse destinata al riposo o alla meditazione. Come se Tiepolo volesse ricapitolare la propria vita attraverso una relazione intima e interlocutoria con Pulcinella. Poco dopo si dedicò alle 104 tavole del Divertimento per li regazzi.

In quei disegni Pulcinella è rappresentato in molteplici situazioni, a compiere mille mestieri o a divertirsi. Pulcinella nasce, si ammala, muore, risorge, viene processato, impiccato e poi graziato; un Pulcinella bambino impara a camminare e un altro a corteggiare le ragazze. E in ogni disegno non si ravvisa mai un solo Pulcinella, ma molti, reiterati omuncoli goffi in camicione bianco, maschera nera e cono mozzato sulla testa.

Forse l’anziano pittore percepiva l’esigenza di misurare la propria coscienza in rapporto al padre, che pure aveva rappresentato ampiamente la maschera napoletana, sebbene con accenti comico-mostruosi e meno enigmatici, oppure – più intimamente – intendeva riponderare in Pulcinella la propria vita, tracciare un bilancio d’esistenza. Comprendere questo momento simbolico, per Agamben, diventa occasione per un’importante meditazione filosofica.

Nei disegni del Tiepolo convivono espliciti richiami cristologici ma anche mitologici. In particolare, Pulcinella sostituisce in alcuni tratti la figura che Cristo aveva occupato in altri suoi lavori, ma più spesso quella dei satiri, esseri semi-umani che popolano l’immaginario del mondo classico. Nel riferimento a Gesù o al satiro, emerge dunque Pulcinella come ente intermedio, evanescente sintesi di spirito e corpo (in lui mai distinguibili), così come nella sua maschera è indecifrabile uno stato d’animo univoco: mai chiaramente comico, né tragico. Tale misteriosa ambiguità è la cifra filosofica di Pulcinella, che chiama in causa la nostra coscienza.

Secondo Agamben, quel personaggio rappresenta per certi versi la medesima funzione ricoperta dalla parabasi nel teatro greco, intesa come interruzione dell’azione scenica. Il coro o l’attore, nella parabasi, si toglie la maschera e fuori dalla narrazione esprime opinioni personali rompendo l’ordine della struttura scenica. Ma si tratta di una diversione che non conduce lontano dal senso dalla vicenda rappresentata. L’azione scenica – ritenuta scontata nei suoi sviluppi – viene interrotta per far posto a una via d’uscita che riconduce all’interno, all’originario, al senso autentico. Pulcinella è questa interruzione del dramma, come appare evidente dal suo motto: ubi fracassorium, ibi fuggitorium. Ma non è una fuga verso nuovi luoghi, è una fuga dentro sé stessi, che procede dal fuori al dentro, dalla scontata traccia di un’esistenza preconfezionata, a un’autenticità smarrita. Ma forse si tratta di una fuga impossibile.

Come ampiamente riconosciuto, esiste un forte legame tra il comico e il tragico. Il primo esprime l’impossibilità di uscire dal proprio carattere, mentre il personaggio tragico appare svincolato dal carattere ma prigioniero di un destino. E tuttavia, a ben leggere la relazione, il fato costituisce la struttura celata e misteriosa in cui è incastrato il carattere, il quale in fondo altro non è che l’espressione compiuta del proprio destino. Ma il Pulcinella di Tiepolo è al di qua del comico e del tragico, perché non ha carattere, e dunque neanche un destino. Scrive Agamben: “Pulcinella non è un sostantivo, è un avverbio: egli non è un che, è soltanto un come […] egli è la raccolta e quasi l’accozzaglia, al livello più basso, di tutti i tratti che caratterizzano i personaggi della commedia” (p. 53). Per questo nei disegni del Tiepolo egli non è individuo particolare, Pulcinella è sempre “masnada”.

Nel quarto capitolo del suo libro Agamben rievoca efficacemente il mito di Er. Nel racconto platonico le anime in procinto di incarnarsi in una nuova esistenza scelgono la propria nuova forma di vita. Possono preferire un’incarnazione animale o umana, un’esistenza da tiranno o da mendicante, da meretrice o da sapiente. Quel che non possono scegliere è la virtù, che dipende invece dal grado di desiderio, di amore che si prova per essa. I più, secondo il mito, scelgono la propria forma di vita sulla base dell’esperienza accumulata nella vita precedente, come l’anima di Agamennone, che avendo maturato disprezzo per il genere umano, decide di incarnarsi in un’aquila. Molti trascurano che in ogni forma di vita è implicito un destino, talvolta amaro, come capita a chi si avvede troppo tardi di aver precipitosamente scelto di diventare un potente tiranno, per ritrovarsi conseguentemente costretto a compiere atti malvagi. Ma la colpa è di chi sceglie – ammonisce il mito – il dio non c’entra.

Se la scelta del nostro carattere dipende dalla forza del passato, dall’abitudine, dall’adesione a un “tipo”, è come se scegliessimo, insieme a un modo di vivere, una vita già vissuta, per cui il vivere si conforma a un ri-vivere. In questi termini, il carattere che ci siamo scelti, l’identità che preferiamo, cui aneliamo, nel mondo auto-rappresentato, è un non-vissuto. Scrive Agamben: “la seità, l’essere sé, si esprime in un carattere o in un’abitudine. In ogni caso, in un’impossibilità di vivere” (p. 110).

Pulcinella non si ferma a uno stile di vita, ma nei disegni del Tiepolo li attraversa tutti, senza assumerne nessuno come destino. È come se entrasse in un carattere e ne fuggisse nello stesso istante. Vive senza costruirsi un’immagine della propria vita. Pulcinella, dunque, è privo di biografia e di memoria. Egli non s’interroga sul senso della propria vita, sui risultati raggiunti o mancati: “il segreto di Pulcinella è che, nella commedia della vita, non vi è un segreto, ma solo, in ogni istante, una via d’uscita” (p. 130).

Pulcinella è un modello inarrivabile. Se ogni tipo umano, o carattere, è pensabile e rappresentabile, perché corrispondente a un’idea, il dispositivo di fuga incarnato da Pulcinella, suggerisce Agamben, è come un’idea platonica, di cui non esiste la cosa.

Rispetto alle considerazioni riposte in questa raffinata analisi del Pulcinella di Tiepolo, aggiungerei qualche elemento critico: quand’anche prendessimo coscienza del grado di falsità e di rinuncia alla vita che è implicito in ogni nostra scelta di carattere, non riusciremmo a sottrarci a quella scelta. Questo è il tragico in noi, ma è un dramma che non scalfisce Pulcinella, il quale non ripudia l’avere una personalità per privilegiare l’adesione a una dimensione esistenziale animalesca o brutale. Pulcinella semplicemente fugge dal bivio attraverso una riconduzione dell’anima al corpo. Ma anche qui occorre evitare l’equivoco. Nonostante la sua origine gallinacea e la sua prossimità al mondo animale, Pulcinella vive la vita degli uomini, non delle bestie, e tuttavia riesce a vivere senza artifici ideali.

L’alternativa al dualismo tra corporeità e costrutto personologico non è la vita vegetativa, ma è quella dimensione di corporeità spiritualizzata o pensiero corporeo, in virtù della quale Pulcinella volteggia come un provetto trapezista, come nella carta n.46 del Divertimento per li regazzi, oscillando graziosamente tra cielo e terra. Pulcinella ci riesce, noi no.

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