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La stanza profonda e il “buco nero” degli anni Ottanta

Il fondo oscuro della nostra identità, la chiave di comprensione di tante trasformazioni negli orizzonti di senso in cui ci muoviamo giorno dopo giorno, giace sepolta in quel decennio oscuro – gli anni Ottanta – così cruciali per le generazioni che li hanno attraversati. Tutte le classi sociali, a diverso titolo, furono travolte dal mito dell’arrivismo, declinato in Italia nella forma del craxismo rampante.

Ma coloro che si formarono come individui tra gli Ottanta e i primi Novanta, furono segnati profondamente da una radicale scissione interna e percepirono, come dato sociale acquisito, la frantumazione progressiva dei legami inter-personali.

All’individualismo radicale di quel decennio, opposero resistenza le diffuse sub-culture o forme di ritualità che richiamavano, trascinandosi negli anni Novanta in differenti forme di aggregazione, l’istanza della collettività, l’esigenza della relazione cooperativa. Erano questo i movimenti dei centri sociali, che in chiave politica dimostrarono un robusto dinamismo controculturale. Ma non c’erano solo loro.

In tutte le società sviluppate si moltiplicavano forme di micro-aggregazione che nascondevano nel proprio fondo una natura dialettica: il bisogno di fare comunità, e il rimanere al tempo stesso isolati. Erano gruppi monadici. Tra questi piccoli moti di resistenza al gretto arrivismo yuppie, possiamo certamente enumerare le nicchie di cultori dei giochi di ruolo, che iniziarono a riunirsi intorno a “negozi” (che poi somigliavano e appaiono tuttora dei luoghi di incontro e condivisione, più che dei contesti commerciali) di carte, gadget, dadi e manuali di gioco.

Vanni Santoni, nel suo ultimo romanzo, La stanza profonda (Laterza 2017), ha ricostruito quel mondo, e ha scritto un piccolo capolavoro.

Il protagonista racconta di sé a sé stesso, ricorrendo alla seconda persona singolare, riattraversando come in un Bildungsroman il significato e le tappe della progressiva conquista di un gruppo sociale: un crocchio scalcagnato di giocatori, che per ben vent’anni si perpetua in raduni settimanali per tirare tardi e immaginare contesti fantasy, epoche post-nucleari o ambientazioni storiche in cui svolgere – secondo regole messe a punto negli anni – scontri, incantesimi, azioni combinate e avventure di ogni genere.

Il contesto in cui si muovono i personaggi  del romanzo è quello dischiuso dalla diffusione del gioco di ruolo Dungeons & Dragons. La parola chiave è dungeon, un termine intraducibile che sta per prigione sotterranea, labirinto di segrete o sistema di cunicoli. Il dungeon non è solo l’ambientazione fantastica intorno a cui prendono forma numerose avventure nei giochi di ruolo. Il dungeon è, suggerisce lo stesso Santoni, “il luogo del subconscio”, anzi, per essere precisi: “è il subconscio, dove il dettaglio si svolge in archetipo e il tempo si riorganizza a sistema di scelte” (p. 36).

Ci si inabissa nel dungeon, perché lì c’è vita, e non è meno reale di quella che viene rappresentata fuori, nelle strade, nella televisione o nei supermercati.

E il punto chiave è questo. Dobbiamo provare a superare la distinzione apparentemente scontata tra reale e immaginario. Cosa c’è di reale, ad esempio, nel denaro? Una cifra sul nostro conto corrente è solo un simbolo matematico, inventato parecchi secoli fa, per rappresentare un riconoscimento sociale di una potenzialità. Quindi un simbolo che rappresenta una possibilità. La maggior parte dei nostri scambi e dei nostri comportamenti nel mondo “concreto” ruotano intorno al guadagno o all’accumulazione di denaro. Quanto c’è di reale in tutto questo? Non ci rendiamo conto che siamo in una dimensione simbolica, un sistema di relazioni e riconoscimenti puramente fantastico, fondato sul sistema della competizione, dell’aggressione, delle relazioni fittizie e degli obblighi sociali da rispettare? In fondo, a pensarci bene, il contesto “concreto” che abitiamo è come un gioco di ruolo, in cui ogni mattina impersoniamo il nostro personaggio secondo la scheda delle qualità o missioni che riteniamo di avere (o che forse sono suggerite da qualche “master” di cui non abbiamo perfettamente chiara l’identità) e ci muoviamo in un mondo che è prevalentemente finzione.

Il gioco di ruolo non è quindi una  fuga in un mondo immaginario, ma è esso stesso un immaginario che si contrappone a un altro orizzonte fittizio. Perché? Beh, semplicemente perché è più bello e più appagante.

Nulla di diverso dalla proiezione della propria vita nell’orizzonte virtuale delle relazioni online attraverso i social games o in altre comunità telematiche. Non è che il mondo di internet sia migliore del mondo reale. Ma tra un mondo irreale e un altro, sceglieremo sempre quello più interessante.

Lo stesso vale per chi si rifugia nelle letture compulsive di romanzi e fumetti, oppure nella musica, o anche nella droga. Se sono costretto a vivere in un sistema fittizio di “ambientazioni sociali” insopportabili, a questo punto l’immaginario e le regole me le costruisco io, con i miei amici, e buona notte al secchio, il resto diventa solo un contorno. Dal punto di vista politico, questa distorsione dell’auto-percezione nei rapporti sociali ha avuto un effetto drammatico:  la fine delle grandi aggregazioni di massa.

Gi anni Ottanta hanno reso talmente potente la costruzione simbolica del turbo-capitalismo e dei nuovi rapporti competitivi determinati da un consumismo idiota, che a quella intelaiatura di miti appare inevitabile contrapporre un immaginario diverso, più umano, più gradevole, più prosociale. Non è un caso che Santoni insiste molto sul dato di dissociazione dei primi fanatici dei giochi di ruolo, respinti dai loro contemporanei e felicemente isolati nella loro inadeguatezza ai valori dominanti: “vedi quella manica di ribeuti piegati sulle schede in attesa del responso, senti il fiato marcio di tutti per la giornata passata al chiuso, le battute da fissati emesse a mezza bocca, le magliette schizzate di Fanta, la forfora sulle spalle, gli occhiali riparati col nastro isolante” (p. 45). Ma questi reietti degli anni Ottanta e Novanta, erano a tutti gli effetti un’avanguardia. Internet, e la sua popolarità, deve molto a quel mondo.

La storia raccontata da Santoni procede spedita, tra spaccati sociologici della provincia italiana, momenti di crescita personale e di amicizia, con alcuni episodi divertenti e qualche brutta sorpresa, per concludersi in una riflessione profonda sulla propria esistenza. In effetti, e il titolo lo suggerisce, la stanza profonda non è semplicemente il sotterraneo di una villetta in cui giocare con la fantasia, è un nostro luogo interno, cui forse non possiamo accedere completamente, ma attraverso il quale possiamo vedere oltre noi stessi.

  • da popoffquotidiano.it

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