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Italia. Partono i ricercatori, restano i ricercati

La battuta nel titolo è qualcosa di più che un gioco di parole. Sta diventando una costatazione del degrado quasi irreversibile di questo paese, consegnato a una classe politica di quacquaraqua, pronti a vedersi al primo che passa dal suo scranno sventolando mazzette di banconote o benefit “in natura”.

Due notizie, oggi, in successione, ma presentate come slegate e indipendenti. Da un lato le polemiche sui cosiddetti cervelli in fuga, ovvero i laureati dottorandi e ricercatori con eccellenti capacità che – nel’accademia italiana, incancrenita nella distribuzione familistico-clientelare delle cattedre – non trovano né una collocazione professionale adeguata né un riconoscimento altrettanto adeguato, che sappia cioè mettere a disposizione quelle competenze per lo sviluppo del sapere, dunque anche del paese. Abbiamo del resto dovuto sopportare ministri dell’economia che teorizzavano – come un frequentatore del bar sport di montagna – che “la cultura non si mangia”. Il che, detto nel paese che ancora custodisce il record assoluto di opere d’arte, quindi possibile primo punto d’attrazione turistico del pianeta, testimonia quantomeno dell’ignoranza in economia. In senso stretto.

Anche l’accademia è stata contagiata dalle tabe che affliggono “la politica”. Vista corta, ignoranza, clientelismo, corruzione, rischio zero. Una volta si criticavano – giustamente – “i baroni”; e l’epiteto insultante è rimato in voga. Il problema è che “i baroni” non ci sono più e ora andrebbero quasi rimpianti. Quelli, infatti, erano autentici pozzi di scienza che – come dire – spesso approfittavano del loro ruolo, promuovevano alla successione i loro allievi prediletti (alcune volte cum grano salis, altre volte proprio no), trasformavano il loro dipartimento in una fortezza. Quelli di oggi, spesso portaborse premiati con una sinecura per i loro servigi, spesso beneficati dall’obbedienza a un potente invece che dalla sapienza, hanno mantenuto tutti quegli atteggiamenti negativi. Ma non producono più nulla di rilevante (le eccezioni ci sono sempre, specie nelle facoltà scientifiche più “dure”, ma non sono maggioranza). Al punto da non saper riconoscere neppure le eccellenze che, nonostante loro, emergono lo stesso.

Quando poi una ministra – come la Giannini – spedita lì per concludere l’opera di devastazione del sistema dell’istruzione pubblica, se ne esce “vantandosi” dei risultati ottenuti all’estero da giovani ricercatori costretti ad emigrare… giustamente raccoglie dure reprimende da parte dei ricercatori stessi e qualche perentoria penacchia sui social.

L’altra notizia è così ordinaria che merita una citazione solo per accostarla, per contrasto, alla fuga dei ricercatori: un nuovo scandalo sulla sanità si è abbattuto sulla Regione Lombardia (dopo quelli dell’epoca Formigoni, Don Verzé, la clinica Santa Rita degli orrori, ecc). In manette sono finiti Fabio Rizzi, 49 anni, ex senatore, plenipotenziario di Roberto Maroni per la sanità e “padre” della riforma regionale del comparto, provvedimento di cui il governatore lombardo si è detto più volte fiero. Insieme a lui altre 18 persone. Particolarmente scenografico l’arresto di Rizzi, avvenuto in consiglio regionale mentre l’assemblea stava commemorando – mai ipocrisia fu più palese – le “vittime delle forze dell’ordine”. Ovvero i caduti e i feriti dei vari corpi di polizia, non certo le vittime provocate da pestaggi e torture nelle caserme o nelle strade…

Si sa come vanno questa cose. Sono proprio i mentitori seriali, i corrotti e gli intrallazzatori peggiori, nella classe politica attuale, a gridare di più a “legge e ordine”, a ideare ronde contro migranti e mendicanti, a chiedere “la certezza della pena”. Per i poveri, naturalmente, e l’esenzione per sé.

Bene. Le due notizie illustrano – ognuan per la propria parte – la realtà di questo paese. Da un lato le capacità costrette a trovare fortuna all’estero (a proposito delle retorica sul “merito”!), dall’altro gli intrallazzoni che non potrebbero combinare nulla in nessun altro paese. I secondi restano comandano, ingrassano e s/governano.

Da Renzi all’ultimo consigliere comunale dei gruppi di potere dominanti (anche qui, poche eccezioni, importanti proprio per la loro rarità) il sistema di governo è sempre lo stesso: favorire gli affari, svendere il patrimonio pubblico (che fine faranno gli immobili di proprietà pubblica recuperati dalle inchieste chiamate “affittopoli”?), degradare i meccanismi istituzionali ed economici di riproduzione. Che sia del sapere o delle capacità produttive (quante industrie di qualità sono ancora basate e funzionanti sul territorio nazionale? Ben poche, temiamo…).

Tutto ciò, alla fine, porta a un punto di non ritorno. Come ben spiegava Marco Passarella, nell’intervista data più di un anno fa, agli attivisti della campagna Noi Restiamo (“cervelli che non vogliono fuggire”, insomma):

ho l’impressione che ora si stia per oltrepassare una soglia di non ritorno. Le economie sono piene di non-linearità. Tu puoi, come dire, perdere terreno rispetto ai tuoi concorrenti, un sistema produttivo si può impoverire gradualmente fino a una certa soglia, senza che questo comprometta la reversibilità del sistema. Oltre quella soglia critica c’è, però, un salto qualitativo. Temo che il sistema produttivo italiano si stia avvicinando, se non l’ha già oltrepassata, a quella soglia.

 Guardando le reazioni quotidiane della classe politica, e ancor più la fuga dalle responsabilità degli imprenditori italiani, ci sembra che quella soglia sia ormai decisamente alle nostre spalle. Che sia insomma ora di dar battaglia sociale e politica per evitare di scendere troppo in profondità nel baratro.

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